Umberto Eco e la polemica con PPP del 1975

La scomparsa di Umberto Eco, avvenuta venerdì 19 febbraio 2016 nella sua casa di Milano, è stata accompagnata sulla stampa e online da una ricchissima galleria di testimonianze, prodighe di elogi ad un maestro illustre nell’impegno filosofico, nella pionieristica analisi semiologica della civiltà di massa e dei suoi fenomeni espressivi, nell’intelligente opera divulgativa, anche attraverso la scrittura romanzesca. Tra i tanti interventi è comparso su Gaynews (poi ripreso anche in www.huffingtonpost.it del 21 febbraio 2015) il commento del giornalista e saggista Francesco Lepore, che ha rispolverato il feroce e livoroso attacco sferrato da Eco nel 1975 contro Pasolini in occasione della sua presa di posizione anti-abortista. L’assassinio di Pasolini, avvenuto poco dopo, portò il filosofo a fare pubblica ammenda di quel suo atto di perfidia polemica, con un esame di coscienza, un ripensamento e una dimostrazione di umiltà di cui Lepore gli dà sincero atto.  

Quando Umberto Eco attaccò Pasolini e “gli omosessuali”
di Francesco Lepore

La morte d’uomini celebri ha da sempre alimentato il genere letterario dell’elogio. Dettato da motivi di sincera ammirazione o di mero conformismo, esso ha assunto i caratteri dell’immediatezza e della globalità grazie ai social e, più in generale, grazie al web. Quanto mai prevedibile, dunque, che il decesso di Umberto Eco mettesse in moto la fabbrica internautica delle necrologie. Non senza, tuttavia, la piccata reazione di chi non è riuscito a perdonargli l’ormai nota frase: «Internet dà diritto di parola a una legione d’imbecilli, i quali prima parlavano solo al bar dopo due o tre bicchieri di rosso». Lasciando da parte i tanti Caifa virtuali, che si stracciarono all’epoca e continuano a stracciarsi le vesti non cogliendo il significato provocatorio sotteso a quella affermazione (d’altra parte la reazione violenta è spesso segno d’essere stati punti sul vivo), Eco non può non essere ricordato, riconosciuto, elogiato quale uno dei più grandi studiosi italiani scomparsi.
Semiologia, teoria della narrazione e cultura massmediale saranno debitrici al filosofo piemontese per i relativi contributi miliari. Nel futuro, invece, romanzi come Il nome della rosa Il cimitero di Praga saranno considerati come classici della letteratura e continueranno a essere letti. Essi rispondono certamente a una personale visione ideologica né sono esenti da errori storici, tale da indurre Guido Sommavilla a liquidare, per esempio, le “memorie” di Adso da Melk come «un giallo medievale, impregnato di erudizione e di virtuosismi, geniale e deludente allo stesso tempo, vergato all’insegna dell’agnosticismo». Eppure, tali scritti avranno pur sempre il merito d’aver reso familiare al grande pubblico i temi della decadenza pontificia durante gli anni avignonesi (Il nome della Rosa) o della genesi de I Protocolli dei Savi di Sion (Il cimitero di Praga) nonché personaggi quali Ubertino da Casale, Bernardo Gui, Michele da Cesena fino al massone Léo Taxil e all’abbé satanista Joseph-Antoine Boullan.

Umberto Eco e Pasolini
Umberto Eco e Pasolini

Umberto Eco lascia il ricordo d’un intellettuale di calibro, capace di attirarsi contemporaneamente manifestazioni d’entusiastico consenso e di livorosa avversione. È, in realtà, il destino delle personalità forti. Aspetto, questo, cui va aggiunto, nel caso specifico, un consueto fare sprezzante e sarcastico poco adatto a conciliargli gli animi. Tale, d’altra parte, era anche Pier Paolo Pasolini, col quale Eco ebbe un rapporto d’alterna amicizia e contrapposizione. I due, peraltro, furono al centro d’una penosa vicenda, le cui ricadute interessarono il movimento omosessuale italiano.
Quando Pasolini dalle colonne de “Il Corriere della Sera scrisse contro l’aborto in relazione al potere consumistico e ne indicò la via alternativa nella diffusione degli anticoncezionali (sollevando con ironia anche il problema del boom demografico, di cui il rapporto omosessuale costituirebbe una sicura soluzione), si scatenò contro lui, soprattutto da sinistra, una canea di accuse. A non capire il significato profetico e tutt’altro che reazionario dell’esplosivo articolo fu anche Umberto Eco, che, sotto lo pseudonimo “Dedalus”, scrisse per “il Manifesto due violente repliche rispettivamente intitolate Le ceneri di Malthus (21 gennaio 1975) e Poche parole sommesse ma non represse (2 marzo 1975). In esse si diede la stura sia a una sottile irrisione delle persone omosessuali tout court: «L’argomentazione viene presentata come difesa dei diritti delle minoranze diverse, e non è chi non veda la opportunità di consentire a ogni minoranza, compresa quella sessuale, il diritto alle proprie pratiche preferite. […] se ne deduce che egli pensa ad una società in cui pochi schiavi eterosessuali, a cui è proibito l’aborto, dovranno continuare a partorire degli eletti di classe superiore a cui sia invece consentita la libera e aristocratica pratica dell’omosessualità» (ne Le ceneri di Malthus). Oltre a ciò, Eco sostenne allora anche l’inesistenza d’atteggiamenti vessatori nei riguardi degli stessi se non di quelli appartenenti al proletariato: «Nella nostra società non è del tutto vero che gli omosessuali siano discriminati e perseguitati. [..] vengono discriminati gli omosessuali poveri. Gli omosessuali ricchi hanno diritto alle loro “pratiche preferite”. […] non sarebbe il caso di smettere di dire “noi omosessuali”, per cominciare a dire “noi omosessuali proletari” e, all’occorrenza, “noi proletari”?». (in Poche parole sommesse ma non represse).
A differenza d’altri esponenti dell’intellighenzia di sinistra, che tornarono negli anni a criticare ferocemente lo scrittore friulano (come Edoardo Sanguineti, che nel ’95 ne parlò quale confuso, retorico, mediocre), Eco riconobbe d’averlo «attaccato con cosciente cattiveria» e trasse dalla sua barbara uccisione una lezione d’autentica umanità: «Egli ci ha ripetuto che c’erano dei diversi respinti ai margini, e che non avremmo mai capito appieno la loro sofferenza. La sua morte ci ricorda che, per quanto rispettato dalla società, un diverso deve pur sempre tentare la sua ricerca in luoghi oscuri, dove c’è violenza, rabbia e paura (la stessa del ragazzetto che fugge come un pazzo sulla macchina della sua vittima). E se i diversi che hanno il coraggio di definirsi tali devono ancora rifugiarsi ai margini, come i diversi che hanno paura, questo significa che la società non ha ancora imparato ad accettare né gli uni né gli altri, anche se fa finta di sì. Certo Pasolini avrebbe potuto permettersi di vivere la sua diversità altrove che non alla macchia. Può darsi abbia voluto continuare a farlo per orgoglio. Ora ci impone un esame di coscienza fatto con umiltà» (Perché non sempre eravamo d’accordo, ne “L’Espresso del 9 novembre 1975).
Umiltà è quella che proprio Eco mostrò nel riconsiderare apertamenente erronea la sua produzione pamphlettistica antipasoliniana. Dote, invero, propria dei grandi uomini, che sanno dell’umana soggezione allo sbaglio e sono capaci d’ammetterlo. Non resta adesso che raccoglierne l’eredità e magari farlo nel modo indicato da quel Bernardo di Chartres, il cui rimando Umberto Eco avrebbe certamente gradito: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane non a causa della nostra statura o l’acutezza della nostra vista, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla loro statura».