“Salò” o dell’anarchia del potere. Un riflessione di Federico Sollazzo

In occasione dell’uscita della versione restaurata di Salò o le 120 giornate di Sodoma, Federico Sollazzo ha indagato  la dimensione teorica che sorregge la riflessione pasoliniana sull’anarchia del potere, anche a confronto con il discorso di Foucault.  L’analisi dello studioso, che è docente di Italianistica presso l’Università ungherese di Szeged, è consegnata ad una conversazione con Stefano Pignataro, uscita sul numero 15 della rivista “Sinestesie” (aprile 2016). Un grazie a Federico Sollazzo per il consenso alla pubblicazione del testo sul sito del Centro Studi Pasolini di Casarsa.

Anarchia del potere e modello di realtà in “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini 
Conversazione con Federico Sollazzo
 di Stefano Pignataro

www.rivistasinestesie.it/PDF/2016/APRILE/15.pdf – n. 15 / aprile 2016

A quarant’anni dalla sua realizzazione, il film Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, il suo film testamento, il film che lucidamente descrive un’intera classe sociale e umana alle prese con il problema ancestrale dell’anarchia del potere e della divisione tra possessione e privazione, libertà e schiavitù, è stato nuovamente posto come oggetto di studio e di critica. Con il professor Federico Sollazzo dell’Università di Szeged, (Ungheria), si è provato a comprendere meglio l’universo di Salò (perché di universo si tratta): letterario, cinematografico, simbolico ed artistico.

L’Anarchia del potere: «Noi fascisti siamo i soli veri anarchici». Da questa frase del Duca, interpretato da Paolo Bonacelli, si ricava l’essenza del film. In che luce, filosofica, onirica o politica deve essere vista l’anarchia del potere in Salò?
Credo che lo sguardo di Pasolini si sforzi sempre di essere realistico, il che è perfettamente compatibile con una lettura filosofica, onirica o politica. Ovvero, per Pasolini l’anarchia del potere e, si badi, la conseguente inesistenza della storia, non significa assenza di regole, bensì la capacità del potere di darsi da sé le proprie leggi. Nel film c’è una significativa scena in tal senso: quando i gerarchi fascisti annunciano ai ragazzi le ferree regole che vigeranno nella villa, arbitrariamente decise dai gerarchi stessi. Questa dimensione anarchica del potere, ancor più che nel fascismo, risulta evidente nella società dei consumi. Il fascismo infatti è ritenuto essere dall’autore nient’altro che «un gruppo di criminali al potere» che non ha determinato mutamenti nel corpo e nella coscienza degli italiani; solo la società dei consumi  «manipola i corpi in un modo orribile […]. Li manipola trasformandone la coscienza (istituendo così) un nuovo modello umano».
Ma attenzione, non si deve ritenere che per Pasolini il potere sia anarchico perché semplicemente fa quel che vuole. Se il discorso fosse così lineare, allora sarebbe sufficiente voltare le spalle al potere e non prestargli ascolto per disinnescarne l’anarchia, facendolo così inceppare e collassare. Per Pasolini invece il potere è anarchico in un senso molto più profondo e articolato, ovvero, non semplicemente perché fa ciò che vuole, ma perché produce preliminarmente le condizioni affinché possa poi fare quel che vuole fare, produce la propria stessa legittimità e, ancor più radicalmente, produce un’umanità che desidera quel che esso stesso vuole fare. Salò è del 1975, ma questo tema è presente fin da Mamma Roma del 1962, dove infatti è la protagonista a spingere il proprio figlio verso la società borghese. Come a dire che il nuovo Potere (quello senza volto e pertanto scritto con la P maiuscola) non ha più bisogno di rincorrere gli individui ma è tale per cui sono gli individui stessi ad andare da lui, a desiderarlo, a volerne far parte; esattamente questo dà al potere la possibilità di essere anarchico.

"Mamma Roma" (1962). Fotogramma
“Mamma Roma” (1962). Fotogramma

Quello di Pasolini sul potere è quindi un discorso raffinato che, tra le altre cose, mostra l’inapplicabilità al contesto odierno della concezione di servitù volontaria (La Boétie). Una servitù può infatti essere volontaria se e quando è consapevole, ma gli individui, che oggi sono edonisticamente attratti da questo nuovo potere, pensano i pensieri del potere, parlano la lingua del potere, vestono i corpi che il potere fornisce loro, vivendo tutto questo come se fosse il frutto di una loro libera scelta, e là dove non c’è consapevolezza non può esserci volontarietà, ma solo un’inconsapevole assuefazione (in tal senso, già Comizi d’amore del 1965 si chiude così: «al vostro amore, si aggiunga la coscienza del vostro amore»). Inoltre, quello di Pasolini sul potere è un discorso che presenta dei rilevanti punti di contatto con quello di Foucault, ma vi è anche una differenza essenziale che va sottolineata con decisione, e che non consiste nel fatto che, poiché Pasolini parla di «Palazzo» e identifica luoghi e nomi del potere, allora per lui il potere stesso non avrebbe la dimensione reticolare e orizzontale che ha per Foucault; l’italiano parla infatti di «Potere senza volto», e i luoghi e i nomi sono solo sedi di emersione parziale di questo Potere impersonale. La differenza essenziale tra i due mi sembra invece questa: per il francese il potere ha solo quella dimensione reticolare e omnipervasiva, non esiste un fuori dal potere, sicché diventa estremamente difficile, se non impossibile, immaginare e praticare strategie di sottrazione allo stesso. Diversamente, per Pasolini c’è un possibile al di fuori dal potere che consiste nel rifiutare il suo edonismo, quindi, non semplicemente i suoi prodotti, che possono variare rimanendo sempre gli stessi, ma il suo presupposto. Solo in tal modo se ne metterebbe in scacco l’anarchia, altrimenti riproducibile all’infinito perché non soggetta spontaneamente ad  uno svuotamento dall’interno, in quanto il corpo e la coscienza degli individui non andrebbero più a coincidere con i desideri (anarchici) del potere.

Villa Sorra. "Salò"
Villa Sorra. “Salò”

Sotto questo profilo, mi sembra che Pasolini condivida qualcosa di significativo con Marcuse. Si noti infatti come nel film nessuno dei ragazzi riesca ad evadere dalla villa; la fine di quel mondo può darsi non per sottrazione diretta dallo stesso, ma solo se chi lo origina, nel film i gerarchi fascisti, cessa di originarlo, ovvero, l’unico gesto che fa estinguere un mondo non è il rifiuto dei suoi prodotti o di sue singole porzioni, ma il rifiuto assoluto, radicale e in toto delle origini stesse di quel mondo, come disse nella sua ultima intervista: «il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali, i pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso». Ma per far questo (e così mi ricongiungo a quanto detto sopra) la conditio sine qua non è la consapevolezza dei fattori a cui si è assoggettati. Diversamente, la servitù è inconsapevole, ergo involontaria, ergo potenzialmente eterna. Ed ancora, è per tutto questo che non mi convince una lettura di Salò sulla base dell’idea di perversione in psicoanalisi, quella di Pasolini è una dialettica del potere e della storia, e in nessun senso il tentativo (mai possibile?) di farne una scienza. Tornando ora alla frase del Duca, mi sembra utile citarla per intero: «Noi fascisti siamo i soli veri anarchici, naturalmente una volta che ci siamo impadroniti dello Stato. Infatti, la sola vera anarchia è quella del potere». Qui mi sembra che Pasolini metta in bocca al Duca l’evidenza della sua natura e al tempo stesso il perché del suo inevitabile fallimento. Ossia, alla luce della concezione di anarchia del potere, istituisce una dialettica tra fascismo e consumismo, ovvero tra le due fasi consecutive di tale anarchia. Infatti, i fascisti sono stati i primi all’alba della civiltà dei consumi ad impossessarsi dell’anarchia del potere, tuttavia ritenevano possibile realizzarla solo per mezzo di un soggetto preciso, lo Stato, così autocondannandosi irreparabilmente ad essere superati da una forma di potere non più identificabile in soggetti particolari, impersonale, omnipervasivo ed enormemente più occulto, e dunque radicalmente più anarchico, poiché in grado di mutare corpi e coscienze senza che questi se ne avvedano, il consumismo. Si badi però, infine, come egli parli di consumismo non in senso metafisico ma in senso storico; per questo è sbagliato farne un mantra che oggi è indissolubilmente legato al suo nome: egli stesso andava già identificando l’avvento di una nuova fase storica definita come «tecno-fascismo», e oggi forse troverebbe questa stessa descrizione ormai obsoleta.

Pensa che Salò sia una summa di tutte le invettive politiche, (contro le omologazioni dei consumi, il temere per la mutazione antropologica, il rifiuto contro lo Stato), che Pasolini puntualmente pubblica e su cui ragionava sul “Corriere della Sera”?
Non ho difficoltà a immaginare che la sua attività pubblicistica possa essere stata una sorta di laboratorio di molti pensieri poi confluiti in Salò. E tuttavia la sua attività pubblicista (con l’eccezione di Gennariello che è un lavoro pedagogico) è un serrato commentario ai più rilevanti fatti di attualità e di cronaca politica italiana di quei tempi, quindi è un tipo di lavoro che credo confluisca più in Petrolio che in Salò, che è un’opera con un impianto più concettuale, più teoretica che politica, un’opera che attraverso il discorso sull’anarchia del potere, tema già da filosofia politica, delinea una vera e propria filosofia della storia.

Qual è secondo lei la scena più riuscita e quella meno riuscita del film? E la scena che, a suo giudizio, è la più emblematica?
Non riesco a stilare una gerarchia, il film è talmente denso che dare la precedenza ad una sequenza significherebbe far torto alle altre.
Posso però dire che personalmente sono rimasto molto colpito dall’ultima scena (forse perché quando la vidi per la prima volta non ero preparato), quando la panoramica delle sevizie sul piazzale è accompagnata dalla musica dei Carmina Burana di Orff, e poi uno dei due ragazzi-guardiani allunga una mano su una radio e con un piccolo gesto delle dita cambia stazione, e si passa improvvisamente al motivetto di These foolish nights, sulle cui note i due iniziano spensieratamente a ballare. Mi sembra che questa scena indichi l’avvento di una nuova forma di potere, con una forza incomparabilmente maggiore alle forme precedenti di obliare anche il male più atroce, trasformandolo in  un ritornello orecchiabile, con un banale clic. Non è un caso che questa sia la scena finale, indica infatti una ben precisa dinamica storica delle contemporanee forme essenziali del potere, che va dal fascismo politico al consumismo, alla tecnocrazia (e forse oggi già oltre quest’ultima).

Pasolini sul set di "Salò"
Pasolini sul set di “Salò”

Quali furono i modelli poetici, politici, sociali di Pasolini per la realizzazione di Salò?
Credo che, come sempre in Pasolini, il modello eminente sia la realtà.
Salò
mi sembra che abbia la stessa impostazione di Petrolio: parte da una base realistica, una sorta di documentario, e la satura di elementi mitici, trasformando la realtà in un mito. Ben lungi dall’essere un modo di allontanarsi dalla realtà, questo è l’unico modo di penetrarne l’essenza. (Ri)Affermare il potere conoscitivo del mito.

Sappiamo che Pasolini aveva intenzione di realizzare una Trilogia della morte, di cui Salò sarebbe stato il primo capitolo. Se avesse potuto realizzare gli altri due capitoli di questa trilogia, secondo lei, su quali aspetti controversi della società si sarebbe rivolta la sua lucida analisi ed il suo manieristico giudizio?
Mi sembra che l’incompiuto Petrolio e la sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal siano illuminanti in tal senso. Quando venne assassinato, il suo impegno era duplice. Da un lato, un impegno civile nel descrivere (miticamente) le collusioni italiane tra politica e finanza. Dall’altro, un impegno teoretico nell’elaborare una sorta di teoria della storia che, non profeticamente ma argomentativamente, ipotizzasse anche il possibile prossimo sviluppo dell’uomo, che egli vedeva nella scomparsa di tutte le utopie fino all’ultima, la fede.
Sia chiaro però che Pasolini non è assolutamente un nostalgico del passato, non critica la modernità ma questa modernità, e non è avverso al progresso ma a questo sviluppo, disperatamente auspicandone un altro.
Se fosse ancora fra di noi, sarei interessatissimo ad ascoltare se, all’interno di questo scenario realisticamente grigio, avrebbe scorto delle possibili tracce di alterità, o se avrebbe considerato le lucciole ormai morte e sepolte irrimediabilmente.