La dedica di Pasolini, poeta di Casarsa, a un anonimo “gentile professore”

«Indizi di giorni memorabili». Scriveva così Pier Paolo Pasolini nella inedita dedica manoscritta a un “gentile professore”, per ora sconosciuto, vergata sulle prime due carte bianche di una delle 75 copie fuori commercio di Poesie a Casarsa, uscita nel 1942 per i tipi della Libreria Antiquaria Mario Landi di Bologna.  Di quel folgorante esordio lirico, clamorosamente consacrato un anno dopo dall’auctoritas di Gianfranco Contini, furono tirate 300 copie numerate, alle quali si aggiunsero anche 75 edizioni destinate alla  stampa, ma evidentemente per una diffusione fuori mercato. Una di queste ultime  plaquette, preziosissime, ora di proprietà della Libreria Antiquaria Martincigh di Udine, è appunto vergata dal ventenne Pasolini con la dedica ad un illustre destinatario. Una dedica la quale non è un semplice scritto di convenzionale galateo, come si usa (o si usava) secondo le buone maniere della civiltà letteraria, ma un vero manifesto di poetica. Nel testo, che qui di seguito riportiamo integralmente, Pasolini confessava la necessità di uscire dalla «parola come ricerca chiusa in sè» e il desiderio di conferire alla poesia  «una posizione morale», estranea alla ricerca puramente estetica e basata su «una concezione altissima» e, soprattutto,  sul «cerchio del [mio] dolore».
Il testo è già stato pubblicato nel bel catalogo curato da Cristina Burelli della Libreria Martincigh di Udine (via Gemona 40), che riproduce il raro documento in suo possesso, insieme all’elenco delle pubblicazioni  del giovane Pasolini friulano, uscite dalla fucina dell’Academiuta di lenga furlana, che fanno parte dei suoi tesori di carta. Il catalogo, che è quasi un libro d’artista  nel nome di un poeta indimenticabile, è già stato  presentato a Udine il 18 febbraio 2016, presso la stessa Libreria Martincigh. (af)

 "Poesie a Casarsa" (1942). Copertina
“Poesie a Casarsa” (1942). Copertina

Gentile professore,

ecco il libretto, forse non tipograficamente bello come a Lei sarebbe piaciuto, ma in compenso  modesto e schivo. Questo giorno ch’io credevo eccezionale, non è stato nemmeno triste, ma già sento gli indizi di giorni memorabili. Ormai quando il mio carissimo seme è partito, era cominciata per me una tensione estrema di meditazioni e approfondimenti, causata forse dalla netta coscienza di immaturità delle mie poesie in italiano. Avrei bisogno che qualcuno me le denudasse, senza pudore, me ne mostrasse l’inutilità. Io odio la parola come ricerca chiusa in sè [sic]: la sofferenza della ricerca verbale è in fondo la sofferenza che comporta ogni chiarimento o approfondimento di una posizione morale. Al contrario, rileggendo le mie poesie,  ho visto che la “posizione morale” non sconfinava i limiti di una malinconia o di una volontà di  poesia, riducendosi quasi puramente ad una ricerca estetica. Forse anche questa nuova interpretazione delle mie poesie è parziale o falsata: ma ancora una volta son tornato a un passo che, posso dire, scandisce la mia esistenza. Un desiderio estremo, voglio dire,  di liberarmi di ogni zavorra, sentirmi libero e infinitamente solo, abbandonare la vita, il suo falso riso, la sua vile allegrezza, e chiudermi tutto nel cerchio del mio dolore, che, della mia esistenza, è l’unica cosa vera e accertata. Tutto il resto è in più, distrae e fa rimandare, rende indolenti, o tuttalpiù, malinconici.  Io devo confessare che sono molto ambizioso, che amo cioè veramente la gloria. Chi, oggi, ha il coraggio di dire questo? Può essere puerile, ma è sincero, e, soprattutto, sofferto. Essendo, così, giunto, ad una concezione altissima della poesia (per cui è peccato di impurità trattarla da dilettanti o da “malinconici”), mi sento misero e spregiudicato davanti ad essa, e non oso più toccare la penna. Oppure scrivo tremando, e cerco che ogni parola sia l’unica, ed ogni frase l’unica: ed infine rido piangendo su quello che ho scritto. Lo so che non è condizione per scrivere poesia, questa! Andrò a Casarsa, domani, e là, forse, ritroverò la mia vecchia ispirazione, che in fondo, è lietezza. Ma quanta sofferenza e quanti dolenti equivoci, per giungere all’“uomo lieto” ! Voi mi sembrate giunto ad uno stadio di estrema ed esemplare saggezza, una sorta di atarassia, che io credo la stagione più lieta dell’esistenza.
Vi saluto con affetto
Pier Paolo Pasolini
Casarsa (Udine)