È in corso, a Barcellona, una mostra dedicata a Pasolini. La risonanza che sta avendo è enorme, come preannunciato da un servizio de «El País» del mese scorso. Sull’argomento torna ora, con una sentita testimonianza, Marcos Ordóñez, scrittore e giornalista, che sullo stesso giornale cura la critica teatrale e tiene la rubrica El hombre que fue Jueves [L’uomo che fu Giovedì, di G. K. Chesterton].
Qui di seguito la traduzione italiana del testo compiuta da Nicolò Messina, amico di Francesco Virga.
Una settimana con Pasolini
Marcos Ordóñez – “El País”, 5 giugno 2013
[traduzione di Nicolò Messina, un ringraziamento a Francesco Virga]
Che enorme godimento ho provato con l’esposizione Pasolini Roma, al Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona (CCCB), e con il suo splendido catalogo, pieno di lettere, poesie, memorie e finestre. È stato, per così dire, come vivere una settimana con Pasolini, con i suoi testi e i suoi film, e non smetto di vedere il suo sorriso, risplendente come una camicia bianca, perché la mostra emana felicità, la felicità di vedere un uomo immaginare, abbracciare, moltiplicare, prendere atto di un mondo feroce e costruire un altro mondo possibile, con la “disperata vitalità” cantata da Laura Betti. Enorme personaggio: poeta, romanziere, saggista, pittore, sceneggiatore, cineasta, sempre uguale e sempre diverso, gran contraddittorio, marxista e libertario, credente e nichilista, apocalittico ma mai integrato, e, al di sopra di ogni cosa, esploratore del sacro, questo palpito di eternità “che il laicismo consumista”, scrisse, “ha strappato all’uomo per trasformarlo in uno stupido adoratore di feticci”.
Pochi come lui hanno incarnato in modo così inequivoco l’intellettuale e l’artista degli anni Sessanta, anche se evocandolo ho finito col pensare ai nostri anni Trenta e a Lorca, al Lorca popolare e visionario, allegro e oscuro, al Lorca fecondissimo e, come lui, morto in circostanze mai del tutto chiarite. Ambedue, ognuno a modo suo, hanno pagato un alto prezzo per essere così liberi. Puntarono contro Pasolini fascisti e democristiani e i suoi stessi compagni comunisti, in diverse epoche ma con significativa unanimità alla fine, e lo presero a colpi di processi: 33 procedimenti, per i più diversi motivi, da omosessualità a “vilipendio della religione dello Stato”, che proseguirono fino a due anni dopo la sua morte, ma risultò assolto, conviene rimarcarlo, da tutte le cause.
Questa settimana ho riscoperto il fulgore vitale dei suoi primi film, Accattone e Mamma Roma, e la sua straordinaria poesia, e la lucidità profetica di alcuni dei suoi Scritti corsari, cosí vicina a Guy Debord. Dissento in molte cose, ma rileggendolo è cresciuta la mia ammirazione per il suo pensiero appassionato, la sua gioia “stoica e antica”, sempre assediata dal dolore. Tre ferite essenziali: la morte del fratello Guido, il giovanissimo partigiano caduto nel 1945; la separazione da Ninetto Davoli, l’amore della sua vita, nel 1971, e come un uccello nero o una nera macchia di petrolio, la fine di un’Italia divorata dal neocapitalismo, e in modo particolarissimo la perdita di quel suo piccolo paradiso sottoproletario, dalla vita durissima ma molto più intensa e luminosa della cementificazione venuta dopo: le borgate che aveva conosciuto al suo arrivo, aggrappate alle rive del Tevere e ancora odorose, come la loro gente, “di gelsomino e umile zuppa”.
Il Pasolini degli ultimi anni è un uomo amaro, spesso eccessivo, forse perché lo fu pure l’epoca, i terribili “anni di piombo”; un utopista che chiede cose così impossibili (e in fondo così comprensibili) come l’abolizione della televisione e della scuola media, per cominciare da zero. Ricordo quegli anni, quando non comprendevamo che la gioia impudica della Trilogia della vita poteva condurre all’abiura, all’orrore e alla violenza insobbarcabile di quel Salò che mostrava, come un Pasto nudo, la desolazione della sua chimera.
Sento di nuovo l’impressionante discorso funebre di Moravia sul portone di casa sua, il 5 novembre del 1975, mentre portano giù il feretro, lo risento dire, con rabbia, con estrema chiarezza, senza ombra di retorica, quel che bisognava dire: “È morto un poeta e un testimone, un uomo valoroso, un uomo buono, di intelligenza lucida e ferma”. Mi sovviene ora il ricordo lontano di Vincenzo Cerami, che parla del Pasolini professore, nella scuola di Ciampino, quel professore dalla voce dolcissima che abitava a Rebibbia e doveva prendere due autobus e un treno per poter andare a far lezione, che giocava a calcio prodigiosamente e regalava i suoi libri, e al quale non importavano tanto gli errori grammaticali quanto gli errori etici: “fare il lecchino, dire bugie”. E penso ad Accattone che cade come Icaro nei versi di Auden, “e poi solo l’acqua nera che scorre, e buonanotte”, ma non solo questo, mai solo questo, ed è così come fiorisce di colpo, primaverile, questo ricordo: la prima volta che mi sono imbattuto nel nome di Pasolini, nei primi anni Settanta, a casa di Raúl Ruiz. C’era sul suo tavolo un’edizione originale de Le ceneri di Gramsci, e io, che non sapevo l’italiano, credetti che il titolo fosse Le ciliegie di Gramsci, e Raúl sorrise e disse: “Cerezas per cenizas, ciliegie per ceneri, gli sarebbe piaciuto questo, a Pasolini”.