Il 22 novembre 2014, è andata in scena al Teatro Sala Civica di Merano una rarità teatrale di Pasolini, Un pesciolino, mai rappresentato durante la vita del suo autore, ma da lui concepito probabilmente in vista del secondo Festival delle Novità, per l’apertura della stagione 1957-1958 del Teatro dei Satiri di Roma. Si tratta di un atto unico di cui si ricordano sporadiche rappresentazioni postume, come nel 2004, alla Torre di Chia, per la regia di Nuccio Siano, con Annamaria Loliva e Davide Quatraro, e nel 2006, a Mittelfest di Cividale del Friuli, in un’edizione del croato Ivica Buljan con Lucija Šerbedžija, poi vincitrice del premio Adelaide Ristori della cittadina friulana proprio per questa interpretazione.
Il nuovo allestimento meranese è ora proposto da Nazario Zambaldi (in scena Monica Trettel e Stefano Bernardi) con la precisa intenzione di accentuare i valori della diversità, della condizione straniera e della disobbedienza e con riferimento alla lunga esperienza effettuata nel contesto psichiatrico.
In origine, Pasolini fu probabilmente ispirato alla scrittura del Pesciolino da Laura Betti, conosciuta nel 1956 e fonte dirompente per il poeta di un rinnovato interesse per il teatro. Protagonista del lavoro è una Donna intenta a pescare, poco distante da un certo Piero, fuori scena. Ma il pesce non abbocca, e la Donna, esasperata, tra un sospiro e l’altro, racconta all’ipotetico pesciolino la sua vita, i suoi amori, le delusioni nei confronti di un mondo maschile incomprensibile, e le angosce per la sua condizione di “zitella”, una parola che non riesce nemmeno a dire. Alla fine la pesca si rivela però fortunata e un grosso pesce abbocca alla lenza, ma ciò non cambierà la vita della Donna.
“La storia sentimentale della Donna –commenta Stefano Casi nel suo imprescindibile I teatri di Pasolini (Ubulibri, Milano, 2005, pp. 84-85)- fa capolino in modo sempre più ironico e ossessivo durante l’attesa di una pur minima rivincita che ripaghi le frustrazioni accumulate: un pesciolino che abbocchi, in senso proprio e figurato. La voce fuori campo scandisce, come un ineluttabile segno del destino, il fallimento della protagonista. La scrittura drammaturgica di questo monologo suggerisce quella di una successiva opera di Beckett, Giorni felici (1961), imperniata sulla fissità della donna monologante alle prese con piccoli e grandi discorsi, rivolta a se stessa o a un uomo fuori scena. Ma l’apparente affinità con Giorni felici nasconde invece una ben più significativa influenza, quella del teatro di cabaret. La scrittura dell’atto unico, sovente rotta da intercalari della parlata quotidiana, sporcata, con una punteggiatura frenetica ed eccessiva, con lacerti di canzoni e vezzeggiativi improbabili, mostra con sicurezza il rifiuto di ridurre i personaggi a manichini pirandelliani e l’intenzione di obbligare l’interprete a una recitazione tutt’altro che tradizionale, facendo ricorso alle tecniche compositive del teatro leggero.
Appare dunque naturale per Pasolini pensare ad un’interprete come Laura Betti, alla quale questo testo sembrerebbe naturalmente destinato, anche se non rimangono tracce né testimonianze in questo senso”.