“Vedere con gli occhi di un altro”. Strategie dell’autoritratto in Pasolini

Frapporre tra sé e la realtà il diaframma dell’arte figurativa e dell’immagine, secondo una strategia metalinguistica che dà forma al magma delle pulsioni e attiva una personale dinamica tra esterno e interno, tra mondo oggettivo e coinvolgimento soggettivo. E’ l’interpretazione con cui Francesco Galluzzi, storico e critico dell’arte, legge la vocazione pittorica di Pasolini e ne valorizza la costante tensione all’autoritratto. Per la gentile concessione, ringraziamo l’autore e la redazione di “Magazine littéraire” di Parigi in cui il testo è stato pubblicato nel dicembre 2014 in un fascicolo speciale dedicato a Pasolini e curato da Anne-Violaine Houcke.

 di Francesco Galluzzi 
www.magazine-litteraire.com

Nel corso della prima metà degli anni Quaranta del secolo scorso, il giovane Pier Paolo Pasolini, fortemente tentato come è noto dal disegno e dalla pittura (partecipando anche a qualche mostra collettiva regionale, nel Friuli dove viveva in quegli anni), realizzò una serie di autoritratti (sottoinsieme del più cospicuo numero di autoritratti che ricorre negli anni in tutto il suo corpus grafico), per lo più disegni, che rivestono un certo interesse per la definizione di quel rapporto con l’immagine e la visione che sarà carattere eminente di tutto il suo percorso creativo. Sono infatti raffigurazioni di un pittore al cavalletto, visto di profilo o di tre quarti (conservati in gran parte al Fondo Pasolini del Gabinetto Vieusseux di Firenze, uno accompagnato dalla scritta “Paolo dipinge”); più uno (oggi al Centro Studi Pasolini di Casarsa della Delizia), nel quale il poeta si raffigura come pittore di spalle, su un foglio diviso in due parti (su quella sinistra c’è, completato, il vaso di fiori che Pasolini sta dipingendo nel lato destro), sormontato dalla scritta “IO PITTORE PASOLINI”, ritrovato tra le carte del pittore friulano Federico De Rocco, che fece in quell’epoca da guida al poeta per le tecniche pittoriche. Questo disegno, sia pure tra gli esiti meno felici della grafica pasoliniana (e da alcuni neppure considerato di sua mano), è particolarmente interessante, poiché sembra quasi anticipare in embrione alcune delle strategie  attuate negli anni successivi dallo scrittore-regista per realizzare una messa in scena metalinguistica di sé all’interno della propria opera, attraverso la mediazione del riferimento pittorico (ambito nel quale Pasolini era dotato di una competenza non episodica, a partire dagli studi universitari di storia dell’arte condotti a Bologna, proprio negli anni cui risalgono questi disegni, sotto la guida di Roberto Longhi).
Il pittore ritratto di spalle mentre dipinge, a fianco dell’opera stessa che sta dipingendo, quasi una sorta di equivalente concettuale (e temporale) di una proiezione anamorfica (le due ante del ‘dittico’ sono distinte anche tecnicamente, una ad acquerello e una a pastello), sembra infatti il prototipo di una strategico autoritratto metaforico pasoliniano, attivato nel corpo stesso delle proprie creazioni, traslando la propria presenza fisica al loro interno per il tramite del riferimento ad opere d’arte esplicitamente riconoscibili, funzionale come esplicitazione metalinguistica della continua contaminazione tra la cultura artistico-letteraria dell’autore e l’operazione mimetica nei confronti di linguaggi marginali e dialettali, siano quello dei contadini friulani o quello del sottoproletariato romano – mimesi che, con gli anni Sessanta e la scoperta del cinema, sarebbe diventata autentica e commovente mimesi di corpi concepiti come materiale linguistico (il cinema era, secondo Pasolini, “la lingua scritta della realtà”).
I primi bozzetti narrativi di vita romana degli anni Cinquanta, poi raccolti in Alì dagli occhi azzurri nel 1965, sono quindi tramati di riferimenti artistici e letterari, che trasfigurano i “ragazzi di vita” come creature caravaggesche, alla maniera di Scipione, o evocanti i marmi classici – e parlanti le cadenze del poeta dialettale ottocentesco Giuseppe Gioacchino Belli. Al cinema, la fisicità di Accattone avrà la solidità massiccia e dolente delle statue romaniche del nord Italia, e delle figure affrescate da Giotto e Masaccio. Quando nei film i riferimenti diventeranno vere e proprie citazioni, come nei casi del Pontormo in La ricotta e Piero della Francesca nel Vangelo secondo Matteo, il poeta-regista giustificherà nelle interviste questa strategia stilistica dicendo che il riferimento pittorico gli è necessario per “vedere con gli occhi di un altro”, costruire, attraverso il riferimento culturale, un diaframma tra sé e le cose, diaframma che attesti la sua presenza autoriale quale medium che permette di trasfigurare il magma del reale in una “forma”.

Pasolini "allievo di Giotto", in "Decameron" (1971)
Pasolini “allievo di Giotto”, in “Decameron” (1971)

Questo procedimento sarà esplicitamente esibito in un film del 1971, con la seconda parte del Decameron, dove la storia degli affreschi realizzati a Napoli dal “miglior discepolo di Giotto”, che viene interpretato dallo stesso Pasolini, funge da raccordo tra i diversi episodi. Un pittore che vaga per la città popolare, selezionando tra la folla i volti da utilizzare per il proprio affresco, isolandoli tra tutti col gesto dell’inquadratura tra le dita, iconografia tipica del regista cinematografico. In questo caso il regista-poeta iscrive direttamente il proprio corpo come raccordo, all’interno dell’immagine (nel campo dell’inquadratura), tra la realtà popolare del presente e la sua poetica e sognata traduzione in un aldilà mitico sprofondato nel passato. E decide di farlo attraverso la messa in scena della ‘pittura’, per eccellenza secondo lui (come scriverà nel 1962, nella presentazione di una mostra di Renato Guttuso) un’altra “lingua della poesia”. Verso la conclusione del film Pasolini-Giotto sogna una messa in scena da “tableau vivant” del celebre Giudizio Universale affrescato da Giotto a Padova, nella controfacciata della Cappella degli Scrovegni.
L’immagine è, nella poetica pasoliniana, il vero e proprio ‘luogo’ di una appropriazione erotica (in senso assai lato) della realtà, tanto che in un romanzo giovanile, Amado mio, risalente alla seconda metà degli anni Quaranta, rimasto all’epoca inedito e pubblicato postumo nel 1982, elegiaca narrazione della propria educazione sentimentale “nei campi del Friuli”, l’atto di ritrarre un ragazzo si configurerà come una vera e propria strategia di seduzione. Attraverso l’immagine poteva distanziare da sé il plesso di passionalità e pulsioni da cui dichiarava di essere dominato nel suo sentimento verso il reale, oggettivarlo in maniera da essere sempre contemporaneamente interno ed esterno alla propria opera (anche la sua scrittura, specialmente quella narrativa, è eminentemente icastica).
Anche quello che è stato definito come il suo “narcisismo”, quando si esca dalle interpretazioni dettate da un approccio psicanalitico dozzinale, si configura piuttosto come una strategia di poetica da interpretare in tale senso. È stato scritto che il complesso dell’opera pasoliniana tende continuamente, e contemporaneamente elude, al modello dell’autobiografia. Forse sarebbe più esaustivo dire che tende al modello dell’autoritratto.

 [info_box title=”Francesco Galluzzi” image=”” animate=””]docente di estetica nelle Accademie di Belle Arti di Palermo, storico e critico dell’arte, si è occupato principalmente del manierismo cinquecentesco, della stagione delle avanguardie, dei rapporti tra arte e letteratura nella cultura italiana novecentesca. Si occupa del rapporto tra arte e nuove tecnologie, organizzando mostre e incontri, partecipando a convegni e dibattiti e pubblicando testi sulle principali riviste di settore. E’ stato redattore capo della rivista “La Stanza Rossa” ed è redattore della rivista “Km/n”. Ha partecipato all’attività  dei gruppi di ricerca sull’arte multimediale “Strano Network” e “Quinta Parete”. Il progetto “Quinta Parete” (1996) nasce con i molteplici obiettivi di dare una conoscenza tecnica di base sulla produzione di audiovisivi e sull’uso del linguaggio ipertestuale e una visione critica e analitica dei mezzi di comunicazione esistenti. Il gruppo, formato da Francesco Galluzzi, Federico Bucalossi, Vanni Cilluffo, Claudio Parrini e Giacomo Verde, nel 1996 avvia a Vinci la Minimal TV, la televisione di strada più piccola del mondo. La funzione della Minimal TV è quella di “dimostrare” che ogni evento può trasformarsi, artigianalmente, in un evento televisivo, nel quale però, a differenza di quanto avviene nella tv, il pubblico viene realmente coinvolto fino a diventare protagonista e produttore della trasmissione televisiva. Tra le sue tante pubblicazioni, Pasolini e la pittura (Bulzoni ed., 1994), Il cinema dei pittori. Le arti e il cinema italiano 1940-1980, Skira ed., 2007), Le avventure delle immagini. Percorsi tra arte e cinema in Italia, (Solfanelli ed., 2009).[/info_box]

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