“Salò”: una discesa agli inferi del male, di Roberto Chiesi

Dal mensile online “Diari di Cineclub” (dicembre 2015, n. 34) diretto da Angelo Tantaro riprendiamo il puntuale intervento con cui Roberto Chiesi, responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini (Fondazione Cineteca di Bologna), contestualizza e interpreta  Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo film “scandaloso” di Pasolini. L’occasione per una rilettura finalmente libera da pregiudizi è offerta anche dalla nuova edizione integrale della pellicola, restaurata opportunamente dalla Cineteca di Bologna.

“Salò”: il male dell’uomo contro l’uomo
di Roberto Chiesi
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www.cineclubromafedic.it/diari-di-cineclub.html  – dicembre 2015, n. 34

Nel 1975 ricorrevano trent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e dalla di­sfatta del nazifasci­smo e già fin dai due anni precedenti erano stati numerosi i film che avevano rievocato gli eventi drammatici del conflitto (si pensi a Gli ultimi dieci giorni di Hitler, 1973, di Ennio De Concini, a Mus­solini ultimo atto, 1974, di Carlo Lizzani, e a L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale, 1974, di Gian Vittorio Baldi).
Quan­do Pier Paolo Pasolini, all’inizio di quell’anno, annunciò che avrebbe realizzato un film intitolato Salò, si pensò subito ad una sua rico­struzione della Repubblica sociale, ma quan­do si seppe che il soggetto era ispirato al romanzo ‘maledetto’ e incompiuto del mar­chese de Sade, Le 120 giornate di Sodoma, si ipotizzò anche che volesse istituire un’analo­gia fra le sevizie descritte nelle pagine sette­centesche e le efferatezze perpetrate dalla De­cima MAS. Invece, come sempre, il disegno di Pasolini era molto più complesso e spiazzan­te. Salò o le 120 giornate di Sodoma non è un film storico e non è neanche un film sadiano, bensì è un’opera dove sia la dimensione stori­ca sia quella concentrazionaria e crudele im­maginata dal Divin Marchese vengono adot­tate come mascheramenti, come dispositivi di una messa in scena che ha altri scopi e che è deliberatamente infedele sia alla veridicità storica sia alla visione sadiana.
Pasolini definì il film “un mistero medievale”, ossia una “sa­cra rappresentazione”, dove ogni parola e ogni evento rimanda ad altro, in una chiave meta­forica. La riduzione del corpo di una decina di ragazzi e ragazze, a cosa, ossia a mero oggetto di piacere, a balocco di feroce e spietato intrattenimento, allude marxianamente alla sottomissione degli individui, e in particolare dei giovani, a consumatori, privati della loro libertà e coscienza e asserviti alle regole di un ‘nuovo mondo’ dove quelle che un tempo era­no trasgressioni sono diventate leggi codifi­cate, mentre l’etica, l’umanità, la coscienza so­no non soltanto banditi ma puniti con la morte.

"Salò o le 120 giornate di Sodoma" (1975)
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975)

È al potere della civiltà dei consumi che Pasolini alludeva mostrando quattro laidi signori senza nome e pressoché interscam­biabili, quali incarnazioni rispettivamente del potere giudiziario (un presidente di corte d’appello), del potere di censo (un duca, ossia un aristocratico), del potere finanziario (un presidente di banca) e del potere ecclesiastico (un monsignore, sarcasticamente affidato, quale interprete, ad un sottoproletario roma­no che di professione pare facesse il lenone…). Come appare dalle pagine di Scritti corsari e Lettere luterane, Pasolini era persuaso che il potere più terribile fosse quello che manipola­va le coscienze e l’individualità delle persone ma non volendo raffigurare direttamente il presente che odiava, ossia l’Italia degli anni ‘70 (assente dal suo cinema), ha fatto ricorso, da una parte, all’orrore, all’arbitrio criminale della Repubblica Sociale, dove fu commessa ogni sorta di aberrazione, e dall’altra alle atro­cità descritte dettagliatamente dal marchese de Sade in un romanzo che è una sorta di ca­talogo esaustivo delle perversioni umane.
Ma a rendere Salò un film atroce non è tanto, o non soltanto, la raffigurazione diretta della violenza, degli abusi, degli stupri, quanto il contrappunto di un’ironia, di  un  sarcasmo di­sumano che è l’unica  forma di linguaggio co­nosciuta e praticata dai quattro signori e che conferisce al film una tensione emotiva terri­bile, anche perché segue un calcolato crescen­do di efferatezza in efferatezza.
Pasolini ha poi assegnato al film una struttura dantesca, ripartendolo in tre gironi preceduti da un Antinferno: Salò mostra infatti un inferno da cui non c’è scampo e che cela sottili ri­mandi alla realtà contemporanea (le vittime costrette ad ascoltare racconti perversi come i telespettatori sono indotti dalla televisione a subire le peggiori idiozie; i carnefici che obbli­gano i ragazzi a nutrirsi di escrementi pro­prio come le industrie alimentari infliggono ai consumatori prodotti nocivi alla salute con la complicità dello stato).
Ma anche le vittime non sono del tutto innocenti perché, con rare eccezioni (un ragazzo che tenta la fuga all’ini­zio del film), non si ribellano, non reagiscono contro l’orrore che viene loro imposto e alcuni di loro (due ragazzi e una ragazza) alla fine addirittura diventano conniventi con i carne­fici. Questo era il supremo orrore che Pasolini avrebbe voluto scongiurare con il suo film: un mondo indifferenziato e indifferente dove ogni individualità è stata omologata e nessu­no osa più rivoltarsi ma anzi finisce per diven­tare spettatore di qualsiasi atrocità gli venga proposta come spettacolo. Pasolini voleva che il suo film esplodesse come un ordigno in fac­cia allo spettatore voyeurista e consumista de­gli anni ‘70 e che, con la propria oltranza nar­rativa e figurativa, smascherasse l’ipocrisia di una società falsamente tollerante, che riduce tutto a merce di consumo.

Paolo Bonacelli in "Salò" (1975) di Pasolini
Paolo Bonacelli in “Salò” (1975) di Pasolini

Aveva previsto che il film avrebbe sollevato un enorme scandalo e si prefiggeva di farne lo strumento di una con­testazione dialettica contro il presente. Invece una tragedia si sovrappose all’uscita del film – l’assassinio del suo autore – innescando un cortocircuito di equivoci per cui Salò fu in­terpretato alla luce di quell’atroce omicidio e viceversa. Del resto, neanche la morte di Paso­lini impedì che il film subisse un calvario di sequestri, tagli e aggressioni neofasciste nei cinema dove veniva proiettato.
Oggi, a qua­rant’anni di distanza, grazie all’occasione of­ferta dalla nuova e integrale edizione restau­rata dalla Cineteca di Bologna, è arrivato finalmente il momento di confrontarsi con que­sto film sulfureo, liberandosi da ogni pregiu­dizio e guardandolo per quello che è veramen­te: una discesa agli inferi del male che può concepire e attuare l’uomo contro l’uomo.