Un poeta e la nostra mancanza di poesia
di Gianni D’Elia
L’Unità, edizione Nazionale sezione “Commenti”, archivio storico, 17 giugno 2003
Che cosa avrebbe pensato Pasolini dell’ultima discussione, sviluppata anche sulle pagine de l’Unità, su Pasolini? Su Carla Benedetti, che stronca il curatore dell’opera omnia nei Meridiani Mondadori, Walter Siti, su Walter Siti, che risponde alla Benedetti, dandole dell’ignorante in filologia, su Filippo La Porta, che replica a una recensione di Massimo Raffaeli su Nuovi Argomenti (che sta festeggiando i suoi cinquant’anni con bellissimi numeri)? È la solita piccola zuffa all’italiana, come ci ammonisce da sempre Roversi? Nella replica di Raffaeli a La Porta (uscita sabato 24 maggio) si punta sull’anticapitalismo della contraddizione istinti-storia, e si rivendica giustamente il comunismo anarchico del corvo pasoliniano, e anche il diritto a una lettura critica, arcaica e umanistica, marxista e «primitiva», pari all’ideologia mutante dell’autore, definito da La Porta «uno gnostico innamorato della realtà», nel suo Pasolini (Le Lettere). Raffaeli ha ragione a criticare la definizione di La Porta («Saggista per obbligo, poeta mancato») e a confessare il ritardo della nostra generazione nell’ascolto del Pasolini poeta.
La nostra generazione non è stata formata dalla poesia, che ha anzi del tutto ignorato, tranne certa vulgata beat e movimentesca. Saggismo ideologico, cinema, romanzi, molti giornali e riviste politiche. La sensibilità di Pasolini è stata scoperta dopo la sua morte, e in fondo così abbiamo scoperto la nostra mancanza di poesia. L’accusa che Carla Benedetti rivolge a Siti (gelosia generazionale e regolamento di conti autoriale) non tiene, se non allarghiamo lo sguardo dalla letteratura alla storia e alla realtà. Qui potrebbe cessare la piccola zuffa, e iniziare lo scavo teorico, che sarà scavo sulle autobiografie reciproche: un poeta e la nostra mancanza di poesia. È queste minimo moto d’umiltà, che potrebbe forse correggere anche la brutalità di Siti: l’opera di Pasolini non può essere infatti solo il «residuo di una frustrazione, o di una ambizione franata». Siti risponde alla domanda che pone, però, quando parla del rapporto tra coscienza della mutazione storica complessiva e autodistruzione dell’opera, che Pasolini agisce invece di subire.
Questo già basta per discutere, al di là di certe cattiverie che ci sono: Pasolini davvero citava senza leggere, o apriva e sottolineava a caso e poco i libri, non li leggeva? Comunque, grazie a Siti, questo sterminato cantiere in dieci volumi ora è a disposizione, allineando edito e inedito, di fila, scelta filologica nuova giustamente rivendicata. Quel che ne esce è un grande ampliamento del concetto di lingua e di scrittore, di poesia. Solo Leopardi ha puntato così tanto su un simile ampliamento antropologico, ed è per questo che Pasolini è l’erede eretico diretto dello scandalo leopardiano. Grazie a loro il poetico diventa per sempre noetico, e cioè esperienza filosofica, di conoscenza integrale: fino all’esito di Petrolio, uno dei più grandi romanzi d’avanguardia del Novecento. Dunque, ci vorrà tempo, come ci è voluto tempo per acquisire del tutto il messaggio della Ginestra e dello Zibaldone.
Naturalmente, come per Leopardi, la poesia è il fuoco di tutto. Dal simbolismo alla prima conversione civile (1949, La scoperta di Marx), fino alla seconda conversione incivile (1959, dalle Poesie incivili agli Scritti corsari). La poesia civile di chi è fuori della città e contro la città del potere, diventa difesa intransigente di una diversità politica, che denuncia la non cittadinanza di tutte le minoranze. Il controllo intellettuale del potere diventa così il compito dello scrittore, che è prima di tutto uno che vive dentro la realtà di questa storia. Forse a Pasolini non sarebbe piaciuto questo dibattito continuo sul valore letterario della sua opera, perché egli attribuiva ad essa un valore soprattutto politico, soprattutto a partire dalla fine degli anni 60.
Vivere in Italia, come scrittori, significava prima di tutto riconoscere la condizione sociale e storica dello scrittore stesso, e dunque, per uno scrittore di sinistra, opporsi ad essa, trovando altro dall’evasione e dalla consolazione accademica o mercantile. Riconoscendo in Dante l’avanguardia della tradizione, sia nei saggi che nell’opera mimetica, Pasolini inizia la sua nuova commedia con Le ceneri di Gramsci, dando voce al suo personaggio fisico e ideologico, parlando con un morto, di cui ama la ragione politica, ma dichiarando la propria diversità viscerale. Insomma, il suo Virgilio è morto, non parla, «la nostra storia è finita», l’umanesimo e la resistenza antifascista sono stati traditi.
La ripresa della terzina narrativa riunisce le due funzioni dell’ossimoro permanente pasoliniano: storia e natura, la funzione Dante e la funzione Pascoli, l’ideologia e l’estetica. Il suo tipo particolare di verità, nella sua scrittura socratica, è insieme poetico e politico, dove il rapporto con la città è nutrito dal profondo rapporto con se stessi, col mistero della morte, della nascita e del sesso. Nelle lettere giovanili di Pasolini, c’è quel fuoco orfico e mistico (parola che lui spiega con il misterioso), che troverà traduzione ideologica mutante, per fasi: cristiana, marxista, anarchica. Quel qualcosa di irriducibile, appunto, di poetico e personalissimo, identificato con la scoperta del corpo e dell’Altro (preferito alla definizione di Dio) giungerà a dirci ciò che noi non sappiamo ancora e che in passato ignoravamo del tutto: che la poesia non è solo linguaggio, messaggio, ma azione, che ritorna tale nel lettore, che dopo il cinema non è più possibile continuare con l’assetto teorico letterario tradizionale, che nei saggi di Empirismo eretico (1972) si proclama un’eresia semiotica che assegna al cinema lo statuto di lingua, e non solo di linguaggio, allestendo una teoria dei segni nuova: come le parole (o monemi) sono fatte di fonemi (o lettere), così le inquadrature (i monemi del cinema) sono costituite di cinèmi (oggetti e cose dentro l’inquadratura). Dunque, come la lingua verbale, la lingua del cinema possiede la doppia articolazione: l’agire orale della realtà ha trovato la sua lingua scritta della realtà.
Nella mancanza di approfondimento teorico del nesso cinema-poesia, c’è l’ombra di quella mancanza esistenziale della poesia vissuta che ci impedisce di comprendere davvero l’oggetto poetico di Pasolini: la poesia della tradizione, con cui ci invitava alla vera avanguardia, capace di unire, gramscianamente, conservazione e rivoluzione, facendo della poesia una profezia per la sinistra nuova, pretendendo di uscire da ogni accademia, e stando accanto a noi come un compagno di strada tanto più grande e luminoso.