Ricordando Mario Dondero, di Angela Felice

Nel giorno di Natale ci piace rivolgere il pensiero a Mario Dondero, grande poeta della fotografia e persona di straordinaria umanità. Lo facciamo con le parole che, a pochi giorni dalla sua scomparsa, gli ha voluto dedicare Angela Felice, direttore del Centro Studi Pasolini di Casarsa, dove nel 2010 è stata allestita la mostra delle foto pasoliniane scattate da Dondero nei primi anni Sessanta. Oltre che su questo blog, il testo uscirà anche sul mensile di gennaio 2016 di Cinemazero (Pordenone). 

Con Mario on the road
Angela Felice

Dario, Eduardo o Pier Paolo. Ci sono persone, rarissime, di cui basta dire il nome e per tutti, anche oltre la cerchia degli intimi, non serve aggiungere altro. Si sa subito chi sono, cosa hanno fatto, cosa ci hanno lasciato in dono. E così è per Mario, che al secolo faceva Dondero, un cognome che squilla come un rintocco di campana allegra.  Mario per dire di un “angelo necessario”, come lo chiamò l’amico Danilo De Marco, di un dolcissimo poeta della fotografia e di un messaggero di umanità pura che ora ha preso congedo dal mondo.
A lui si devono alcuni tra gli scatti più memorabili del secolo scorso, destinati a finire sui libri di storia: come quello, stupendo, che immortalò a Parigi nel 1959 il gruppo del Nouveau Roman, sorpreso con spontaneità come per una foto da gita scolastica; o quello, struggente, che fissò Pasolini e  sua madre Susanna, così vicini, così lontani; o i moltissimi altri di una lunga lista di fotografati, di  volti illustri o dell’amata gente comune come i portuali, di cui Mario, milanese di nascita ma genoano nell’anima, era l’orgoglioso portabandiera.
Risultati eccezionali per vibrazioni di autentica sincerità, che tuttavia non sorprendono se si ha avuto la fortuna di conoscerne l’autore. Mario prima di tutto era una creatura umile, anche timida, curiosa e dal cuore grandissimo, un partigiano di libertà e verità  rimasto ragazzo dai giorni della Resistenza cui aveva partecipato giovanissimo o dalla bohéme squattrinata del Bar Jamaica di Brera, agli esordi di una vita da leggenda che lo ha portato in giro per il mondo, ma  che al danaro ha sempre dato pochissimo peso. E perciò Mario era un irresistibile seduttore, una calamita di umanità e un maestro di scatti inimitabili, perché tramiti visivi di incontri reali e non esiti di una anodina progettazione estetica.

Il gruppo del Nouveau Roman (Parigi, 1959). Foto di Mario Dondero
Il gruppo del Nouveau Roman (Parigi, 1959). Foto di Mario Dondero

Bastò seguirlo sulla piazza di Casarsa, quando ci mise piede nel 2010 in occasione della mostra delle sue foto pasoliniane organizzata a Casa Colussi. Dopo un po’ era come se ci avesse abitato da sempre, al centro com’era di un crocchio di persone sorridenti, ammaliate e pronte a cantare con lui Les feuilles mortes o, volendo, Bandiera rossa, bis a richiesta del suo repertorio di abile chansonnier.
Di aneddoti simili sono piene le testimonianze degli amici che lo hanno frequentato con gioia. Tra i tanti ne rispolvero uno anch’io dal serbatoio dei miei ricordi. Una volta, sempre a Casarsa, gli propongo di accompagnarlo in auto alla stazione di Mestre, dove doveva “assolutamente” prendere nel pomeriggio un treno che lo portasse a Milano, in tempo utile per una partita di calcio in notturna.
Autostrada o strada normale? Normale, normale, ça va sans dire. E poi di  tempo ce n’è, anche per un pranzetto  in qualche trattoria ruspante fuori mano. Detto  fatto e si parte, ma lungo il tragitto, più che i chilometri, accumuliamo ore su ore di ritardo, allarmante per me e non per lui, serafico come non mai. Nella trattoria, a un certo punto, lo perdo di vista, ma, come niente fosse, lo riacciuffo in cucina, dove intrattiene amabilmente e fotografa i cuochi. Va a finire anche che, non so proprio come, ci ritroviamo proprio nell’odiata autostrada senza essere passati per il casello, ma all’uscita Mario sfodera una  affabulazione così suadente che convince l’addetto della nostra buona fede e strappa un pedaggio maggiorato di poco.
Morale: arriviamo a Mestre ben oltre le 20, invece delle 16 previste, e finalmente Mario si infila nel primo treno che trova. Causa non ultima del ritardo era stato anche un altro fatto. In un tratto di campagna lo sguardo di Mario è attirato da una infilata di viti. Mi fa fermare e mi invita a camminarci in mezzo, così come mi viene, giusto perché lui possa farmi qualche foto, in ricordo –dice- della nostra bella gita vagabonda. Scatta di qua, scatta di là, e intanto passa anche lì una buona ora.
Quelle foto non le ho mai viste, anche perché sospetto che il mio svagato fotografo avesse dimenticato di caricare il rullino. Pare gli succedesse spesso.
Non importa. Quelle foto invisibili, Mario amico carissimo, sono meravigliose, le più belle che mi siano state fatte. E che grazia aver fatto con te un piccolo pezzo di strada.