L’attore Fabrizio Gifuni, acclamato interprete anche nel cast per l’ultima regia di Luca Ronconi dal testo Lehman Brothers di Stefano Massini, si è reso protagonista il 7 giugno 2015 di un assolo teatrale sulle pagine di Ragazzi di vita di Pasolini. “Uno dei romanzi più belli del Novecento”, ha dichiarato in una intervista rilasciata a Maurizio Porro, che ne ha raccolto anche le riflessioni sul metodo di lavoro seguito per questo reading che si spera di rivedere in tournée.
L’assolo di Gifuni per Pasolini
di Maurizio Porro
www. milano.corriere.it – 5 giugno 2015
Il «fratello» Lehman Fabrizio Gifuni lascia l’economia mondiale, Wall Street, gli shabbat e si riposiziona nelle borgate romane, dove era partito con ‘Na specie di cadavere lunghissimo, per la regia di Giuseppe Bertolucci. Ed è ancora e sempre Pasolini: domenica 7 giugno alle 20.30 al Parenti è andato in scena il reading su Ragazzi di vita, romanzo che fece scandalo nel 1955 e che l’attore ha già registrato integrale in un audiolibro Emons di nove ore e venti minuti ridotto qui in cinque parti, totale settanta minuti. «Un’altra straordinaria occasione, come Gadda, di ripercorrere un’avventura linguistica».
Come ha vivisezionato il romanzo? «Logica di scelta e principio di piacere, le parti che mi emozionavano di più, ma anche cercando di restituire un arco narrativo pur per ellissi e in maniera frammentaria. Al centro del romanzo corale, c’è sicuro il Riccetto, già presente nel monologo di Giuseppe Bertolucci, è un archetipo dell’immaginario pasoliniano che lo disegna fin da giovanissimo. E quello che mi appassiona sono i passaggi continui dalla vita all’opera e viceversa. I ricci erano un’ossessione che Pasolini dichiarò in una poesia giovanile (Danza di Narciso), poi riscritta con la stessa struttura metrica, ma con spirito mutato, più in nero. In una di queste, in friulano, scrive: “Posso solo dire che dal male dei ricci non si può guarire”».
Risorgono dalle pagine di un romanzo che trasformò letteratura e comune senso del pudore quei borgatari romani postbellici che al cinema saranno accattoni o appesi sulla croce, Franco, Ninetto e altri. Il Riccetto, e anche il Caciotta, il Lenzetta, il Begalone, almeno una dozzina di voci diverse in un attore strepitosamente multiplo: «L’ossessione pasoliniana prende corpo negli anni 50 in questo che è il suo miglior affresco. Le pulsioni che attraversano la mia lettura oscillano continuamente tra un romanzo intatto nella sua bellezza e purezza senza rughe, ma che è impossibile non leggere con gli occhi del presente. C’è un momento in cui Pasolini racconta come Riccetto, in due anni, fosse già diventato un figlio di mignotta, capace di ammazzare un frocio per duemila lire. Difficile non leggere in questi fulminei frammenti quello che accadde dopo, giusto quarant’anni fa. Pasolini dissemina la sua opera di riflessioni sulla morte, riesce perfino a prefigurare la stessa immagine del suo assassinio».
E torna così il grande tema del rapporto mai scisso tra vita e opera, prima e terza persona, tanto caro proprio a Ronconi che costruì dalla costola della letteratura parte del suo teatro. «Infatti penso spesso a Luca e ai Lehman, finito domenica [31 maggio 2015, ndr]con una standing ovation di dieci minuti e ripreso da Rai 5 che lo trasmetterà in autunno. E leggere Pasolini è essere sempre esposti a quest’oscillazione tra vita e morte, per sempre legate». Per l’attore è una festa entrare in quel mondo, quelle parole, quelle memorie. «Ragazzi di vita è uno dei romanzi più belli del Novecento», dice Gifuni senza se e senza ma. «La cosa che mi emoziona, ed è il motivo per cui in teatro mi piace lavorare su opere letterarie, è giocare col ruolo, affiancandolo, facendolo apparire e scomparire, nascondendomi dietro di lui o lasciare che lui si nasconda dietro di me, una danza tra narratore e personaggio, tra discorso diretto e indiretto: la magia di questa dissolvenza è la cosa che mi appassiona di più, far balenare per frammenti qualcuno ora vero e ora scomparso, come i Lehman. Perciò quello dello spettacolo di Ronconi è un viaggio destinato a durare perché ha una forza dirompente col pubblico, fatta di vita e morte, di creazione, gioco e infanzia, tutto insieme, segno per fortuna che un certo legame rituale della scena può ancora restare intatto».