Sabato 25 luglio alle 18.30, sarà inaugurata la mostra fotografica “Pier Paolo Pasolini” di Mario Dondero organizzata presso la Boss Gallery di La Spezia, in collaborazione con il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa.
Nella mostra fotografica, che sarà accompagnata da un talk con Angela Felice, direttore del Centro casarsese, è presentata una selezione di foto in cui lo sguardo di Dondero ha fissato la “disperata vitalità” del Pasolini impegnato nel fervore creativo della Roma dei primi anni Sessanta: sul set del film La ricotta (1963), nelle riprese per il documentario d’inchiesta Comizi d’amore (1964), alla moviola per il montaggio de La rabbia (1963) e il Pasolini privato, insieme alla madre Susanna e con gli amici di una vita: Alberto Moravia, Goffredo Parise, Sandro Penna, Dacia Maraini e Laura Betti. Lo sguardo è intimo, raccolto, privato e confidenziale; Pasolini ci è presentato in maniera inedita, diretta, in casa o nei locali romani, dove i due amici si ritrovavano. E’ una mostra nella storia, attraverso gli occhi un grande fotografo, di un uomo raro, anche per la sua semplicità. L’esposizione alla Boss Gallery rende omaggio a questa vera e propria leggenda del fotogiornalismo italiano e al suo straordinario amico regista-scrittore.
Di famiglia genovese, Mario Dondero è nato a Milano nel 1928 e oggi vive a Fermo. Dopo gli anni della formazione nell’ambiente intellettuale milanese e alcune esperienze di giornalismo scritto, inizia a lavorare come fotografo per numerose testate, tra le quali “Avanti!”, “l’Unità”, “Le Ore”, “Cinema Nuovo”, “Settimo Giorno”, “Il Mondo”. Nel 1955 si trasferisce a Parigi dove collabora con “L’Espresso”, “L’Illustrazione Italiana”, “Le Monde”, “Le Nouvel Observateur”, “Le Figaro”. La sua permanenza nella capitale francese dura, con una parentesi in cui vive a Roma, sino alla fine degli anni Novanta. Diventa amico di molti scrittori e intellettuali francesi (Roland Topor, Claude Mauriac, Jean Cayrol). Notissima, e ormai entrata a pieno titolo nella mitologia letteraria del Novecento, la foto di gruppo di scrittori del cosiddetto Nouveau roman (Nathalie Sarraute, Samuel Beckett, Alain Robbe-Grillet, Claude Mauriac, Claude Simon, Jerome Lindon, Robert Pinget, Claude Ollier), ripresi a Parigi nell’ottobre del 1959, davanti alla sede di Les Editions de Minuit.
Rientrato definitivamente in Italia, collabora con numerosi quotidiani e periodici, tra i quali “la Repubblica”, “il manifesto”, “Diario”, sviluppando i suoi personali reportage di ricerca in tutto il mondo, mossi sempre da un nomadismo irrequieto, libero e curioso.
Vincitore nel 1985 del Premio Scanno, nel corso del 2008, anno del suo ottantesimo compleanno, gli sono stati attribuiti numerosi riconoscimenti. L’Accademia di Belle Arti di Macerata gli ha conferito il titolo accademico honoris causa Premio Svoboda al talento artistico e creattivo. Ha vinto il Premio Friuli Venezia Giulia Fotografia nell’ambito di Spilimbergo Fotografia, dove ha presentato la mostra “I rifugi di Lenin”, e il Premio Chatwin a Genova, dove ha presentato la mostra “Omaggio a Praga / sulle tracce di Utz…e di una indimenticabile primavera”.
Inoltre, sempre nel 2008 sono stati pubblicati su di lui i volumi Dondero 4 20 e Donderoroad. È membro onorario della Compagnia unica dei portuali genovesi.
Qui di seguito uno scritto di Angela Felice sulla mostra e sul sodalizio che nei primi anni Sessanta ha visto uniti Dondero e Pasolini, sullo sfondo di una irripetibile Italia.
Pasolini e il fotografo Dondero. Scatti amorosi
di Angela Felice
Negli anni Sessanta Pasolini non è più uno sconosciuto professorino dal passato scabroso, espulso nel 1950 dall’amato microcosmo friulano e trapiantato a Roma, a sopravvivervi con mezzi di fortuna. Con febbrile caparbietà, ha già risalito la china di una strada dapprima, per lui, tutta in salita e da subito costellata di attacchi denigratori, supportati anche da un pervicace accanimento processuale.
E’ ormai uno scrittore affermato, uno sceneggiatore e un critico letterario militante. Nel 1954 ha ricapitolato e sigillato l’esperienza lirica friulana con la raccolta La meglio gioventù. Nel 1957, con le poesie de Le Ceneri di Gramsci, ha conciliato la passione ideologica marxista con la pietas per i reietti e i senza storia. Un’Italia emarginata della vergogna -altra faccia del perbenismo della “ricostruzione” piccolo-borghese del dopoguerra-, di cui aveva già tessuto una cruda descrizione nel 1955 con il romanzo Ragazzi di vita, intarsiato con sperimentalismo gaddiano di un ibrido dialettale romanesco da borgate anni Cinquanta, e presto finito sul banco degli imputati per “oscenità”, ma con l’esito paradossale di accrescere la fama di maledettismo dell’autore “diverso”.
Il 1959, poi, è l’anno del successo internazionale con il nuovo romanzo Una vita violenta (presto tradotto in undici lingue), una parabola della formazione e del riscatto del sottoproletario Tommasino, dalla opacità alla coscienza politica, e un culmine della fede pasoliniana nel marxismo, poi destinata a sfociare, erosione dopo erosione, nel tormento dilacerante della disillusione, a fronte del genocidio culturale di tutta la società italiana, fagocitata e scempiata dall’omologazione tecnocratica e consumistica. Ma nel 1960, ancora, Pasolini sistema temporaneamente la sua attività critica nei saggi di Passione e ideologia, mentre Vittorio Gassman allestisce la versione pasoliniana dell’ Orestiade di Eschilo.
Sono anni vitali e cruciali, dunque, chiaroscurati tra un’incombente e lucida riflessione sulla “fine della Storia” e uno slancio volontaristico verso l’Utopia, anni ansiosi nel cercare e costruire modalità e forme nuove di testimonianza e di intervento. E perciò sono anni di cinema, in cui, da regista, Pasolini ambisce a riversare un animus febbrile di sperimentatore linguistico e di rottura formale, dall’alto o dal basso di un’assoluta verginità tecnica, digiuno com’era di formazione cinematografica e al più attrezzato di occasionali incursioni (ma, s’immagina, quanto voraci) sui set.
E così lo cattura l’occhio morbido di Mario Dondero, magnifico fotografo della scena pubblica degli anni Sessanta, a Milano e a Roma, di cui lo “scatto”, con nonchalance spontanea, quasi refrattaria alla formalizzazione estetizzante in sé, fissa i valori affettivi e umani, nel momento stesso in cui ne restituisce una formidabile galleria documentaria: di un clima culturale, di una tensione intellettuale e politica condivisa, di una rete di relazioni interne a tutta una comunità.
Non è assorbita su di sé neanche l’icastica presenza fisica di Pasolini, con la forza del suo corpo asciutto e atletico di quarantenne e del suo volto di trasparente fisiognomica espressiva, ancora non scavato dalla livida e macerata solitudine dell’intellettuale corsaro degli anni Settanta. Anche dietro la teoria dei bellissimi primi piani (è un Pasolini al montaggio della Rabbia), si intuisce il mondo partecipe con cui egli si relaziona e che ne condivide per affinità elettive e sentimentali perfino il vissuto quotidiano. Con ipotetico montaggio per un “fotoromanzo” amorevole, i ritratti di Pier Paolo si potrebbero abbinare ai volti, parimenti caldi di intelligente umanità, dei suoi amici e sodali: la Maraini, Parise, Penna e, naturalmente, Moravia e la Betti, questi ultimi fissati in due scatti con l’amico nell’istante rilassato di una triangolare conversazione tramata di un ritmico gioco di sguardi (e di silenzi) al tavolo della trattoria “Cesaretto” in via della Croce, mitico ritrovo della cultura romana almeno fino all’epilogo degli anni Ottanta.
Alcuni gruppi di foto, poi, tra quelli esposte in mostra, si riferiscono a tre film, realizzati tra il 1962 e il 1964, dopo l’opera prima Accattone, in cui quel fervore fitto di dialoghi e rapporti si incanala, con concreto impegno di comunicazione visiva: La ricotta, La rabbia, Comizi d’amore.
Un pratone polveroso e desolante della periferia romana, tanto cara a Pasolini, e, sul filo di un orizzonte in avanzata incombente, minacciosi e anonimi condomìni-già casermoni stile anni Cinquanta, sono il fondale per il Golgota della Ricotta, storia di un film da girarsi sulla Passione di Cristo e specchio della società italiana in mutazione, tra l’imminente estinzione del mondo arcaico dei “poveri cristi” sottoproletari e l’indolente sopravvivenza della classe borghese, incline al cinismo tattico di un gattopardesco trasformismo strategico. Di quel miserando baratro, che sta per inghiottire la Storia in una confusa e contraddittoria compenetrazione di tutte le classi, offrono una chiave, non solo documentaria, gli stessi scatti sul set di Dondero: con i suoi “ricconi” tirati a lucido accorsi per festeggiare l’ultimo ciak; con il Regista-Orson Welles, intellettuale ex-marxista sempre aggrappato, si direbbe, all’àncora di salvezza di pagine di libro e fogli di sceneggiatura; con la folla di romanissime comparse e maestranze in pausa, in attesa forse dell’agognato cestino; con la spettrale visione delle tre croci, su cui, per questa grottesca sacra rappresentazione (sotto accusa anch’essa per “vilipendio alla religione di Stato”), è issato Stracci, campione del Lumpenproletariat borgataro, con tutta la forza espressiva di un corpo di popolare arcaismo destinato a morte, per testimoniare la sua esistenza solo così, per tragico paradosso.
A quell’affresco, acido e caricaturale, Pasolini oppone la resistenza di un’irridubile alterità, marchiata dal decoro di serietà, in cui anche la cravatta pare investirsi di valore significante. E tale, con un’apparenza “borghese” di non corriva connivenza, perfino più marcata dall’eleganza della giacca tweed, Dondero lo fissa anche alle prese con la moviola della Rabbia, primo esperimento in campo documentaristico (poi in accesa polemica con il co-autore Giovanni Guareschi), velocemente ritirato dopo le prime proiezioni dell’aprile 1963. Con montaggio per opposizioni dialettiche di spezzoni da vecchi cinegiornali e con intenzioni dichiarate di “saggio ideologico e poetico”, Pasolini vi sferrava un’implacabile denuncia della deriva feroce, guerrafondaia, irresponsabile e già mercificata dell’Italia borghese attirata nel dopoguerra dal modello americano, ivi compreso il “comunismo conformista” delle Nomenklature e delle giovani generazioni, ma contrapponendovi insieme la necessità dell’Utopia e la prospettiva della Rivoluzione delle coscienze, la sola praticabile. Un magma per visioni di ribollente polemica che, nelle immagini di Dondero, Pasolini pare affrontare alla moviola con sospesa, trasognata, quasi serafica enigmaticità, appena schiarita a tratti da una piega fragile di sorriso mite e malinconico.
E poi Comizi d’amore, semiserio spaccato del 1964 dell’Italia del boom (da Nord a Sud, in città e in campagna), scandagliato attraverso interviste sul campo nei suoi cliché e nei suoi atavici pregiudizi intorno al tema del sesso, allora emblematica cartina di tornasole del tabù. Sull’arenile di Viareggio, sullo sfondo di una schiera di ombrelloni da ferie di massa, Pasolini guarda il suo fotografo amico (e noi) con un sorriso sornione, di ammiccante e divertita complicità, sicuro nella postura fisica, si direbbe, modernamente sportiva, da “Socrate sulla spiaggia”, come ha chiosato benissimo Federico De Melis.
Piace chiudere con questo “scatto” quasi scanzonato di Dondero, a contrappeso di altre immagini di anni successivi (fornite da altri maestri della fotografia), fino a quell’ultimo flash da obitorio e da cronaca nera – atroce- su un corpo quasi irriconoscibile, massacrato, sconciato, brutalmente messo a tacere il 2 novembre 1975.
Alla “disperata vitalità” del Pasolini combattivo degli anni Sessanta, e alla categoria del “rifiuto”, non controllabile né condizionabile, da lui fatta anche carne viva, la mostra “Pier Paolo Pasolini” è dedicata. Anche con riconoscenza al cuore puro, e all’occhio leggero, di Mario Dondero, che dell’amico Pier Paolo ha saputo cogliere, e ci consegna, spiragli vividi di verità, incantati e decantati da una condivisa irregolarità esistenziale e intellettuale.