Nel 1987, a Fontanelle di Sotto Il Monte (Bergamo), Stefano Bottarelli, allora laureando, ebbe modo di incontrare David Maria Turoldo e di ascoltarne le acute e appassionate riflessioni su Pasolini, che al padre servita fu figura sempre cara di amico, poeta e pensatore in sintonia. Ne nacque una intervista registrata al magnetono che, poi trascritta e controllata dallo stesso Turoldo, fu pubblicata dalla rivista “L’immaginazione” (Manni ed.), con prefazione dello stesso Bottarelli, mentre ancora nel 2011 ne fu presentato il testo da Renzo Salvi della Rai alla festa patronale dell’Eremo di Sant’Egidio di Sotto Il Monte.
Un grazie all’autore per averci fatto conoscere questo episodio, che dà modo di ricordare anche David Maria Turoldo, di cui non solo il Friuli, terra natale, si appresta nel 2016 a celebrare la figura di uomo libero e religioso indignato e profondo, con l’occasione del centenario dalla nascita. Qui di seguito due testi: l’introduzione del curatore Bottarelli e il ricordo pasoliniano di padre David per il “fratello ateo” Pier Paolo.
Il diavolo secondo l’angelo. Intervista a David Maria Turoldo (1987)
a cura di Stefano Bottarelli
La vita di Padre David Maria Turoldo si è centrata nel segno della parola poetica e liturgica. Il cardinale Martini a Milano per molto tempo ha insistito sul valore della parola al centro della fede e premiò Turoldo che credette nella parola sacra della poesia. Questa fede rese Turoldo alto testimone del Novecento.
Tra le mura romaniche dell’eremo di Sant’Egidio, nel silenzio delle prealpi bergamasche e dopo la messa domenicale nella quale ancora tuonavano in me immagini potenti e liberatorie della omelia a tutto campo di Padre David, con lui salii una scaletta di legno e il Padre, dopo un appunto al sacrestano Giuseppe per una lampadina dimenticata accesa la sera prima, mi condusse nel Centro di studi ecumenici “Giovanni XXIII” il mattino del 16 agosto 1987, a commemorare un suo caro friulano, Pier Paolo Pasolini.
Ho inserito tale testimonianza di Turoldo su Pasolini nella mia tesi di laurea in Storia della letteratura moderna e contemporanea – dal titolo In margine alle Ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini – discussa con il prof. Umberto Colombo presso la Facoltà di Magistero dell’Università Cattolica di Brescia il 14 aprile 1988.
Avevo previsto un’intervista su Pasolini, preparando delle domande, ma subito mi investì la forte voce di un uomo grande di spirito e di statura, bianco di capelli stagliati sullo scuro del saio: fu un monologo che mi avvolse, caldo di nostalgie friulane e di denuncia sociale.
Dalla complessa personalità di Pier Paolo Pasolini l’isagogia di Turoldo interpreta l’Italia intellettuale e politica degli ultimi decenni, dal 1956 (anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria cui segue la pubblicazione delle Ceneri di Gramsci), attraverso la tragedia dell’assassinio di Pasolini a metà degli anni Settanta. Il monologo si fa ricamo di relazioni nelle quali è il sacerdote Giuseppe Marchetti, storico e linguista friulano, direttore del quindicinale in lingua friulana «Patria del Friuli» [«La Patrie dal Friûl», fondato nel 1946, ndr.], a presentarsi tramite iniziale di un’amicizia poi irrobustita tra il servita e Pasolini, tanto diversi e accomunati da una volontà di riscatto dei deboli del pianeta.
In una lettera a Luigi Ciceri, altro studioso friulano, a proposito di una «nota illustrativa» di Marchetti a un libriccino della poetessa Cantarutti e a proposito di una presunta appartenenza di costui al gruppo designato nella stessa epistola dei «cruscaioli friulani», Pasolini scrive da Roma il 13 gennaio 1953:
Lo stesso Don Marchetti che è intelligente e ben preparato è inceppato da questa falsa istanza morale, che si risolve nel più perfetto immoralismo: perché la storia insegna che le conservazioni sono sempre immorali, essendo contrarie alla vita che non è mai la stessa. (1)
La vis provocante più che provocatoria di Pasolini si istruisce per convinzioni gnomiche quanto poetiche. Anche da ciò, nella sciolta del discorso di Turoldo, percepisco che ha simpatia per Pasolini e comprende il dramma delle sue contraddizioni. Afferma di preferirlo a Eugenio Montale perché rende la passione una ragione di poesia e non viceversa. Lo trova un povero vicino all’Evangelo e giustifica la sua lotta; soprattutto non lo condanna, piuttosto lo capisce.
Davanti alle sue parole riaccolgo in me un’immagine che accomuna il frate servita Turoldo al poeta scapestrato Pasolini: la campagna friulana, il suono lontano delle campane dei paesi, le sagre, la miseria contadina e il sapore delle lotte agrarie del romanzo Il sogno di una cosa, la sopravvivenza umile nella natura.
Turoldo ebbe nascita e infanzia contadina, Coderno del Friuli non è distante da Casarsa della Delizia di pasoliniano abbandono estivo, quest’ultima «di cà da l’aga» del Tagliamento rispetto a Udine. In quella campagna ancora lontana da una nazione designata «infetta» nelle Ceneri di Gramsci vive il ricordo di radici insostituite e tenaci. Le rivoluzioni nasceranno sempre in città, la campagna è la terra della rassegnazione, spiega Turoldo.
Tutti e due i poeti lasciarono la stagione friulana per l’esperienza del nuovo: Pasolini a Roma, cacciato, fra gli immigrati emarginati nelle baracche; Maria Turoldo a Milano, a Nomadelfia, in Sud Africa, anch’egli fra chi soffre. Entrambi emarginati dalla Chiesa cattolica.
Vengono da due generazioni diverse ma si somigliano per regione natale e per impegno sociale, perché non abitano il Palazzo pasoliniano con la «P» maiuscola, ma s’accostano alle coscienze più semplici della gente per ascoltarne le voci. Certo Turoldo nell’intervista evidenzia anche l’irrequietezza del conterraneo, ma ne fa un esito della sua innocenza.
Pasolini fu uno degli intellettuali più soli della civiltà letteraria italiana del Novecento. Quando si dice scomodo, si ripiega su un termine che cela in lui una infinita pietà per gli altri. L’epistolario che Giulio Einaudi a metà degli anni Ottanta consegnò ai lettori sente di un’intensa comunicazione con tutto il mondo della letteratura nazionale di quell’età: realmente molti altri autori, Eugenio Montale fra i primi, vollero isolare Pasolini, perché l’universo culturale ad essi coevo era conflittuale e tendeva a colpire le coscienze più autonome. Oggi entrare in Europa significa pure vincere le regressioni che hanno impedito a Pasolini di vivere e scrivere ancora.
Gli sterminati testi che sopravvivono di costui ci richiamano ad un grande ma non unico amore: la letteratura. Comprese che siamo quello che scriviamo più di quello che pensiamo, se scriviamo quello che pensiamo. L’altro grande amore era la gente, non nel senso generico di umanità ma in quello realistico di popolo, perché ampio fu in lui il senso nazionale dell’arte. La sua sovranità spaziava su questi due mondi come su due complementari universi di discorso di cui ogni giorno scopriva la magia.
Anche Turoldo amava gli uomini che attestano il proprio essere nel cosmo da poeti. Visse di poesia e ne fece profonda missione. Precisamente amava gli artisti originali nella propria novità, come Pasolini, il quale scrisse che la vita è un eterno ricominciare daccapo. Ben mi sembrò saperlo anche Turoldo, che mai fino ai Canti ultimi si stancò di predicare il verbo di Dio.
Scrisse Pasolini da Versuta a Sergio Maldini, giornalista e scrittore friulano, il 27 dicembre 1945:
Non per nulla, vedi, sono forse l’unico in Italia, e spero consentitamente, tra coloro che scrivono versi, che non imiti Montale, né Saba (Betocchi, Penna, ecc.ecc.) né i simbolisti francesi, né, infine, i migliori romantici, e per cui si possano fare i nomi di Leopardi, del Foscolo, forse, e anche di certo ambizioso Pascoli con certi suoi ottimi endecasillabi. (2)
Mi pare circoscrivano questi autori il campo letterario cui attingono i gusti lirici di Pasolini. Certo grande secondo me è il debito a Giacomo Leopardi, a proposito del quale l’epigrafe alla prima sezione – Davanti al portale – dei turoldiani Canti ultimi così si fissa:
La vita che mi hai ridato
ora te la rendo
nel canto.
Maria Nicolai Paynter, nel suo Perché verità sia libera, studio sull’esperienza poetica di padre David, fa notare qui una risonanza del verso 59 della canzone leopardiana All’Italia, così composto:
Alma terra natia,
la vita che mi desti ecco ti rendo.
Chiosa la Paynter :
Turoldo rende più incisiva l’azione cambiando il primo verbo dal passato remoto al passato prossimo e poi – con un semplice prefisso – evoca il divino Soggetto e crea un verso capace di contenere, in una sola immagine, genesi, caduta e redenzione. Il movimento scandito dall’alternanza dei pronomi di prima e seconda persona è ora chiaramente verticale. Inoltre la sostituzione del dimostrativo “ecco” con la locuzione temporale “ora” e l’aggiunta dell’ultimo verso completano l’idea dei tre tempi presenti nell’istante eterno. La parola “canto”, intesa come segno ed espressione dello Spirito, compie l’immagine trinitaria e, riallacciandosi alla parola iniziale, chiude anche strutturalmente il cerchio. (3)
Ancora, secondo la studiosa dell’Hunter College di New York,
Leopardi cantava la gloria passata e il suo generoso slancio nasceva dalla visione tragica di una patria terrena da riscattare ; il canto di Turoldo emana, viceversa, da una visione serena e tende verso la dimensione metafisica ed escatologica. (4)
E’ evidente che Turoldo conversa – beato – con Dio, Leopardi con la propria Penisola e l’affetto è il medesimo quando l’uno fa di Dio la propria Terra, l’altro ama la patria come divina. Sanno da un secolo all’altro che la vita ci è data fino all’ultimo da difendere per qualcun altro che ha bisogno tutti i giorni della nostra forza: sia Dio, la Patria o la Verità. A noi la scelta per un referente cui renderemo la vita un tempo.
Pasolini la rese la notte del 2 novembre 1975 in un campetto di calcio, suo sport preferito, presso Ostia.
Ricordava Alberto Moravia nella sua orazione funebre per lo scrittore in Campo de’ Fiori a Roma – guarda caso l’ agorà del supplizio di Giordano Bruno nell’anno 1600 – la gravità della perdita di Pier Paolo, perché era un poeta e di poeti ne nascono solamente pochi ogni secolo.
Prima di leggere la viva voce di David Maria Turoldo, sicura e sciolta ma mai spiccata perché non vuol convincere, piuttosto raccontare una vita, piaccia come dedicato a Pasolini questo componimento del gruppo Exinanivit in Canti ultimi, dal titolo Oltre la foresta:
Fratello ateo, nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio che io non so darti,
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo
oltre la foresta delle fedi
liberi o nudi verso
il nudo Essere
e là
dove la Parola muore
abbia fine il nostro cammino. (5)
Penso che la volontà di entrambi i personaggi fosse quella di unificare le coscienze in una comunione che salvasse gli uomini insieme a loro stessi : una comunione ecclesiale in Turoldo, espressiva in Pasolini. Ancora l’antica questione della parola, anzi del verbo di biblica ascendenza. Appare allora eroica la difesa della parola contro il Male in entrambi i personaggi.
Di Pasolini l’editore Livio Garzanti appone fra l’altro come post-scriptum al volume di autori vari da lui edito Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, dedicato alla vicenda pasoliniana, queste riflessioni:
Dell’eroe Pasolini aveva il coraggio, il desiderio disperato, mortale di combattere sempre, senza mai rinunciare all’enigma e al tormento tra Ormuzd e Arimane, tra la dolcezza più tenera e la più tragica rappresentazione della violenza in sé e nel mondo attorno a sé. (6)
Per questo
Pier Paolo Pasolini è stato un eroe unico nella storia della nostra letteratura e un poeta che ha saputo dare sostanza alla retorica riscattandola dagli umanisti professori che lo hanno preceduto. Forse tra secoli qualcuno potrà scrivere la tragedia “Pasolini”. (7)
A conclusione di millennio e dopo gli entusiasmi giubilari, ricordo quello che Turoldo sottolinea nella menzione stessa dei funerali tumultuosi dell’altro friulano e al di là della tragedia: di essere stato l’unico sacerdote ai funerali di uno fra i massimi poeti contemporanei italiani.
Ma già, pensai davanti a Turoldo che mi congedava alla pianura agostana, Pasolini era stato comunista, non sentiva il bisogno di ecclesiastici; e Turoldo?
Se conversò con Dio, spunta un’Amica nei Canti ultimi che potrebbe essere la poesia, ottimo antidoto al nichilismo dei suoi e nostri tempi :
Ma lascia che canti insieme a te, Amica,
e dall’amaro stillicidio mentale ci salvi
la sublime allegoria. (8)
Di simile amica, la seconda epigrafe alla sezione che contiene il precedente epigramma, così si fissa:
Perché “la poesia non racconta ma suggerisce”. (9)
Turoldo è chiaro: sul palcoscenico del teatro della vita nella buca del suggeritore la poesia nei secoli e ancor oggi aiuta i personaggi della «sublime allegoria» umana a raccontarci ogni giorno la speranza del bene, a cura della sognante perfezione della letteratura. Il di là è imperscrutabile. Papa Giovanni Paolo II un po’ di tempo fa osservò: «Chi vivrà, vedrà».
Pasolini, poeta inquieto, solo e innocente.
Il ricordo di David Maria Turoldo
I miei rapporti con Pasolini sono improntati ad una grand’amicizia e ad una reciproca stima: siamo tutti e due friulani, siamo di comuni confinanti, perciò io sapevo di lui fin dalla sua giovinezza; tanto più, poi, dopo che a lanciarlo nel mondo letterario, a presentarlo come un nome su cui riflettere e cui riferirsi, è stato un sacerdote friulano, don Giuseppe Marchetti. Quindi, attraverso quelle vie mi è stato possibile un accostamento abbastanza personale, con il godimento appunto dell’amicizia e della stima.
Io so che alla fine della sua vita, pochi giorni prima che avvenisse la grande tragedia (era in Svezia), a degli amici comuni diceva: «Adesso torno in Italia e devo cercare di trovarmi con Padre Turoldo». Dopo, invece, è avvenuto quello che è avvenuto, e non ci siamo più incontrati.
Io so che ha preso visione del mio film, ne ha scritto in merito: lo ha apprezzato moltissimo; e io i suoi, naturalmente! Sì, ho fatto il film Gli ultimi, di vita contadina. Soltanto, lui avrebbe voluto che io portassi l’acquiescenza del mondo cittadino ad uno stato di ribellione, di rivoluzione; magari forzando la storia della campagna. Ma nella campagna non succede mai nulla, c’è la pazienza e la rassegnazione nella campagna; si vivono le stagioni con pazienza e fatalismo; mentre le rivoluzioni scoppieranno sempre in città: questo è stato uno degli oggetti della nostra discussione, della dialettica che ci ha infervorato reciprocamente…
E alla fine, al di là della tragedia, sono stato l’unico prete ai suoi funerali! Ho scritto anche la lettera alle due madri, alla madre di Pasolini e a quella dell’assassino di Pasolini. Si trova nel mio libro Alle porte del bene e del male, dove dico anche il mio giudizio sul cupo evento.
L’ho accompagnato attraverso la sua Casarsa, in mezzo a migliaia e migliaia di persone, dietro quei funerali così tumultuosi! Ho pregato con lui e per lui, sapendo benissimo quello che era stato il suo animo, rispetto anche alla fede e alla religione. Tutto questo fa parte dei miei rapporti personali con Pasolini.
Una presenza che io non ho mai dimenticato, un’amicizia di cui mi onoro. E vedo anzi che, man mano che il tempo passa, avvengono due cose: la purificazione della figura di Pasolini, liberata da tutte le immondizie di cui è stata fatta carico in vita e soprattutto in morte, e la sua presenza che diventa sempre più obbligata in tutto il mondo della cultura, non soltanto italiana, ma europea, e anche altrove.
Naturalmente, a suo modo, era un profeta; era un anticipatore, uno che sapeva benissimo definire le categorie emergenti della nuova coscienza individuale e nazionale, e di tutta la cultura.
E’ lui che ha inventato la categoria della «gente del Palazzo», è lui quello delle «lucciole: prima delle lucciole e dopo le lucciole»; è lui che inaugura «la questione morale» per tutto il paese, portandola a uno stato incandescente, indicendo un pubblico processo ai partiti, eccetera. Famosi, per questo, i suoi Scritti corsari e le sue Lettere luterane. Tutte cose da tener presenti, perché la figura è molto, molto ricca e complessa.
Mi conforta che il tempo, fino adesso passato, non lo abbia esiliato; al contrario, lo ha reso ancora più presente: segno buono; piccolo segno, per poter sperare. Tra gli scritti della sua giovinezza, – forse una delle cose migliori -, l’ “Academiuta” di Casarsa è stato il primo tentativo di immettersi nelle lingue tagliate, dando dignità di cultura al mondo degli umili. Il Friuli per lui rimarrà, nella sua mitologia, una specie di Eden da dove è cacciato, e al quale sogna sempre di tornare. Di questo sogno sono vestigia le due versioni della sua tematica lirica: la Meglio gioventù e la Revisione della Meglio gioventù.
E’ qui quello che era per lui il Friuli di prima: appunto una specie di Eden irreale, lontano, irraggiungibile; e quanto viene mutato nell’usura del tempo, rispetto al suo sogno di purezza. Questo era nei suoi confronti il Friuli.
Bisognerà pertanto mettere in risalto che ha cominciato con la lingua friulana, con le parabole friulane. Fin che era in Friuli, faceva addirittura la «catechesi marxista» ogni domenica al popolo, sotto la loggia del comune. Egli non era solo un insegnante di scuola elementare, ma era un insegnante di popolo, raccoglieva tutta la gente che voleva nel porticato di Casarsa, e a forma di parabola esponeva tutta la vita politica e sociale del tempo. Le sue parabole in friulano sono, letterariamente, sulla forma delle allegorie evangeliche; un suo vangelo a suo modo; esemplarissime: una delle cose più delicate e belle; e anche meno conosciute. E’ la pre-cultura, la pre-formazione, punto cardine della pedagogia di Pasolini. Dopo, naturalmente, diventerà quello che diventerà sul piano nazionale e sul piano europeo.
Forse sarebbe utile parlare di più della sua indole. E’ vero che lui si dice ateo, agnostico; è però anche vero che era un missionario, che il suo io è un io totale e totalizzante, coinvolgente; non c’è mai distinzione fra lui e la letteratura. La sua letteratura è la sua vita, è la sua stessa vita un evento letterario. L’ io è al centro di tutta la sua storia, di tutto il suo universo: perciò è sempre travolto. Non c’è distinzione tra la sua avventura e se stesso: lui è la sua parola, il suo scritto, il suo annuncio. Questo, per dire di che carica era: una carica a tempo pieno, a piena esistenza.
Secondo me, una delle chiavi di lettura di Pasolini, è la chiave «religiosa»; lo dico tra virgolette, per indicare specificità e importanza. Era un missionario, si sentiva in missione; aveva un compito, quello di denunciare il male. Ha sempre sognato la liberazione dal peccato, e non poteva che essere peccatore, e grande peccatore! Il senso del male in lui è tragico. Ha sempre sognato una chiesa che lo salvasse, pur avendo rinunciato a qualsiasi chiesa. Infatti alla fine rinuncerà anche alla chiesa marxista (Le ceneri di Gramsci, Addio compagni non più compagni, eccetera).
Egli sente che c’è qualcosa che trascende, che non si esaurisce. E’ un arrabbiato perché non può trovare un’autentica chiesa; è un arrabbiato, perciò è senza un suo vero partito. Arrabbiato perché non trova il paese che sogna; arrabbiato perché non c’è crescita di umanità. E’ soprattutto arrabbiato con se stesso perché sa di essere lui un essere sbagliato … Perciò si fa autoflagellatore, e autocensore, e autodenunciatore, e autodistruttore; devastatore di tutti i pudori, di tutte le proprie riserve. E si fa uomo senza pudori e senza riserve. Credo che questo sia un buon nucleo da cui partire per dare più profonde interpretazioni: sia della sua poetica, sia dei suoi film, sia di tutto il resto. E’ un’anima religiosa senza religione; un credente senza fede; un’anima inquieta perché non trovava assolutamente il punto folgorante e totalmente persuasivo di tutte le cose che cerca. Era addirittura l’immagine dell’inquietudine universale: sempre travolto dalla sua carica moralistica. Si dica quello che si vuole, forse, pur nel suo peccare quotidiano, era uno dei più innocenti, dei più puri. Nessuno ha sofferto più di lui la sua condizione, e nessuno ha pagato come lui per essere tale.
Circa le Ceneri di Gramsci, non dico nulla. C’è tutta una letteratura in merito. Dico solo che lui ha cercato subito «il docente» in Gramsci. Ma mentre sente il grande esemplare che è Gramsci, quale analizzatore della coscienza popolare, dei moti di cultura che si sviluppano nella dialettica storica e spirituale di un popolo, così egli vuole continuare, andando ben oltre. Donde, appunto, le «ceneri» di Gramsci.
Certo, la crisi dell’invasione sovietica dell’Ungheria è stata sconvolgente, una specie di terremoto delle coscienze. E però è stata anche rivelatrice di tutta una situazione ormai in declino e non solo in confronto con il mondo del comunismo reale. Un fatto che ha scosso in questa situazione, ma che non ha scosso a sufficienza.
Le delusioni che si possono avere nei confronti dei paesi dell’Est, oggi si possono, per esempio, avere anche per i paesi dell’Ovest. La sconvolgenza dell’invasione dell’Ungheria oppure della Cecoslovacchia può essere pari alla gravità della situazione del Salvador, a quella del Nicaragua, a quella del Guatemala, ecc. Ma allora le coscienze erano ancora in stato di meravigliarsi, di scuotersi; ora invece non si «meravigliano» più di nulla. Voglio dire: mentre condivido la rivolta degli intellettuali nei confronti dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, non condivido certamente l’acquiescenza degli intellettuali, degli stessi intellettuali, – cosa che non avrebbe mai fatto Pasolini -di fronte all’identica situazione di martirio e di olocausto delle genti dell’Ovest: appunto, del Guatemala, della Bolivia, del Cile, dell’Argentina, delle madri dei «desaparecidos», di cui è pieno il mondo occidentale.
Fino a che punto fosse autentica quella rivolta degli intellettuali di fronte all’Ungheria, possiamo ora giudicarlo. Mentre Pasolini rimane comunista, rimane un compagno, crede ancora in quella direzione; egli ha una visione molto più realistica e libera di tutti gli altri intellettuali. Pasolini non si sarebbe mai venduto a questi schieramenti politici nati dopo, che sono di una povertà, di uno squallore e di un pragmatismo unico. E’ vero che sentiva anche lui il franare delle ideologie, ma non sarebbe mai finito nel pragmatismo; tantomeno in questo pragmatismo, ora perfino socialista e religioso. Tanto, per dirti in che quadro inserirei questi problemi e in che vastità si dovrebbe rileggere tutto quello che è avvenuto e che sta avvenendo.
Sia Le ceneri di Gramsci, sia La religione del mio tempo, sono, naturalmente, testi fondamentali. Pasolini parla di un errore necessario, errore religioso: è sempre il paradosso una delle chiavi di lettura di Pasolini. Per quanto riguarda i rapporti, a volte di aspra polemica, fra il poeta e la critica letteraria italiana, penso agli Epigrammi. A proposito, su questo argomento ci sarebbe da fare un accostamento molto bello fra Montale e Pasolini. Montale è l’anti-Pasolini per eccellenza, come Pasolini è l’anti-Montale per eccellenza. Sono i due estremi della cultura italiana. Io però preferisco un Pasolini a un Montale, nonostante quel che si va celebrando, in consumi di incensi a non finire. Uno è l’indifferenza assoluta e l’altro è il coinvolgimento e la passionalità assoluta. Allora qui abbiamo le due possibili letture della cultura italiana, e soprattutto la spiegazione di questi famosi Epigrammi di cui si è tanto parlato.
I miei rapporti con Pasolini, l’ho detto, sono continuati sino alla morte, e anche dopo; pur senza la frequentazione che avremmo desiderato. Quando avveniva, ci vedevamo molto volentieri; ma non è che ci siamo incontrati spesso, in senso fisico; anche se io ho condiviso molto di più di quanto ho potuto dimostrare.
Sul mondo politico italiano, bisognerebbe leggere i suoi articoli apparsi sul «Corriere della Sera», dove cercava di portare avanti addirittura un’istruttoria per un processo alla Democrazia Cristiana, interessantissimo; dove il comunismo restava – secondo lui – l’unica speranza contro il cancro spaventoso e corrompente che era la Democrazia Cristiana. (In realtà era che non solo di Democrazia Cristiana si trattava). Gli articoli che lui scriveva sul «Corriere della Sera» sono emblematici, al fine di un giudizio su tutto il mondo politico italiano di quel tempo.
Dicevo che Pasolini non ha mai potuto staccare la letteratura dalla vita, la vita dalla letteratura, perciò è finito come è finito. Non poteva che finire che così.
Fontanelle di Sotto Il Monte Giovanni XXIII, 16 agosto 1987. (10)
Note
1.Pier Paolo Pasolini, Lettere. 1940 – 1954, Torino, Einaudi, 1986, p. 528.
2. Ivi, p. 223.
3. Maria Nicolai Paynter, Perché verità sia libera. Memorie, confessioni, riflessioni e itinerario poetico di David Maria Turoldo, Milano, Rizzoli, 1994, p. 190.
4, Ibidem.
5.David Maria Turoldo, Ultime poesie (1991 – 1992), Milano, Garzanti, 1999, p. 205.
6.Cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, Garzanti, 1977, p. 403.
7. Ibidem.
8. David Maria Turoldo, Ultime poesie …, cit., p. 190.
9. Ivi, pag. 187.
10. La testimonianza di Turoldo è stata raccolta su magnetofono in uno studio del Centro ecumenico “Giovanni XXIII” dell’Abbazia di Sant’Egidio, a Fontanelle di Sotto Il Monte (Bergamo), dopo la Messa delle ore 10 di domenica 16 agosto 1987, celebrata dallo stesso Turoldo. Il testo, dattiloscritto dal curatore e spedito al servita, è stato ricambiato da un altro dattiloscritto con radi ritocchi in penna stilografica probabilmente dello stesso Padre, qui integralmente accolti.