Conversando con Graziella. Carlo Pulsoni dialoga con Graziella Chiarcossi

Proponiamo una delle rare interviste a Graziella Chiarcossi, cugina di Pier Paolo Pasolini e curatrice unica della sua opera, pubblicata il 4 ottobre 2017 sul sito della rivista culturale on-line Insula europea, a cura di Carlo Pulsoni (coordinatore della rivista). Graziella Chiarcossi è nata a Casarsa della Delizia e ha vissuto con Pasolini e la madre Susanna Colussi per tredici anni, dal suo arrivo a Roma nel 1962 fino alla morte dello scrittore.

Conversando con Graziella. Carlo Pulsoni dialoga con Graziella Chiarcossi

Insula europea – 4 ottobre 2017

Graziella Chiarcossi è la curatrice delle opere del cugino Pier Paolo Pasolini

(autoritratto di Pier Paolo Pasolini)

Ci siamo conosciuti grazie al nostro comune maestro: Aurelio Roncaglia. Ricordo ancora quando da studente mi consigliò di frequentare le tue lezioni. Mi parli del tuo arrivo a Roma, degli anni universitari e della tua scelta di laurearti con Roncaglia?

Sono arrivata a Roma nel 1962 con l’intenzione di iscrivermi a Lettere per studiare Storia dell’arte. Mi piaceva molto questa materia perché avevo avuto un’insegnante al Liceo che sapeva descriverci con molta semplicità ma anche rigore tele e opere architettoniche. Iniziai a frequentare i corsi dei grandi maestri della disciplina alla Sapienza: Ranuccio Bianchi Bandinelli, Giulio Carlo Argan, Géza De Francovich. Ho seguito con profondo interesse le lezioni, ho imparato moltissimo, ma ero uno studente fra i tanti e i professori stavano in cattedra, gli esami erano freddi, pura routine. Rimasi delusa per l’assenza di un vero contatto personale e piano piano rallentai il mio percorso di studi. Non avendo molti amici – le mie poche conoscenze erano con altri fuorisede come me, spaesati nella metropoli – trascorrevo il mio tempo a casa. Così, mentre passavo la maggior parte delle giornate a scoprire e a leggere avidamente nuovi scrittori, sotto l’occhio attento e premuroso della zia Susanna, ho cominciato a studiare con curiosità il lavoro di Pier Paolo. Gli facevo anche un po’ da segretaria, rispondendo al telefono e sistemando i ritagli dei periodici che pubblicavano suoi interventi o parlavano di lui. Solo in seguito sono passata a rileggere i dattiloscritti, soprattutto quelli destinati a giornali come il “Corriere della sera”, prima di inoltrarli. Mi convinsi che imparavo più nell’ambiente familiare che all’università. Pier Paolo però voleva che io tornassi a studiare, che mi laureassi. Avevo seguito con impegno e coinvolgimento le lezioni di Filologia romanza di Roncaglia e per fortuna anche l’esame sostenuto con una sua assistente, Maria Picchio Simonelli, mi aveva dato soddisfazione. Pier Paolo chiamò l’amico studioso che ancora oggi considero il mio maestro, affidandomi a lui, chiedendogli di indirizzarmi al meglio al fine di concludere gli studi. Roncaglia mi invitò innanzitutto a biennalizzare il suo esame. Ripresi pertanto a frequentare i corsi universitari. Terminati gli esami, d’accordo con il professore lavorai alla stesura della tesi che aveva come tema il genere lirico del compianto nella lirica trobadorica. Fu una bellissima esperienza. Mi laureai con lui nel 1971.

Mi dici qualcosa del rapporto tra Pier Paolo e Roncaglia?

Non so dire con precisione a quando risalga la loro conoscenza. Le lettere o i documenti conservati sono della seconda metà degli anni 50, come ad esempio un invito alla prolusione che Roncaglia tenne nel 1957, appena nominato professore ordinario presso “La Sapienza”. Certamente si conoscevano già da prima, visto che nel 1953 Pier Paolo esorta il cugino Nico [i.e. Naldini], allora studente a Trieste, a recarsi da Roncaglia dopo aver letto una serie di saggi, tra cui quello di Contini sui poeti scapigliati. Ricordo con chiarezza un incontro del tutto casuale che avvenne ad Amalfi. Pier Paolo lavorava alle riprese de “Il Decameron”. Io ero in vacanza sul posto con la sua mamma e nella piazza della cittadina mi trovai davanti all’improvviso il mio professore. La sera andammo tutti insieme a cena, io ero stranamente a mio agio e Pier Paolo quella sera parlò con Aurelio e la sua compagna di poesia spagnola contemporanea. Negli anni della guerra trascorsi a Casarsa aveva fatto delle prove di traduzione in friulano di poeti italiani, di frammenti dei canti raccolti dal Tommaseo e anche di poeti spagnoli come Salinas e Jiménez. Quando arrivai alla decisione di pubblicare Petrolio era nell’ordine delle cose che mi rivolgessi a Roncaglia per affrontare la complessa questione testuale e sono ancora orgogliosa di averlo coinvolto. Certe sue osservazioni rappresentano una chiave di lettura fondamentale, di cui gli studiosi dovrebbero tener conto.

Del libro incompiuto scrisse nel 1976 Paolo Volponi in un testo intitolato Pasolini maestro e amico rievocando una conversazione con l’amico scrittore: «“Sto lavorando a un romanzo. Deve essere un lungo romanzo, di almeno duemila pagine. S’intitolerà Petrolio. Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sul fondo, come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo. Ci sarà dentro tutto, e ci saranno vari protagonisti. Ma il protagonista principale sarà un dirigente industriale in crisi”. Per questo si era rivolto a me, per avere indicazioni e anche materiale, per esempio sulla vita nell’industria, sulle abitudini e sul linguaggio dei mondi chiusi del potere industriale, per avere schemi organizzativi dei processi aziendali. “Poi ci sarà anche un uomo della banca. Ci saranno anche dei protagonisti a livello popolare, quasi inarticolati – aveva continuato a dirmi – nemmeno più con dialetti perché i dialetti ormai sono finiti con questa lingua orrenda dei comunicati del telegiornale, della pubblicità, del recitativo ufficiale, per cui finirà magari che quelli più colti parleranno in un certo modo letterario con un gusto del dialetto assunto come distinzione e quelli meno colti, addirittura analfabeti parleranno un po’ come certi nostri ministri democristiani alla televisione, con tutti questi ‘ione’, ‘enti’, ‘ente’, ecc.”. Queste erano le confidenze che mi faceva a Roma una sera dopo aver cenato insieme, non molto prima del due novembre dell’anno scorso dalle parti di Piazza Farnese. Forse non mi ricordo bene, ma quella deve essere stata l’ultima volta che l’ho visto. Avevo sentito riprendere molto larga la nostra amicizia, come negli anni Cinquanta e nei primi del Sessanta».

Puoi aggiungere qualche parola su Petrolio?

Pier Paolo andava spesso alla Torre di Chia e molte delle pagine di Petrolio sono state scritte in quel luogo che lui amava molto.

Si portava dietro il dattiloscritto negli spostamenti da Roma al suo eremo. Quando apprese che a Carlo Levi avevano rubato la macchina e un’opera inedita e incompiuta che aveva lasciato all’interno, immediatamente Pier Paolo mi chiese, per non correre rischi, di fotocopiare le pagine che aveva riempito fino a quel momento. Me le affidò dicendomi di non leggerle e per fare il lavoro in sicurezza andai a fare la copia all’università. Anche questa stesura è depositata all’Archivio contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux, a Firenze.

Restando nell’ambito dei grandi filologi con cui venne in contatto Pier Paolo va menzionato anche Gianfranco Contini. In un articolo intitolato Al limite della poesia dialettale apparso sul «Corriere del Ticino» (24 aprile 1943), egli esaltò Pier Paolo come un raffinato poeta, rilevando le qualità linguistiche della silloge Poesie a Casarsa. Contini evidenziava l’uso del dialetto di ca da l’aga, della riva destra del Tagliamento: Pier Paolo aveva infatti messo per iscritto una lingua che fino ad allora era solo parlata, creando una sorta di koinè poetica. Le Poesie a Casarsa possono essere considerate come un primo segno di opposizione al potere fascista, considerato che come scriverà più tardi Pier Paolo “il fascismo non tollerava i dialetti, segni dell’irrazionale unità di questo paese dove sono nato, inammissibili e spudorate realtà nel cuore dei nazionalisti”. Questa raccolta confluirà ne La meglio gioventù, che a sua volta sarà oggetto di riscrittura nel libro pubblicato nel 1975, La nuova gioventù (Poesie friulane 1941-1974), un interesse insomma per il dialetto e per la poesia dialettale che si protrarrà lungo tutto l’arco della sua vita. Anzi è proprio grazie a Pier Paolo che la poesia dialettale è assurta alla stessa dignità di quella in italiano, al punto che a un poeta in vernacolo come Biagio Marin – “scoperto” tra l’altro da Pier Paolo -, viene conferito il “Premio del Presidente”al Viareggio (1974). Considerata questa grande passione di Pier Paolo, ti chiedo se avete mai parlato in dialetto o del dialetto in casa?

Io sono nata a Casarsa, in casa si parlava in dialetto veneto, che io continuo a praticare con mia sorella e Nico Naldini. A Pier Paolo e a suo padre ci siamo sempre rivolti parlando in italiano. Mio cugino ogni tanto in manifestazioni affettuose rivolte alla madre, a me, a mia sorella, usava termini veneti, come “ninata”, “piccinina” ecc. ecc. Non l’ho mai sentito esprimersi in friulano, ma solo perché non c’è stata l’occasione, negli anni di Casarsa io ero piccola e non vivevo nella vecchia casa.

Pier Paolo usò il termine “triglotta” per definire la situazione linguistica di Casarsa. Nel paese convivevano l’italiano come lingua ufficiale, il dialetto veneto parlato dalla piccola e media borghesia e il friulano dai contadini. Pier Paolo era entrato in contatto con il friulano grazie all’amicizia con la gioventù del luogo che anche a scuola si esprimeva prevalentemente nella lingua degli avi. Nel 1942 pubblicò a proprie spese Poesie a Casarsa, una raccolta di quattordici componimenti scritti in friulano ma con la traduzione in calce. Come ricordavi il libretto fu molto apprezzato da Gianfranco Contini nell’articolo uscito sul «Corriere del Ticino».

Mi parli del tuo arrivo a Roma e di come hai iniziato a conoscere la produzione letteraria e cinematografica di Pier Paolo?

Sono venuta a Roma per la prima volta nel 1952. Ero una bambina di nove anni ed ero ospite d’estate della famiglia Pasolini, che all’epoca abitava a Ponte Mammolo. Ricordo che vivevo molto per strada, facevo comunella con i bambini del quartiere e lasciavo via Tagliere solo quando Pier Paolo poteva dedicarmi un po’ di tempo per andare a mangiare l’anguria a San Lorenzo o al cinema. Con la zia Susanna alla sera con il fresco si passeggiava sotto le mura del carcere di Rebibbia. Da quell’anno Roma ogni estate divenne il mio luogo di vacanza. Veniva a prendermi alla stazione zio Pasolini [i.e. Carlo, il padre di Pier Paolo]. Gli volevo molto bene, perché pur essendo burbero e per niente espansivo, era sempre disponibile e generoso.

All’epoca ero troppo piccola per capire il “personaggio” Pasolini. Credo di aver letto i suoi libri, soprattutto i romanzi romani, molto dopo la loro uscita e le polemiche e i processi mi sono passati sopra senza lasciare tracce. Lo zio aveva fatto l’abbonamento a “L’eco della stampa”, e arrivavano di frequente articoli e foto riguardanti Pier Paolo. Non so a che epoca risale una osservazione di Pier Paolo che mi è rimasta impressa. Ironicamente proprio la rivista “Il Borghese” che lo attaccava in continuazione aveva ottimi fotografi che pubblicavano dei ritratti suoi bellissimi. Pier Paolo era molto riservato e solo in casi eccezionali si sfogò apertamente in casa a proposito di critiche o osservazioni malevoli. Molti particolari relativi alle sue opere li ho appresi quando, dopo la sua morte, ho lavorato alle sue carte, ai documenti, alle lettere ecc. Per esempio, cercando di riordinare e di descrivere il materiale recuperato dalla casa di Casarsa, ho trovato un quadernetto dove un vecchio scolaro (Archimede Bortolus), sollecitato da Pier Paolo, scrisse a penna una relazione del suo soggiorno in Belgio. In un capitolo de Il sogno di una cosa si trova rielaborata l’esperienza vissuta dal giovane. A cominciare dal film Mamma Roma (1962), con le maestranze tecniche, i produttori, qualche giornalista amico e una scelta di persone fidate, ho assistito alle cosiddette proiezioni private, che di volta in volta negli anni presentavano i film quasi nella versione finale. La lavorazione di Il Vangelo secondo Matteo è un caso a sé, per quanto riguarda la mia persona. Mi trovai ad accompagnare, nel 1964, Susanna sul set, perché Pier Paolo l’aveva scelta per fare la parte della Madonna anziana. Lo ricordo come un impegno importante, del tutto inaspettato e sia per la zia che per me fu anche la prima volta che prendemmo un aereo. Mi fecero una grande impressione Matera (con i Sassi quasi deserti) e la città di Bari. Noi due, nate in Friuli, ci trovammo catapultate dentro un film che si girava in Puglia e in Lucania, in paesi mai visti prima, dove se, per passare il tempo, andavamo al cinema, in platea eravamo le uniche donne. Le scene in cui Susanna era protagonista si svolgevano in luoghi impervi e aveva bisogno di essere aiutata. Il mio ruolo era quello di una pia donna, per cui le ero sempre accanto. Nel viaggio di andata ci aveva accompagnato Elsa Morante, ma non fu solo come amica che seguì la lavorazione del film. Pier Paolo le aveva chiesto di fargli da consulente musicale soprattutto nella scelta dei brani classici da utilizzare nel racconto.

Nel lungometraggio Comizi d’amore Pasolini in prima persona va in giro per l’Italia a interrogare gente comune e personaggi noti su cosa pensano del sesso. Nell’unica parte di finzione del film, Pier Paolo mi ha voluto dare il ruolo di una sposa. Con la costumista andammo a prendere il vestito nuziale in Largo Arenula. La macchina da presa riprende l’uscita da casa della sposa e il taglio del nastro. Una voce fuori campo commenta in versi il matrimonio di Tonino e Graziella.

Nel 1969 Pier Paolo sta girando Medea con Maria Callas. Un giorno mi offre di interpretare una delle ancelle. Per questo film Pier Paolo chiese la consulenza di Angelo Brelich, docente di Storia delle Religioni de “La Sapienza”, per conoscere bene i riti magici che voleva inserire nella storia. Brelich gli fornì molto materiale, ma poi non volle essere citato. Tutta una parte di carattere antropologico venne poi eliminata in moviola. Durante le riprese accompagnai sul set il regista Glauber Rocha [i.e. maestro del “Cinema Novo” brasiliano e vincitore l’anno successivo del Premio della Regia al Festival di Cannes con Antonio das Mortes], di passaggio per Roma, che desiderava conoscere Pier Paolo. Solo recentemente mi sono ricordata di aver fatto un turno di doppiaggio per Pier Paolo. In La sequenza del fiore di carta, episodio del film collettivo Amore e rabbia (1969), è mia una delle voci di Dio che si rivolgono a Ninetto Davoli mentre, in una lunga carrellata, percorre via Nazionale a Roma.

Puoi dirmi qualcosa sugli scritti di Pier Paolo, a partire da quelli risalenti al periodo friulano?

Gli scritti del periodo friulano (1942-49) (in parte lasciati nella vecchia casa di Casarsa e recuperati solo dopo la morte del poeta) non sono ordinati in maniera sistematica: esercitazioni letterarie; traduzioni in lingua e in friulano di poeti francesi, inglesi, spagnoli, catalani; relazioni scolastiche; moltissime poesie in lingua e in friulano in varie versioni; appunti preparatori allo “scrivere” in friulano; elenchi di vocaboli friulani con la traduzione in lingua, ecc. ecc. Tutte queste carte sono in parte manoscritte e in parte dattiloscritte; poche sono quelle “pulite”, cioè perfette, senza correzioni: dominano le varianti. Alcuni dattiloscritti di opere conosciute, edite postume (come per esempio I Turcs tal Friùl) sembrano pronti per essere spediti all’editore, corredati di indice e di frontespizio. Il materiale che stava nello studio-camera da letto a Roma, disposto secondo un criterio scelto dal poeta via via che andava componendo le sue opere, può essere esaminato da vari punti di vista. E offre informazioni utilissime. Si riscontrano varie fasi di lavoro: appunti presi di getto, non a tavolino, su foglietti volanti, sul retro di una carta automobilistica, su un biglietto da visita, difficilmente decifrabili perché la scrittura è alterata (abitualmente i caratteri sono minuti); sono conservati parecchi quaderni e bloc-notes riempiti in viaggio che contengono spezzoni diaristici o abbozzi di poesie. Molti dei libri della sua biblioteca presentano appunti, schizzi e abbozzi di idee per opere “da farsi”. Pier Paolo nel 1958 scrive una pagina da tener presente quando si parla del suo metodo di lavoro: «[…] Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Torpignattara, della Borgata Alessandrina, di Torre Maura o di Pietralata, mentre su un foglio di carta annoto modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei “parlanti” fatti parlare apposta. Questo, naturalmente accade in occasioni specifiche. Per esempio a un certo punto del racconto uno dei miei personaggi ruba una valigia e qualche borsa: c’è un termine gergale per indicare valigia e borsa? Come no! Valigia si dice “cricca”, borsa “campana”: la refurtiva in genere, oltre che “morto”, si dice “riboncia”, ecc. […]. Non sempre questo materiale strumentale a livello bassissimo e particolarissimo lo  trascrivo direttamente: lo faccio solo nei casi in cui mi si presenti una difficoltà o una necessità stilistica a tavolino, mentre scrivo tutto solo. Allora lascio in bianco la parte che necessita di espressività, e faccio la mia ricerca, di solito breve e fruttuosa (ho alla Maranella un amico, Sergio Citti, pittore, che finora non ha mai fallito alle mie richieste, anche più sottili). Esiste anche una mia passione generica: in tal caso annoto per conto mio, magari di nascosto, “folgorato” da qualche improvvisa e ignota forma del patrimonio. Si tratta in tal caso di materiale di riserva, che a ogni buon conto metto da parte: in modo da non dover scendere alla Maranella nel caso mi si presenti la sopraddetta necessità espressiva. In fondo allo scartafaccio del romanzo ho dunque un bel mucchio di pagine di modi idiomatici, un tesoretto lessicale. Così si esaurisce il “colore” del mio metodo di lavoro. Tutto il resto accade nella solitudine della mia stanza. […]».