Già dalla metà degli anni Sessanta Pasolini pensava ad una vicenda picaresca per un film che poi, ripresa nel 1973, avrebbe dovuto fare da traliccio a Porno-Teo-Kolossal, una pellicola da girarsi dopo Salò e da affidare a Eduardo. Dei rapporti tra Pasolini e il grande attore napoletano ci rimane una lettera, datata 24 settembre 1975, con la quale il regista inviava ad Eduardo la sceneggiatura del progetto, che poi rimase sulla carta: «Caro Eduardo, eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo. Mancano i dialoghi, ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo. […] Spero, con tutta la mia passione, che non solo il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che tu mi aiuti e m’ incoraggi ad affrontare una simile impresa» (Lettere 1955-1975, Einaudi, Torino 1988, p. 742).
Profonda era la stima di Pasolini per Eduardo. Egli criticava Strehler, Ronconi e la politica culturale dei grandi Stabili, basata su grandi spettacoli e manierismi decorativi. Li definiva «una forma di kitsch», mentre gli piaceva molto Eduardo, che parla, “più che il dialetto napoletano, l’ italiano medio parlato dai napoletani, cioè un italiano reale. Ma non ne fa una mimesis naturalistica: vi ha creato sopra una convenzione che gli dà assolutezza e lo libera da ogni particolarismo. Quella di Eduardo è una purissima lingua teatrale» (“Sipario”, 229, maggio 1965).
A trent’anni dalla morte, ricordiamo il grande drammaturgo, attore mancato di Pasolini, attraverso le parole di Gennaro Carillo, intervistato da Maria Chiara Strappaveccia.
Maria Chiara Strappaveccia
www.lindro.it – 3 novembre 2014
Il 31 ottobre scorso sono passati trent’anni dalla morte di Eduardo De Filippo, personaggio carismatico e uno dei massimi esponenti della cultura italiana del Novecento, non soltanto drammaturgo, attore e regista teatrale e cinematografico, sceneggiatore e poeta, nominato senatore a vita dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini e candidato a Premio Nobel per la letteratura. «L’artista Eduardo non è mai disgiunto dall’Eduardo impegnato nell’analisi e nella critica dei paradossi della realtà. Chi ancora oggi si accosti alla sua opera senza tempo, eterna, non può che esserne profondamente toccato. Grazie Eduardo, rimarrai sempre nelle nostre menti e nei nostri cuori»: queste sono le parole di Pietro Grasso, presidente del Senato, in occasione della cerimonia del 31 ottobre scorso, intitolata Cantata delle parole chiare. Voci dal teatro di Eduardo in Senato, dedicata a Eduardo De Filippo per commemorarne la ricorrenza della scomparsa; essa vede il teatro del grande maestro come protagonista, con «una funzione morale, una funzione pedagogica, una funzione di rinnovamento» per tutti noi che dobbiamo a questo personaggio emozioni, pensieri, lacrime e sorrisi grazie alle sue opere.
Per commemorare la ricorrenza, si sono succedute dal 25 ottobre fino a domenica 2 novembre diverse proiezioni di opere da lui realizzate sulle reti televisive nazionali, oltre a un convegno a Napoli con vari approfondimenti. Venerdì 31 ottobre scorso è stato inoltre organizzata, all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa a Napoli, una giornata di studio dedicata al rapporto tra il mondo poetico di Eduardo e alcuni temi storico-antropologici, come il sogno, il colloquio con i fantasmi, il simbolismo del cibo, la famiglia, la comunità, la devozione e la tradizione, che caratterizzano profondamente l’universo partenopeo e più in generale il Mezzogiorno. L’incontro napoletano costituisce l’evento conclusivo del progetto “I giorni e le notti: l’Arte di Eduardo” a cura di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti, iniziato nel febbraio scorso al Teatro Auditorium/Cams dell’Università della Calabria, che proseguirà per tutto il 2014. Il progetto coinvolge diversi Atenei e istituzioni culturali: Università della Calabria (che ha il coordinamento del progetto), Centro Sperimentale di Cinematografia/Cineteca Nazionale Fondazione Eduardo De Filippo, Università degli Studi di Salerno, Fondazione Salerno Contemporanea, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Università degli Studi di Messina/Centro Interdipartimentale di Studi sulle Arti Performative
Gennaro Carillo ha partecipato alla seconda parte del convegno napoletano con l’intervento Il capo o Comico. Per un’antropologia politica eduardiana, dal titolo definito dallo stesso docente ‘criptico’. Negli ultimi cinque anni egli è stato docente presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, alla Facoltà di Lettere per le discipline di Storia delle dottrine politiche (ora Storia del pensiero politico), di Storia delle istituzioni politiche, di Storia della filosofia, di Storia del pensiero filosofico e politico, di Archeologia dei saperi del mondo antico; negli ultimi tre anni presso la stessa Università alla Facoltà di Giurisprudenza per gli insegnamenti di Diritto e letteratura; negli ultimi quattro anni presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II alla Facoltà (ora divenuta Dipartimento) di Giurisprudenza, relativamente all’insegnamento di Storia delle dottrine politiche.
Non essendo né storico del teatro, né antropologo, ma storico del pensiero politico, principalmente di quello antico tra V e IV secolo a.C., Carillo usa il teatro antico (sia quello tragico, ma in particolare quello della commedia) come fonte per spiegare il pensiero politico di quei tempi, perché non si può capire molta della democrazia antica, seppure con trasformazioni a volte persino grottesche, se non si fa riferimento al teatro comico. Da questa trattazione è scaturito un grandissimo interesse da parte sua per il teatro in generale, soprattutto per quello comico, che lo ha portato a rileggere Eduardo in senso politico, soprattutto in ‘Napoli milionaria!’, commedia inserita dall’autore come primo lavoro nella ‘Cantata di giorni dispari’ (intesi come quelli negativi, a differenza dei ‘giorni pari’, fortunati e felici) e anche omonimo film del 1950 diretto dallo stesso De Filippo, e Natale in Casa Cupiello. Si tratta di affrontare le opere di un Eduardo ormai famoso, con una chiave che definisce un’antropologia politica legata alla ‘scena-padre’, perché in entrambe queste commedie l’aspetto che lo studioso intende trattare (e che pesa di più) è la figura del padre. Si va al di là del riferimento al fascismo, che in Napoli milionaria! è società di controllo, dove non fanno paura i personaggi al vertice del potere ma quelli che più somigliano a noi, ci sono vicini e stanno alla base della piramide: tale concetto è metaforizzato notevolmente e socialmente nella scuola, i gerarchi sono ‘i prufessori’, ossia i professori che fanno sì paura perché incarnazione dell’autorità, ma non quanto ‘i bidielli’ , ossia i bidelli che ascoltano e denunciano le persone alle autorità, quali spie dell’autorità stessa.
De Filippo compendia con una sola battuta tale concetto, come succederà successivamente per Fellini in Amarcord: il potere è tanto più inquietante, quanto più pervade gli strati infimi di una società, negli aspetti microscopici più che in quelli macroscopici. La figura del padre Gennaro, persona onestissima ma piccolo borghese, si trova in Napoli milionaria! e serve soltanto in quanto recita nel primo atto la propria morte più volte (perché ogni volta sta per arrivare il brigadiere Ciappa con le guardie) per coprire i commerci di ‘mercato nero’ della moglie Amalia, rendendoli salvi perché si finge morto nel letto e fa sì che non si proceda alla perquisizione della casa, o si rappresenta in seguito la sua assenza. Il primo atto, fortemente condizionato dal lavoro teatrale di Scarpetta (padre naturale di Eduardo), di Antonio Petito e dalla commedia dell’arte (detta anche improvvisa, perché sulla base di un canovaccio o di uno scenario era improvvisata sulla scena per le battute e i dialoghi), diventa la summa della commedia comica mediterranea e occidentale (includendo in questa anche Moliére e Aristotele) e una delle più celebri della storia del teatro napoletano. Si racconta che, finita questa scena, Eduardo fosse stato costretto ad andare davanti al pubblico ad annunciare, dopo il divertimento generale, il proseguimento teatrale con un’altra storia, con un cambiamento anche della lingua utilizzata. Nel secondo atto c’è infatti un salto d’intensità drammatica e perdita di comicità: Gennaro Iovine non c’è perché è stato fatto prigioniero dai tedeschi e dopo 14 mesi, nei quali è considerato ‘presunto morto’, torna a casa trovando una situazione evidentemente devastata: la tresca, ormai nota, tra la moglie e ‘Settebellizze’, alla quale si era già alluso nel primo atto; la figlia che aspetta un bambino da un americano che se ne è ritornato in patria; il figlio che è diventato un ladro di macchine. Reduce dalla prigionia, Gennaro vorrebbe narrare ciò che gli successo, ma la prova della superfluità e dell’indifferenza con cui viene accolto da suoi familiari è evidente nell’ascolto non partecipe dei suoi racconti da parte della famiglia. Rispetto alla Grande Guerra, la Seconda Guerra Mondiale si basa sull’epos piccolo borghese, ultimo rifugio di quest’uomo, in cui può sopravvivere un sistema di valori su quali fare leva nel quadro di rovine fisiche e simboliche (quindi morali) che incarna Napoli; al prigioniero che torna non dà diritto al racconto epico e storico delle sue vicende, anche se la sua è una storia vera. La funzione del padre rimane solo quella della finzione, in un mondo che non ha più bisogno di tale figura, anche se a questa conclusione disperata Eduardo pone rimedio in maniera ambigua col personaggio del ragioniere Riccardo, il solo a possedere in Napoli il farmaco per far guarire la bambina che si è ammalata, nonostante sia stato vessato in passato da Amalia, donna ferocissima e del tutto priva di innocenza. Sarà lui a dare gratis questo medicamento alla donna. Attraverso il melodramma, espediente che è proprio di Flaubert nella sua Educazione Sentimentale (quando si ammala il bambino, si pensa che questa malattia dipenda dall’infedeltà coniugale, tema tipico dell’immaginazione melodrammatica occidentale, su cui Peter Brook ha scritto dei contributi importanti), tutto dovrebbe tornare e Gennaro infatti pronuncia la tremenda e famosa battuta ‘A da passà ‘a nuttata’ con cui si chiude Napoli milionaria!’. Questo ruolo del padre ritorna, anche se in maniera diversa, in Natale in Casa Cupiello, che è di per sé già una farsa, anche se con un finale tragico.
Gennaro Carillo, cosa rappresenta per Lei Eduardo De Filippo come uomo politico, candidato premio Nobel per la letteratura e anche docente universitario?
Sul piano della scrittura, amo molto e preferisco il primo Eduardo fino a Napoli milionaria! che qualche critico ritiene essere il meno originale e meno interessante, mentre la produzione più intimista e che stempera molto il dialetto e la lingua napoletana in un italiano un po’ piatto, con qualche inflessione dialettale delle opere successive, mi piace molto meno. Ho amato Eduardo fino all’età di 18 anni, poi l’ho profondamente detestato e adesso ho ripreso a leggerlo da qualche anno e nella lettura le battute del capocomico me le immagino nella mia mente recitate da Eduardo e non riesco a scinderle da tale personaggio. Quanto più quest’attore è legato alla commedia dell’arte, e anche alla farsa scarpettiana o di Petito, tanto più trovo l’attore Eduardo interessante e stratosferico rispetto alla sua tradizione, anche se egli aveva avuto una fortuna alterna a Napoli, e in seguito ha avvertito tale teatro come una gabbia. In questo ha avuto una parte determinante anche l’incontro con Pirandello, che ha aperto un’altra fase nella storia di questo personaggio. Mi rincresce che questa sua notorietà abbia messo un po’ in ombra la grandezza almeno paritaria di suo fratello Peppino, attore assolutamente straordinario. Eduardo e Peppino si destavano, come noto, tanto che Peppino imputava il successo maggiore di critica del fratello alla tessera del Partito Comunista e all’egemonia culturale di tale partito. Queste sono le feroci battute che si scambiavano i due fratelli e ci fu anche una rottura violenta, ma prima tutti e tre i De Filippo (Eduardo, Titina e Peppino) recitavano insieme. È evidente che la grandezza di Eduardo stava proprio nel suo essere attore, il che non rappresenta una diminutio rispetto alla docenza universitaria o alla sua esperienza come politico (con conseguente nomina a Senatore a vita): nell’andare in scena, nel farsi vedere dal pubblico, e semplicemente con l’esibizione del corpo e senza nemmeno bisogno della voce, molto più di Carmelo Bene, soltanto Salvo Randone ha avuto questa stessa capacità di imprimersi nell’immaginario del pubblico. Salvo Randone rappresentava però una corposità e fisicità molto piene e perentorie, mentre Eduardo presentava una scarnificazione della scena che era anche rappresentata dal suo corpo, con una maschera straordinaria che supera ed è anche più incisiva di quella di Randone stesso. A Roma Orson Welles portò Peter Bogdanovich a teatro per fargli vedere Eduardo, considerato a suo giudizio il più grande attore del mondo. L’opera omnia di Napoli dei giorni pari e dei giorni dispari è stata pubblicata da Einaudi e questo ha significato moltissimo per la cultura italiana. A Napoli non si riesce a dissociare il capocomico, e quindi il primo attore, dalle sue commedie, e tornando al titolo del mio intervento al convegno, dal corpo di Eduardo: chiunque si sia misurato con Eduardo, cercando di riproporlo filologicamente, è andato a scontrasi con la sua presenza assolutamente fantasmatica, ingombrante, da padre, e tale esperimento fallisce senza Eduardo come attore presente sulla scena.
Al ‘Festival dei Due Mondi’ a Spoleto il 1 luglio del 1989 Leo de Berardinis, che ho conosciuto e intervistato per oltre un’ora e ho pubblicato tutto in un volume, è stato bravissimo nel modo di rifare Eduardo attraverso uno spettacolo (A da passà ‘a nuttata dall’opera di Eduardo De Filippo), messo su con diversi frammenti dell’attore, non potendo recitare Napoli milionaria! in quanto i diritti erano stati ceduti a Mariano Rigillo. Sulla scena Leo era un attore che aveva capito che misurarsi con Eduardo significava avere l’impossibilità di avere una ripresa filologica della sua opera, scarnificando l’opera già ridotta all’osso di Eduardo stesso, e quindi non restava che enucleare da quest’attore alcuni aspetti e recitarlo quasi con un atteggiamento orientale, dando la massima attenzione al corpo nello spazio e alla voce e al controllo stesso di essa. La presenza di Eduardo stesso nelle opere notevoli e straordinarie di de Bernardinis è stata molto forte, anche in uno spettacolo come Totò principe di Danimarca e in tanti altri. Qualche anno prima del 1989, Servillo aveva recitato in E (che fu una cosa bellissima, un assolo tratto da poesie di Eduardo con una scena nulla e poverissima e il giovane attore vestito di nero che recitava). Penso che Servillo stia cercando di fare la stessa operazione che ha realizzato Leo de Berardinis, e non a caso egli era nello spettacolo di Leo A da passà ‘a nuttata dall’opera di Eduardo De Filippo. Non so quanti tengano in considerazione questa cosa, perché Leo ormai è morto e se ne parla sempre meno, ma è stato un grandissimo del teatro italiano del Novecento. Sarebbe bello domandare a Servillo quanto della lezione edoardiana di Leo de Berardinis sopravvive nelle sue messe in scena attuali, che hanno avuto grande successo a San Pietroburgo, a Parigi, in America.
L’immagine politica ha un po’ nuociuto a De Filippo, impedendo una sorta lavoro critico rigoroso su alcune sue opere. Tutto ciò sconta un fallimento originario nel momento in cui, per definizione, la memoria dell’attore si perde, anche se si registra la sua recitazione. C’è una bellissima Napoli milionaria! con regia televisiva notevole, ma il gesto dell’attore appare irripetibile e quindi si consuma la sua memoria, o il ricordo negli altri attori a lui sopravvissuti rischia di essere edipico. Questo è un grosso problema di Napoli, che ha un grosso problema edipico con Benedetto Croce, e la cultura partenopea paradossalmente non riesce a liberarsi da questo personaggio; allo stesso modo, la scena teatrale napoletana ha nei confronti di Eduardo lo stesso atteggiamento, non riesce a uscire da una deferente filologia in tal senso. Una grande stagione della drammaturgia napoletana è quella dello straordinario e ancora naturalistico Annibale Ruccello, soprattutto quella di Enzo Moscato e adesso quella di Mimmo Borelli, che nasce per molti versi in chiave diametralmente e violentemente anti-eduardiana.
Detto ciò, di recente è uscito un articolo su Eduardo a firma di Moscato che sarebbe stato impossibile qualche anno fa, ma poi si ha modo di elaborare da un lato il lutto e dall’altro la rabbia verso tale personaggio: a volte è necessario che il maestro più venerato e più riconosciuto della generazione precedente sia ucciso da quella successiva, e oggi ci sarebbe bisogno di nuove uccisioni, anche per ristabilire la giusta distanza critica, invece le messe in scena di Eduardo spesso sono pessime e i tentativi di rifare Eduardo con quest’attore assente sono bruttissimi. Capisci allora il valore aggiunto che veniva dato al testo dal corpo scenico e attoriale di Eduardo, cosa che con le opere di Pirandello non succede, perché quest’ultimo non andava in scena. Si evince la complessità della figura di Eduardo che scriveva, dirigeva e andava in scena da capocomico, da teatrista in senso argentino, cioè da teatrante, divenendo anche mercante di sé, come è giusto che sia, secondo la tradizione della commedia dell’arte, in cui il teatrante faceva del suo corpo un uso a livello altissimo. Oggi sono trent’anni dalla morte di uno splendido e irrepetibile corpo attoriale, al quale continuo a ripetere possiamo avvicinarci soltanto, come ha fatto Leo de Bernardinis, cercando di frantumare Eduardo, riprendendone, se possibile, la memoria. Il berretto a sonagli di Pirandello diventa in Eduardo Questi fantasmi! , forse perché non riesco a dissociare la figura dello scrivano Ciampa ne Il berretto a sonagli da quella di Salvo Randone: il padre e il marito fanno ancora paura, e vige anche il delitto d’onore in Sicilia (non che non fosse attuato anche a Napoli), poi tale personaggio simula la pazzia, mentre in Eduardo è tremendo che i padri normali, piccolo borghesi e proletari, non facciano più terrore, e solo se camorristi incutono questo sentimento di paura, come Il Sindaco del Rione Sanità. A Napoli la famiglia borghese è diventata un grande gineceo con una struttura matriarcale: donne fedifraghe e imprenditrici di se stesse, almeno nelle commedie che ho citato, lasciando stare Filomena Marturano, e padri che non devono sapere o capire niente, ultimi a comprendere, e che costruiscono in buona sostanza una scena che non interessa a nessuno, per esempio il presepe o le vicende del prigioniero, come le figure di Luca in Natale a Casa Cupiello o di Gennaro Iovine in Napoli milionaria!.
Questo è un tratto distintivo anche rispetto a Pirandello, e che separa Napoli dalla Sicilia: e descrive, anche secondo le opinioni tra il serio e faceto di qualche magistrato, la stessa mafia dalla camorra, come più clownesca e pagliaccesca rispetto alla mafia in generale, più ferrea, più strutturata dal punto di vista organizzativo.
Quanto è importante De Filippo, anche ai fini della dignità ufficiale linguistica, il teatro dialettale d’arte nell’uso del parlato italiano e del dialetto napoletano e per la descrizione della vita passata di Napoli, per cui gli fu conferito anche il Premio Feltrinelli per la rappresentazione Il sindaco del rione Sanità (da cui trassero nel 1997 anche un film con Anthony Quinn)?
La questione linguistica è fondamentale per Eduardo, anche se ci sono diverse fratture in De Filippo. Svolge un’operazione geniale nel suo fallimento, cercando di forzare il napoletano in una gabbia della vera e propria lingua italiana: ne Il Contratto, o ne Il sindaco del rione Sanità, c’è una battuta sulla trasmissione Non è mai troppo tardi con la quale si insegnava l’italiano agli italiani. Egli doveva superare la gabbia del dialetto che avrebbe costituito un ostacolo, in termini pratici, alla ricezione del suo teatro, ma per farlo costruisce una lingua ibrida, tra italiano di base, levigato, piatto, e un napoletano del tutto edulcorato, che qualcuno non gli perdona perché la ‘lingua tosta’, come tale dialetto veniva definito, svapora e perde mordente e intensità nella produzione successiva. Il suo contributo è stato importante, ma un po’ come succede per Dario Fo, c’è questo grande equivoco che dà valore solo alla letterarietà, dimenticando che l’aspetto guittesco e attoriale ha una sua importanza fondamentale. Dario Fo è un grandissimo guitto e attore, che significa di per sé già qualcosa, anche senza aggiungere la letterarietà e il contributo alla lingua italiana che hanno dato autori come Gadda, forse Petrolini, ma non certo Eduardo stesso, e comunque non è quello il suo apporto determinante che rimane nella cultura del nostro Paese. Dal punto di vista antropologico, nel convegno ne parleranno Marino Niola e Stefano De Matteis, due grandi studiosi in tale campo: Eduardo è una fonte straordinaria per ricostruire la vita a Napoli, ma io starei molto attento, perché il teatro è una grande macchina di manipolazione, ma anche di trasfigurazione e deformazione della realtà, e quello comico lo è ancora di più. Possono essere ricostruiti tutta una serie di elementi e di aspetti, ma bisogna tener conto che l’obiettivo del teatro è costruire un mondo alternativo, che andrà poi in scena.
Eduardo era figlio d’arte: il padre naturale era Eduardo Scarpetta e sua madre la sarta teatrale Luisa De Filippo. Quanto influirono questi due fatti nella vita di Eduardo?
Eduardo ha sempre lavorato nel teatro e ha copiato, tradotto e adattato, cosa che apre tutto un discorso su come si lavorava prima nel teatro e sull’autorialità dell’attore. Noi contemporanei abbiamo la concezione romantica del genio, secondo la quale è tale soltanto colui che innova e inventa ex nihilo qualcosa; l’ambiente in cui è nato e cresciuto Eduardo offriva spazi nei quali si lavorava molto con materiali già preesistenti. Non a caso un grandissimo storico del teatro, purtroppo scomparso, affermava che i comici della commedia dell’arte parlavano di capitale, ossia di quel repertorio costituito anche da idee, battute e intuizioni altrui, che diventa una sorta di proprietà collettiva, o diremo oggi di bene comune, di cui si appropriano al bisogno gli attori dell’improvvisa. Eduardo ha realizzato le sue opere anche su testi di altri, non a caso la battuta ‘Te piace ‘o presepe’ di Natale in Casa Cupiello, che è stata rivendicata da Peppino come propria, se messa in un altro contesto suonerebbe come un plagio: qui non lo è, in quanto era un modo e un metodo di lavoro quello del prestito che attinge al succitato capitale disponibile. È chiaro che il teatro di Eduardo è una summa di elementi di più tradizioni di teatro europeo e forma un unicum, un corpo collettivo in tal senso, come avviene anche nelle opere di Shakespeare e soprattutto di Molière, e non vi troviamo soltanto pura innovazione teatrale, ma Eduardo stesso è figura singolare e anche di sintesi di questi elementi. In uno degli ultimi e migliori spettacoli, come L’ingegner Gadda va alla guerra, tratto da Gadda soprattutto e da Shakespeare, con la regia del compianto Bertolucci e con un attore come Fabrizio Gifuni, che nel recitare il grande innovatore del linguaggio italiano del Novecento incarna in un assolo di un’ora e mezza tutte le tradizioni proprie dell’attore (Eduardo, soprattutto Carmelo Bene, Gassmann, Randone, Romolo Valli, Carlo Cecchi ecc.). Questi non recita soltanto la propria parte, ma anche il teatro in generale. Andrebbe fatto vedere alle scuole di teatro, perché vi si riconosce totalmente metabolizzati i grandi corpi e le ‘macchine’ attoriali e performative del Novecento italiano: c’è un metateatro che riporta in scena la memoria degli attori del passato, non presi singolarmente ma che vanno a condizionare l’attore quando recita, incidendo su quello che è l’attore stesso.
Cosa ci può dire della sua sfortunata permanenza a Roma?
So dire soltanto che con Napoli si ebbe una forte e netta rottura, anche verso le istituzioni della città stessa.
Cosa invece dell’incontro e dell’influenza con un altro grande personaggio dell’epoca Totò oppure di quello casuale con Luigi Pirandello?
Eduardo istaurò con Pirandello un rapporto serio, rigoroso, di scambio e anche a volte di traduzione, come dicevo prima. Per un fatto puramente commerciale, Pirandello doveva essere spiegato al popolo e di lui furono fatte versioni in napoletano, così Il berretto a sonagli diventa proprio Questi fantasmi!, con le differenze tra Sicilia e Napoli, di cui accennavo prima. Totò è un attore molto diverso da Eduardo (anche cinematografico), con un uso del corpo sulla scena assai diverso, che tende quasi all’oggettività, o a simulare la macchina, quasi come una marionetta, e con una maschera che irride l’autorità, come antidoto alla serietà di essa, che in Eduardo è forte soltanto nella pernacchia di Vittorio De Sica ne L’oro di Napoli. Il rapporto fra i due attori fu abbastanza forte, ma si espresse maggiormente con il fratello Peppino. Tutte persone estremamente suscettibili: Eduardo era temutissimo da tutti e soggetto a ire tremende, non so come fosse Totò ma avevano tutti caratteri forti. A proposito del carattere di Eduardo c’è un aneddoto che lo riguarda, raccontato da Roberto De Simone nel libro I Canovacci della commedia dell’arte’: quando il direttore di produzione della Rai disse all’attore che il regista televisivo, che egli detestava (come era solito fare con tutti i registi del campo) ritenendolo pessimo, e che la Rai gli aveva imposto quando lui era già famoso, era stato anche in America e aveva scritto un libro, Eduardo rispose che, se aveva scritto tale volume, perché non se lo leggeva. Quando Lia Zoppelli, grandissima attrice italiana, sul set dava molta confidenza alle maestranze (macchinisti, truccatori, ecc.) e si intratteneva a fumare con loro, in una pausa registrazione Totò la apostrofò, lui non titolato ma ossessionato dal sangue blu, dicendole che si doveva ricordare di essere una contessa Visconti di Modrone, come Luchino Visconti, e come tale comportarsi in tal senso. Da tali aneddoti si evince che siamo di fronte a personaggi dalla complessa personalità, e i furori di Eduardo sono proverbiali nella memoria degli attori allora giovani che hanno lavorato con lui. Maggiori informazioni si possono desumere da Vita di Eduardo di Giammusso, volume ponderoso e ricco di informazioni biografiche in tal senso.
Come fu invece la permanenza di De Filippo nelle varie compagnie teatrali, e come il tentativo di mettersi in proprio in tale campo, come i tentativi di un teatro umoristico o quello dell’avanspettacolo?
Egli fu un grande impresario di se stesso, organizzatore di teatro e di compagnia e grande capocomico nel senso più grande e più nobile di tale termine; l’Eduardo che io ricordo è quello della sua compagnia, in proprio, e la sua è stata una grande palestra, che ha tenuto a battesimo molti grandi e importanti attori.
Per quali attori già noti l’aver recitato al fianco di Eduardo è stato il coronamento della carriera artistica; per quali, ancora sconosciuti, un irripetibile trampolino di lancio e chi oggi ha continuato nell’eredità artistica e con metodi simili a quelli di De Filippo?
Penso a due o tre nomi di personaggi molto bravi, tra i tanti numerosi che lo hanno affiancato e aiutato nelle sue opere: Antonio Casagrande, Angela Pagano, attori straordinari come Regina Bianchi, Isa Danieli e la stessa Monica Vitti, che ha lavorato con lui in teatro. Dei nuovi attori preferisco non parlare, esiste anche tra gli attori stessi la professione di ex allievo di Eduardo, di chi ha recitato con tale artista e continua a fare l’attore di opere di Eduardo per cinquant’anni, come le vedove degli attori scomparsi, cosa che io detesto anche perché profondamente edipica, ma mi rendo conto che dà loro da campare per un po’. Tale atteggiamento non ha comunque senso e serve soltanto a creare una nuova deriva, assolutamente detestabile. Io amo quelli che hanno recitato veramente con Eduardo e non quelli che oggi per presentare un film, magari orrendo, dicono che sono stati attori con lui e il fatto diventa grottesco e inaccettabile.
Come il soggetto comico entra in queste trattazioni di teatro, in quelle di cinema e di televisione? E come è giudicata la scelta di sperimentare la sua arte nel cinema e per la TV, come regista, attore (meno come sceneggiatore), anche collaborando a volte con Vittorio De Sica oppure per la partecipazione al film Porno-Teo-Kolossal di Pier Paolo Pasolini, rimasto incompiuto per la morte prematura del regista?
Avendo grande esperienza di cinema e teatro, Pasolini aveva un’enorme deferenza nei confronti di Eduardo, il cui talento comico era assolutamente indiscusso e sapeva anche con chi si misurava. Eduardo appartiene a una stagione della cultura italiana e dei media nazionali di allora, la cui stagione chiaroscurale, piena di luci e ombre, oggi è tramontata: una figura come la sua poteva trovare accoglienza e ospitalità nella prima serata in televisione e in radio, esistevano strutture produttive in tal senso e un intervento pubblico nella cultura e nel teatro che gli diedero dei problemi, come anche a Carmelo Bene. Oggi abbiamo dei bravi attori e specialisti e il clamore televisivo su Le voci di dentro è legato soltanto ai trent’anni della sua scomparsa. Per usare le parole di Marino Sinibaldi, direttore di Radio3: “il servizio pubblico come inclusione e innovazione è finito”’. Radio3 e qualche tentativo sul canale digitale, tramesso dal satellite, come tale appare isolato dagli altri canali, e purtroppo noi assistiamo a un fallimento. Se l’esperienza di Eduardo fosse accaduta oggi, non sarebbe stata così di impatto sulla scena italiana; Eduardo rimarrebbe un teatrante residuale bravo e acclamato, magari anche premiato, ma non sarebbe niente altro che questo, ma c’è stato quel sistema che investiva all’epoca nella cultura e le attribuiva valore, anche nella sua forma immateriale. Egli ha avuto la fortuna di vedere realizzato questo riconoscimento, che qualche critico potrebbe dire stimolato da un’egemonia politico-culturale di stampo comunista, o darne altre spiegazioni, ma questo successe in quell’epoca, dopo che Eduardo ne aveva passate di tutti i colori, dalla fame ad altre esperienze dolorose di vita. Con Vittorio De Sica si ha l’esperienza de L’oro di Napoli
Nel 1948 acquistò il semidistrutto teatro San Ferdinando a Napoli, investendo i suoi guadagni nella ricostruzione di tale teatro, quando Napoli viveva un periodo di assurda speculazione edilizia. Come mai e da dove deriva tale scelta e cosa racconta della caratura sociale e politica di De Filippo?
È evidente che torniamo al discorso fatto in precedenza: una scelta del genere poteva essere attuata da un teatrante, o uomo di teatro, che, grazie al suo carisma, ma anche alla sua collocazione all’interno di un certo sistema culturale, poteva acquistare una struttura addirittura molto imponente, quale il San Ferdinando a Napoli, dove realizzare il proprio lavoro e identificarsi totalmente con questa struttura per decenni. Egli poteva comprarlo, mentre altri invece no, e questo la dice lunga su quale fosse il suo rapporto fortissimo e viscerale con la città di Napoli, e come tale esposto a grandi delusioni, tanto da far scaturire la decisione di andare a Roma e di ingiungere ai giovani ‘Fuitevenne Napoli’, che rappresenta l’esatto opposto di ‘A dà passà ‘a nuttata’, ossia non rimanete a Napoli, la città che vi condannerebbe in futuro a fare una brutta fine perché non offre nessuna possibilità, mentre l’altra frase sulla nottata costituisce, seppure piena di ambiguità, un’attesa messianica che potrebbe anche non venire mai, o una speranza seppur rinviata in un tempo molto in là a venire. L’opzione di comprare un teatro da parte di un attore oggi sarebbe impossibile ed impensabile, sia dal punto di vista degli attori, che nella maggior parte dei casi non possono farlo, tranne poche eccezioni (vedi l’esempio di Luisa Conte e il Teatro Sannazzaro a Napoli, e quello di Peter Brook, che riguardano teatri a volte molto piccoli), sia perché le figure carismatiche culturalmente, come Eduardo, sono quasi del tutto scomparse e i personaggi non si identificano più nella loro struttura: l’esempio del Piccolo con Stehler oggi non sarebbe assolutamente possibile.