“Pasolini nel calcio”, di Alberto Fabbri

Proponiamo un interessante articolo pubblicato il 7 giugno 2021 sul sito della rivista sportiva di approfondimento culturale Contrasti, dedicato alla passione di Pier Paolo Pasolini per il calcio.
Fotografia in copertina di Federico Garolla: Pasolini a Centocelle, Roma, 1960.

“Pasolini nel calcio”
di Alberto Fabbri

Probabilmente la prima immagine che ci viene in mente di Pier Paolo Pasolini lo ritrae con gli occhiali scuri a celare uno sguardo assorto, durante uno dei suoi imperscrutabili silenzi; oppure ce lo figuriamo, un po’ visionario, mentre maneggia la cinepresa. Forse però è un’altra l’istantanea che ci restituisce la sua essenza con maggiore fedeltà: il Pasolini calciatore. Perché davvero, forse non esiste scena più vivida nel tramandarci la sua passione per la vita di una fotografia in cui rincorre un pallone.

L’amore per il calcio divampa con i primi calci sui Prati di Caprara nella natia Bologna, dove i compagni lo ribattezzano Stukas, come il temibile bombardiere della Luftwaffe, per la sua abilità realizzativa nel ruolo di ala.  É la metà degli Anni Trenta, il decennio del Bologna “che tremare il mondo fa”, ma non sono i trionfi a far scoccare nel cuore di Pasolini la patologica passione per i Veltri: il poeta si ammala di tifo e soffre tutta la vita per i rossoblù, perché proprio sotto le Due Torri incontra il pallone per la prima volta.

Ad ogni modo, il ragazzino non rimane insensibile alle giocate dei felsinei, anzi, cerca di emulare le movenze di Amedeo Biavati, campione del mondo nel 1938 e soprattuto uno dei primi interpreti del doppio passo. Quasi trent’anni dopo, nel pantheon degli idoli sportivi l’ala sinistra sarà eguagliata soltanto da Giacomo Bulgarelli, forse l’unico giocatore in grado di disimpegnarsi dalla pressione del regista nella celebre scena di Comizi d’amore.

Durante gli anni degli studi le vacanze estive a Casarsa, paese di origine della madre, consentono a Pasolini di vestire la maglia delle squadra giovanile del Casarsa Foot Ball Club, iscritta al campionato della Gioventù Italiana del Littorio. Al termine della guerra, è tra i fondatori della Società Artistico Sportiva Juniors Casarsa, che rappresenta la rinascita del calcio locale; non sappiamo se sia stato l’unico genitore dell’inedita ragione sociale, ma l’idea è autentica avanguardia: la sezione sportiva sarebbe stata finanziata tramite spettacoli ed altre attività culturali.

Non solo sport e cultura non si escludono reciprocamente, ma anzi possono procedere di pari passo; un concetto tanto antico quanto misconosciuto al giorno d’oggi. Con i medesimi fini, nell’attigua frazione nasce la Sangiovannese, per cui Pasolini ricopre un triplice ruolo: vicepresidente, all’occorrenza calciatore, e riferimento intellettuale. Laureatosi all’Alma Mater nel 1945 con una tesi su Giovanni Pascoli, si stabilisce a Versuta, dove fonda la Academiuta della lenga furlana ed insegna lettere alla scuola media; l’idillio della gioventù friulana è prossimo al termine però.

Nel 1949 è condannato in un processo per corruzione di minori ed atti osceni in luogo pubblico, da cui poi viene assolto in appello; intanto è interdetto dall’insegnamento ed espulso dal Partito Comunista. Misconosciuto dal padre, soltanto la madre lo segue nel trasferimento a Roma; non farà più ritorno nella casa materna, con la stanza dalle pareti a strisce rossoblù.

L’ambientamento nella Capitale è duro: la madre lavora come domestica, mentre Pasolini pubblica saltuariamente pezzi giornalistici e racconti; vivono al Ghetto e la stabilità economica è raggiunta soltanto nel 1951, quando ottiene una cattedra alla scuola media privata Petrarca di Ciampino. Qui lo sport, ed ovviamente il calcio in primis, diventano parte integrante dei metodi didattici; lungo i prati dell’Appia Antica “alti” contro “bassi”, “promossi” contro “rimandati” si affrontano durante l’orario di lezione.

Nel traumatico trasferimento dalla tranquillità friulana alla “metropoli africana”, per Pasolini il Bologna rimane un chiodo fisso anche se, come racconta Franco Citti, seguirlo nelle trasferte all’Olimpico significa esporsi alle peggiori incazzature.

Per raccontare l’ambiente culturale in cui comincia a farsi strada il nostro, si può riportare uno scambio con l’amico e poeta Vittorio Sereni, interista impenitente; in occasione di una trasferta del Bologna a San Siro, Pasolini attacca: «Intanto ti avverto che domenica il mio cuore è a Milano, insieme a quello grassoccio di Volponi: tutti e due a palpitare fino sull’orlo della trombosi. E mi dispiace che la gioia nostra sarà la tua disfatta…».

Dopo la doppia rimonta degli ospiti, da Milano arriva la risposta:«Come Teodorico morente vedeva Severino Boezio, ieri ho visto al 90° sul cielo di San Siro effondersi il tuo ghigno e il serafico sorriso di quel volpone di Volponi». Proprio altri tempi, quando non c’era vergogna nel manifestare la propria passione per un calcio, che sapeva essere l’autentico passatempo popolare degli Italiani.

Finalmente nel 1953 Pasolini può dedicarsi interamente al cinema e si traferisce a Monteverde Vecchio, dove è irresistibile il richiamo per gli spiazzi sterrati di via Donna Olimpia; sui terreni irregolari tra le case popolari e sul campetto della chiesa di Regina Pacis affronta in interminabili partite quelli che diventeranno i Ragazzi di vita; dallo stesso contesto ruba volti e caratteri, gergo romanesco e voci, oltre alle ambientazioni delle sue prime pellicole, come Accattone; sono gli stessi personaggi che tifano per la Roma, per cui Pasolini nutre una simpatia dovuta proprio a queste amicizie.

Al di là delle trasferte del Bologna, l’intellettuale si reca allo Stadio Olimpico come cronista, per un derby del 1957 e per le Olimpiadi di tre anni dopo; i settori popolari offrono un impagabile spettro del popolo romano e gli articoli diventano approfondimenti socio-antropologici sui calciofili e sportivi del tempo. Qualche anno più tardi, il Reportage sul Dio, racconto dell’ascesa sociale di un calciatore, diviene mezzo per indagare le contraddizioni dell’intera società italiana, a cui il boom economico ha mutato condizioni di vita e connotati identitari.

La tradizione contadina è condannata all’oblio dall’incedere della società dei consumi, lungo una china che circa trent’anni dopo sarà percorsa anche dal calcio, che da passione popolare diventerà un segmento del mercato finanziario.

Con i primi successi ed il definitivo trasferimento in via Eufrate 9 all’Eur, non cambia l’assiduità delle partite, ma i compagni di gioco di sì. Ai ragazzini delle borgate si sostituiscono sempre più spesso attori ed addetti alle riprese. Per esprimere il valore del calcio di strada per Pasolini, si può ricorrere all’interpretazione fornita da Dacia Maraini; l’attrice sosteneva che nell’evasione del gioco egli rincorresse la felicità perduta del fanciullo. Certo, vi era anche una componete erotica nella sfide, in cui tramite il pallone prendeva corpo una metafora amorosa tra il poeta ed i giovani compagni; un’intimità che nasceva dall’estrema libertà espressiva dei corpi in movimento, tuttavia esulando da qualsiasi violenza ed aggressività.

Dai campi di fortuna ricavati tra i caseggiati popolari, si passa agli stadi di provincia ed alle grandi cattedrali del calcio italiano, grazie alla militanza nella Nazionale “Attori e Cantanti”. Maglia azzurranumero 11 in quanto ala sinistra e fascia di capitano al braccio: per Pasolini non esiste distanza che gli impedisca di partecipare alle gare di beneficienza. Ancora si racconta di voli Mosca-Ciampino e treni notturni Genova-Roma per raggiungere i “colleghi”, come Morandi, Tognazzi e Montesano, che spesso affrontano ex calciatori, come Capello e Sormani, ovviamente oggetto di approfondite interrogazioni tecnico-tattiche da parte del regista.

Proprio contro le Vecchie glorie della Sambenedettese sarà l’ultima occasione in cui vestirà la maglia 11 azzurra, nel settembre 1975; meno di due mesi dopo la stessa divisa sarà adagiata sul feretro al suo funerale. L’omaggio è compiuto da una mano ancora oggi ignota, come quelle che lo hanno massacrato all’Idroscalo di Ostia.

Qualche mese prima ha partecipato a quella che forse è la sua partita più celebre, la cosiddetta “Centoventi contro Novecento”, che oppone le squadre delle maestranze che lavorano alle due pellicole. Si può parlare tranquillamente di derby vista la rivalità tra Pasolini e Bertolucci, che vivevano nello stesso palazzo di Monteverde, e le differenti risorse stanziate dalla condivisa casa di produzione.

Sul campo della “Cittadella” di Parma è un fiasco per il cineasta bolognese che, toccato duro da un avversario volutamente, abbandona il campo sotto gli occhi del rivale gongolante da bordo campo. Inoltre, si scopre che il passivo di 5-2 è frutto di un sotterfugio adottato dagli avversari: preoccupata dalla validità della rosa di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, dove spiccano il capitano, Davoli e Citti, la squadra di “Novecento” ha ingaggiato e spacciato per macchinisti alcuni virgulti delle giovanili dei Ducali, che si allenano proprio su quel terreno. Al di là delle polemiche, una cena riporta la serenità tra i due collettivi, almeno per qualche ora.

Oggi è quasi assurdo pensare a quanto un intellettuale della sua caratura potesse prendere sul serio ed arrabbiarsi per una partita di calcio. In verità soltanto quelli che non ne hanno compreso l’animo potrebbero stupirsi, e avremmo voluti vederli a parlargli di undici uomini in mutande che rincorrono una palla; per Pasolini il calcio era sintesi sferica di una miriade di significati e, dalla sua duplice posizione interna di giocatore e tifoso, si sentiva sempre tirato in causa nel dibattito pubblico su di esso.

Tra gli anni Sessanta e Settanta e non resiste a schierarsi contro gli intellettuali di sinistra che accusano il pallone di sviare la gioventù italiana dall’impegno politico, una posizione che condivide con lo stesso Berlinguer; inoltre ammette che lo sport sia da sempre utilizzato come oppio dei popoli, ma riconosce la funzione terapeutica del tifo. Soprattutto, denuncia il qualunquismo con cui i media trattano i fenomeni alla base della passione popolare e la vuota retorica che esalta le vittorie di un Paese, in cui la pratica sportiva è abitudine sconosciuta ai più.

Quando scoppia la polemica tra giornalisti sportivi e letterati sull’autenticità del linguaggio usato rispettivamente, Pasolini coglie la palla al balzo, smarcandosi da entrambi gli schieramenti ed offrendo una delle sue interpretazioni più preziose.

La sua teoria è proposta nell’articolo “Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori”, dove il football è equiparato ad un sistema di segni, una lingua a sé stante basata sul podema, ovvero un uomo che calcia un pallone. Combinando tra loro diverse di queste unità elementari si compongono le parole calcistiche, articolando il discorso drammatico della partita. La storia socio-culturale di ogni popolo ne determina la varietà di linguaggio calcistico e ogni giocatore ha la propria cifra stilistica.

L’ Italia si contraddistingue per una prosa estetizzante, ovvero una manovra corale che però non ripudia la giocata individuale. Nel nostro campionato figurano prosatori realisti come Bulgarelli, poeti realisti come Riva e prosatori poetici da elzeviro, quale Rivera. Se le squadre centro-europee sono i massimi interpreti del calcio prosastico, dove la sintassi prevale sull’individualità, ai latinoamericani che fanno del futbòl un’arte, i brasiliani su tutti, spetta l’alloro di migliori poeti.

Secondo questa interpretazione i calciatori, i cifratori del linguaggio, comunicano allo stesso tempo sia tra loro in campo sia con i tifosi, i decifratori sugli spalti. É proprio questo rapporto comunicativo di natura fisica che permette al calcio di elevarsi a fenomeno religioso. Una simile lettura sarà offerta anche da Marc Auge, ma secondo Pasolini il rituale può avere luogo soltanto allo stadio, dove si celebra senza alcuna mediazione, meno che mai attraverso la tirannica televisione; è tramite la fisicità che gli officianti si rapportano ai fedeli.

Secondo lui lo sport aveva senso soltanto se praticato dalla gente, ed in mezzo ad essa, non potendo sopportare la sua spettacolarizzazione, viatico di vuoto consumo edonistico. Così si può interpretare l’ intervista con il campione Viktor Capitonov ed il suo allenatore durante le Olimpiadi del 1960.


L’incontenibile passione ed il monito sul ruolo della televisione.

Dopo cena, i due vogliono che Pasolini faccia loro da Cicerone tra le bellezze della notte capitolina, ma per tutta risposta li conduce tra le baracche della Borgata Gordiana; qui la medaglia d’oro individuale di ciclismo su strada è assalita da un’orda di ragazzini festanti. Oggi che il calcio ha eretto un muro forse invalicabile verso i suoi appassionati, e lo stesso Pasolini è diventato un’icona commerciale, non possiamo che interrogarci su come costruire uno sport a misura di tifoso, rimpiangendo nel frattempo intellettuali del genere.


Bibliografia e citazioni tratte da “Il calcio secondo Pasolini” di V. Curcio (Aliberti, 2018).

*Foto in copertina: © Federico Garolla