Silvia Pellegrino ha tracciato di recente un accorato ricordo di Sergio Citti, scomparso l’11 ottobre di dieci anni fa. Ne emerge il ritratto di un uomo e di artista che, dalla borgata al cinema passando per l’amicizia e la collaborazione con Pasolini, testimonia e condensa in sé un universo popolare e romano del tutto perduto.
Sergio Citti, il poeta delle baracche che cantava la realtà
di Silvia Pellegrino
www.republica.it – 25 maggio 2015
“Perché avecce paura della morte quando sai che c’è? Semmai me rode er culo. Ce stringerei un patto, se potessi, ce diventerei amico e so’ sicuro che l’incastrerei, je farei ‘na sola, ‘na truffa”. Girava in mezzo a “ladri, truffatori, papponi, mignotte, spie, ruffiani, cornuti, ubriaconi, falsi santi e pappolari” quando ancora, da ragazzo, con 1.800 lire guadagnate come imbianchino, viveva le borgate, e della morte si faceva una risata. Nasce il 30 maggio del 1933 a Fiumicino Sergio Citti, il “pittoretto” Jester che ha mostrato la nudità e la vergogna delle creature al di là e al di qua delle baracche. Curioso osservatore di una società in via di disgregazione, ne ha raccontato con animalesca violenza ed innocente onirismo mille e una storie.
Nel 1950 Sergio Citti incontra Pier Paolo Pasolini e diventa, assieme allo scapestrato fratello Franco, una vera e propria guida tra le palazzine basse, le luci e la “monnezza” della periferia di Roma. Sergio collabora con lo scrittore friulano come consulente dialettale e cantastorie nella stesura di Ragazzi di vita e di Una vita violenta: ispirandolo, mostra a lui la fame di vita dei suoi compagni, stringendo un sodalizio che durerà fino alla morte di Pasolini. Ma quei critici che “avrebbero dovuto stare sul set per capire, quegli stronzi del cinema”, come Sergio li definiva, non posero attenzione alla sensibilità dell’autore compianto, fin dagli esordi.
Nel 1970 esce nelle sale Ostia, capolavoro interpretato dal fratello Franco e da Laurent Terzieff, nei panni dei fratelli Rabbino e Bandiera, con un escamotage grafico apportato sulla locandina per presentarlo come una nuova creatura pasoliniana agli occhi del pubblico pagante. Ma Sergio al pubblico non ha mai voluto raccontare; lui amava e parlava, senza il ricatto della comprensione, solo alle persone. Schiacciato dall’ombra gigante dell’amico fraterno, Sergio è rimasto un outsider davanti e dietro la macchina da presa, “un pasolineide di matrice naif”, rivalutato post mortem attraverso una doverosa riesumazione del suo sudario in celluloide. Dietro quegli occhiali grandi, uno sguardo minuzioso, maniacale, rivolto verso la realtà.
Nel 1973 torna a profetizzare per immagini con Storie scellerate, un unico corpo sporco e dolente trasposto nella cornice della Roma papalina di inizio Ottocento, direttamente raccolto come frutto maturo del suo vissuto, quando al posto dei due picari un po’ fregnoni c’era il popolo delle osterie. Sul set assieme a Pasolini come aiuto alla regia da Uccellacci e Uccellini fino ai Racconti di Canterbury, collabora alle sceneggiature di Accattone e Salò o le 120 giornate di Sodoma, vere e proprie parabole sociali e politiche, il cui riconoscibile tratto ritroviamo nel bestiario di Scola in Brutti, sporchi e cattivi. La sua miracolosa capacità di narrare, errando tra gli istinti più bassi e la crudele innocenza dell’umanità, opponendosi alle forzature dell’industria dello spettacolo, lo porta a dirigere un cult ritrovato come Casotto. Grandi nomi, allora, per un film low budget, come diremmo oggi, costellato da grandi interpreti quali Ninetto Davoli, Silvana Mangano, Ugo Tognazzi, Paolo Stoppa, Catherine Deneuve, Jodie Foster (l’americana cicciotella strettamente sorvegliata dalla madre in trasferta), Gigi Proietti e l’immancabile Franco Citti. Due rubagalline un po’ stupidi, un po’ furbetti e i loro piedi zozzi: una scena tragica sulla carta ma costata ben 24 ciak dato il clima goliardico che si respirava in quell’unità di luogo così teatrale e rocambolesca che era data dal casotto numero 19.
In quell’universo picaresco, nutrito dagli aspetti più autentici della realtà, sopravviveva una cultura popolare, altrimenti perduta, di suonatori ambulanti, saltimbanchi e vagabondi che con semplicità disarmante mostrano le nefandezze dell’appetito (Due pezzi di Pane, Il minestrone). Sono crude le analisi della pochezza umana che Sergio Citti rielaborava in chiave favolistica (Sogni e bisogni, I magi randagi, Cartoni animati) senza mai privare i protagonisti della loro scellerata vitalità, anche di fronte all’amica Morte. Li immaginava in processione, nudi e senza tasche dove nascondere la propria vergogna, tornare verso casa.
L’11 ottobre del 2005, Sergio Citti si spegne ad Ostia guardando ancora una volta nel mondo “leggerezza, fatuità, incoscienza, perverso liberalismo e carne, soprattutto carne e sangue”.