PPP su “La Storia” di Elsa Morante

Elsa Morante, La Storia

In Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti 1996

L’ultimo romanzo di Elsa Morante è un poderoso volume di 661 pagine, e il suo «soggetto» è proprio quello che dice il titolo, cioè la Storia. E difficile con­cepire un progetto più ambizioso di questo: ma si trat­ta di un’ambizione evidentemente giustificata, se la so­la ambizione ingiustificata è quella di scrivere opere li­mitate e perfette. Illimitatezza e imperfezione sono ca­ratteri della necessità. Illimitato il romanzo della Mo­rante lo è, perché esso indubbiamente trasborda oltre il confine delle 661 pagine, verso immensità di temi, motivi e superfici non verbali. Imperfetto anche lo è. La Morante avrebbe forse dovuto lavorarci ancora un anno o due. Infatti non c’è dubbio che il grosso libro si divide almeno in tre libri magmaticamente fusi tra loro: il primo di questi libri è bellissimo – è straordi­nariamente bello – basti dire che mi è capitato di leg­gerlo nel bel mezzo di una rilettura de I fratelli Karamàzov e che reggeva mirabilmente il confronto! Il secondo libro invece è completamente mancato, non è altro che un ammasso di informazioni sovrapposte disordinatamente, quasi, si direbbe, senza pensarci sopra; il terzo libro è bello, benché molto discontinuo e con molte ricadute nella confusione un po’ presuntuo­sa del libro di mezzo.

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Nel primo libro si narra la storia dei padri, visti addirittura come antenati: l’azione è in un «altrove» (la Calabria) che corrisponde alla dislocazione del tempo della narrazione in un periodo «anteriore», già com­pletamente elaborato e quindi cristallizzato dalla mor­te. Quivi gli avi vivono circostanze e azioni perfetta­mente essenziali, poetizzate già dal fatto di appartene­re al passato: possono quindi cadere sotto il completo dominio dell’autrice che ha la ventura di essere in vita e di conoscerle. Sia il ramo calabrese (il padre Ramundo) che il ramo ebreo (la madre Almagià), con la loro cerchia, occupano spazi e tempi perfetti. La loro mor­te non è ideologica, se non in quanto appartenente al mito. Essa consente dunque alla loro vita, finita, di es­sere totalmente espressa: di essere quella e non altra.
Tutto questo «libro» è un enorme excursus che sta tra l’incontro di un soldato tedesco con Ida al quartie­re di San Lorenzo nel 1941, e la violenza che egli eser­cita su di lei: violenza da cui avrà poi la ventura di na­scere un figlio bastardo (mentre lui, il ragazzo bavare­se, morirà qualche giorno dopo). Potremmo però pro­trarre questo libro – stupendo – fino alla nascita del bastardello Useppe, nascita legata agli ansiosi sconfi­namenti della mezza ebrea Ida nel ghetto romano.
Il secondo libro va dalla nascita del bastardello al bombardamento di San Lorenzo, allo sfollamento di Ida e del cucciolo Useppe nella casermetta di Pietralata, alla resistenza anarchico-comunista (alla spagnola), in cui si fa luce il figlio, diciamo così, di primo letto di Ida, Ninnarieddu, insieme con un altro protagonista del libro, Davide Segre, ebreo. (Nella casermetta di Pietralata si ammassano però molti altri personaggi le cui storie danno al racconto un carattere corale, este­riormente neorealistico). La guerra finisce, Ida si trasferisce col figlio a Testaccio, dove compare e riscom­pare l’altro figlio grande, il seduttore (teppista, ex fascista, ex comunista, ex anarchico, borsaro nero rivo­luzionario – un po’ retrodatato, per la verità, come il suo amico Davide).
L’ultimo libro è il Libro delle morti. La guerra è fini­ta, ma tutti i nostri personaggi muoiono dopo. Prima tocca al trionfante, al vivo per definizione, Ninnarieddu; poi a Davide Segre; poi al piccolo Useppe, dive­nuto epilettico, e infine alla «povera di spirito» Ida. Erano però antecedentemente morti quasi tutti gli al­tri personaggi minori.
L’insieme del romanzo si configura come un con­fronto tra la vita e la Storia: tra un capitolo e l’altro del romanzo (concepito ad annali) ci sono infatti brevi in­serti che riassumono gli avvenimenti storici oggettivi – con stile da manuale – dal 1941 al 1967. Nel «primo li­bro» questa è una trovata, diciamo «strutturale», straordinaria. Perché? Perché la vita che si oppone al­la Storia è una vita di morti, e quindi una vita non esal­tata e strumentalizzata in quanto tale. C’è una reale in­compatibilità tra essa e la Storia. L’opposizione non può essere dialettica: e quindi non rischia di essere ideologica e velleitaria. Le cose stanno così e basta: il confronto tra la vita dei morti e la Storia produce stu­pendi effetti allucinatori (come il grande «adagio» del­la morte della madre di Ida).
Poi questo «effetto» della contrapposizione della vita alla Storia, di colpo si perde e scade. Tale degra­dazione del testo coincide con la nascita del piccolo Useppe: cioè col formarsi di una vita «esaltata e stru­mentalizzata in quanto tale». Perché è con Useppe che comincia la lunga celebrazione morantiana della vita­lità, dell’innocenza, della joie de vivre dei poveri di spirito. Useppe ne è il simbolo: ma anche tutti gli altri personaggi che in questo periodo (della vita e del ro­manzo) lo circondano, ne sono forme e varianti. Prima di tutti, il fratello maggiore Nino (di cui Useppe si in­namorerà perdutamente). Anzi, Nino si presenta co­me il vessillo della vita vissuta – come dall’eroe di un melodramma – in tutte le sue pieghe, in tutta la sua to­talità, in tutta la sua inconsapevolezza, in tutte le sue tentazioni, in tutte le sue miserie (immediatamente e sistematicamente «perdonate» dall’Autrice: che anzi si premura di glorificarle attraverso una certa ironia evangelica, per cui, delle miserie, anche più miserabi­li, non c’è che da sorridere). Anche Davide Segre, nel­la sua torva e ingenua rabbia e degradazione, è un sim­bolo di questa «vita vivente». E non parliamo poi del carrozzone dei personaggi minori (napoletani o sotto-proletari romani, figurarsi; per non parlare, inoltre, degli animali).
In questo interminabile capitolo del romanzo, tutti i personaggi sono declamati, improbabili, irreali: quindi manieristici. Puro manierismo è l’infanzia di Useppe; puro manierismo è la giovinezza di Nino, pu­ro manierismo la grinta di Davide, ecc.
In essi la Morante non «rappresenta» la vita, ma, appunto, la celebra: senza tuttavia (a mio parere) aver meditato abbastanza su tale ideologizzazione e di con­seguenza sul proprio progetto narrativo. Le «spie» che testimoniano questa approssimatività rappresen­tativa e stilistica sono molte.
1) La Morante, che accetta la convenzione della «fa­vola», e quindi la necessaria funzionalità di ogni sua parte, non è fatta per gli excursus (alla Gadda, per in­tenderci). Eppure queste due o trecento pagine del li­bro, sono fatte tutte di excursus: in cui manca però, ap­punto, l’inclinazione e la follia necessaria a rendere ta­li excursus autosufficienti, funzionali di per sé. Essi so­no in genere diligenti referti la cui funzione è quella di far trascorrere il tempo della macchina narrativa: un referto riguardante Useppe fa «trascorrere il tempo» concernente Nino, un referto riguardante la famiglia napoletana fa «trascorrere il tempo» riguardante Useppe, e così di seguito. La lunghezza del tempo (necessaria a un romanzo come questo) è sentita come prolissità verbale: e un elementare gioco combinatorio tra varie sotto-storie è sentito come capace di sostitui­re la «successività» naturalistica: ossia l’unilinearità della storia (privata o pubblica). Questo equivoco fa sì che in realtà permangano e incombano minacciose nel romanzo sia la successività naturalistica che l’unilinea­rità storica.
2) Tutto ciò è aggravato dal fatto che la Morante non ha saputo o voluto scegliere un personaggio che – in questa parte del libro – le mettesse a disposizione il suo sguardo in modo che i fatti e le cose risultassero «viste da lui».
Ma ogni volta che succede qualcosa, la Morante – che è lei ad amministrare e gestire separatamente tutti i personaggi – si sente in dovere di informarci delle «reazioni» di ciascuno dei presenti a quell’avvenimen­to. E lo fa con una diligenza che rasenta l’ossessione. Talvolta la meticolosità di tali informazioni è puro ar­bitrio: non c’è personaggio, casualmente nominato – e quindi totalmente fuori dalla storia – che non sia gra­tificato di un’intera «relazione» che lo riguarda. Per esempio, un certo Giovannino, figlio di una signora presso cui Ida subaffitta una camera. Egli è soltanto nominato come assente, in quella casa (si trova in Rus­sia): ma nulla impedisce alla Morante di imporci, qual­che tempo dopo, una lunga e circostanziata descrizio­ne della sua morte in Russia, che non riusciamo a ca­pire se sia bella o brutta, tanto poco ci importa di quel personaggio. E così l’amore di una certa ragazzetta per il solito irresistibile Nino: ogni volta che Nino compare, la Morante ci impone un‘osservazione sull’amore silenzioso e senza speranza di questa ragazzetta, che non ha nel romanzo sbocco alcuno: e nemmeno un senso che valga per se stesso. Ho dato due esempi, ma potrei darne a dozzine.
3) La Morante è ideologicamente certa che non ci sia altro mezzo linguistico che un certo umorismo per descrivere le imprese dei suoi eroi. Ma poi il linguag­gio di tale umorismo è di una elementarità disarman­te: esso consiste quasi esclusivamente nell’uso osses­sionante dei due avverbi «presentemente» e «attual­mente» (per indicare un avvenimento vissuto con grande passione e affettività da parte dei personaggi in una situazione, per contro, molto umile e misera), le allocuzioni «a quanto pare» e, un po’ meno fre­quente, «che io sappia», e gli aggettivi «futile» e «grandioso» (per prendere in giro gli oggetti del suo amore, i suoi eroi).
Il corollario della povertà del contingente di lingua umoristica, è l’approssimazione e la goffaggine della «mimesi» del linguaggio di quegli eroi, romani o na­poletani che siano (per non parlare dell’alto-italiano Davide). Il romano parlato di Nino e dei suoi amici ri­corda addirittura (la Morante mi perdoni, qui devo es­sere duro) quello di certi trafiletti di costume del «Messaggero»: mentre il parlato di Davide non ha ri­scontro in nulla: il ragazzo si presenta come bologne­se, in realtà è mantovano, ma parla una specie di veneto. Non c’è tuttavia angolo nell’Alta Italia in cui cade­re si dica cader. Per ogni dove, là, nell’Alta Italia, è ca­scare che ha trionfato eliminando ogni altra forma concorrente. Che Davide dica cader è offensivo per il lettore: ma è soprattutto offensivo per lui. Dov’è il co­sì grande amore della Morante per lui, se essa è poi co­sì pigra da non fare il minimo sforzo per ascoltare come parla? Vuol dire che in questo amore c’è qualcosa di precostituito, che impedisce il particolare e il con­creto, come fatti irrilevanti, di fronte alle «grandiose» Leggi dell’Amore. D’altra parte il fatto stesso di de­molire o almeno sminuire e ridicolizzare, sia pure affettuosamente, tutto ciò che i suoi eroi fanno, significa che essi sono amati in base a ciò che sono, cioè per in­duzione aprioristica, non in base a ciò che fanno: che è visto, appunto, come irrisorio e vano. Cosa questa che li rende di colpo miserevoli automi di una realtà incompatibile con le loro illusioni. Anche negli apogei della vita e dell’azione, in cui la vita si oppone alla sto­ria proprio in quanto vita – meraviglioso fenomeno da viversi estremisticamente, come fanno appunto gli eroi della Morante, che per questo li ama – tale oppo­sizione è surrettizia. La mortuarietà della vita non può opporsi che nominalmente a una Storia vista per defi­nizione come mortuaria.
4) Tecnicamente la Morante non si è accorta che nei capitoli di questa parte del libro non doveva ripetere, quasi meccanicamente, ciò che viene esposto nei trafi­letti informativi tra un capitolo e l’altro. L’incomuni­cabilità tra capitoli e trafiletti, per essere poetica, do­veva essere radicale.

26 luglio 1974

Nell’ultima parte del romanzo, nel Libro delle mor­ti, di colpo, con la morte di Ninnarieddu, la vita si li­bera dalla sua mortuarietà: protagonista diviene la morte, cosa che dà di nuovo una grande vitalità al li­bro. L’estrema bellezza delle prime 150 pagine non è più raggiunta, perché la contrapposizione della morte alla Storia (produttrice peraltro di morte) è enigmatica, irrelata e pura. Qui invece tale contrapposizione resta ideologica e polemica. È per colpa della Storia (nella fattispecie l’ultima guerra) che i personaggi muoiono: dunque il loro morire ha una funzione preordinata. Ciononostante qui sì si può dire che le pagine hanno una funzione anche di per sé, al di fuori del loro contesto logico e ideologico. La morte di Ninnarieddu (e soprattutto il ricordo di lui morto nella madre inebetita), la morte di Davide (a parte il delirio in osteria, poco prima), il presagio della morte del pic­colo Useppe (l’apparire del «grande male») sono cose molto alte. Qui la Morante – senza che nulla cambi, ma continuando imperturbabile il diligente e geniale «ron-ron» della sua scrittura di Manierista Onniscien­te – è profondamente ispirata. Si direbbe che anche lei è come il suo Hitler: raggiunge il climax solo quando tutti sono morti (vedi del resto, in proposito, Potere e sopravvivenza di Elias Canetti, Adelphi).

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Il grande romanzo della Morante è il complesso prodotto che doveva per forza essere, come dicevo, gi­gantesco e sproporzionato, di un’ansia espressiva ab­norme. Vi confluiscono infatti almeno tre fonti identificabili d’ispirazione: 1) L’esperienza autobiografica, 2) L’ideologia reale, 3) L’ideologia «decisa».
1) Quale filologo che ha reperito documenti e ha raccolto testimonianze scritte o orali (non in quanto amico della Morante!) so per certo che tutta la prima parte del romanzo – al di fuori delle esperienze intel­lettuali che sono anch’esse infine autobiografiche – è dominata dall’elemento autobiografico del terrore della mezza ebrea all’inizio delle persecuzioni razziali. Tale atroce esperienza autobiografica è dalla Morante imparzialmente suddivisa tra la madre di Ida e Ida. Idea straordinariamente poetica. Infatti nessuno dei due personaggi è poi autobiografico: l’una vivendo miticamente la prima parte della tragedia, e l’altra la seconda parte, sono gli unici personaggi davvero oggettivi dell’intero libro. Essi hanno la profondità – l’e­strema precisione e l’estrema imprecisione – delle per­sone viventi.
Assai poetica è poi l’intuizione del personaggio di Ida, una povera di spirito incapace di guardare una so­la volta nella vita in faccia la realtà, eppure così piena di grazia, non mai manieristica. Il manierismo la Morante lo usa coi maschi e gli animali, ma con il suo personaggio Ida la Morante non è mai stata neanche per un attimo insincera. E Ida è anche il personaggio pre­so meno (affettuosamente) in giro: essa è infatti del tutto priva di illusioni e piena, in compenso, di terro­ri. Dunque non c’è niente in lei su cui sorridere. Non si può scherzare su una mortuarietà reale. E sarà pro­prio Ida il personaggio «altro» che vivrà le più recenti e sempre atroci esperienze autobiografiche della Mo­rante. Anche tali esperienze vissute in realtà (come le ricerche filologiche informano) in un’unica persona, nel romanzo sono distribuite fra tre persone: la morte con le sue riapparizioni tocca in sorte a Ninnarieddu; l’epilessia, o «grande male» a Useppe e infine la droga a Davide.
È specialmente Ninnarieddu che lucra di tale attri­buzione. Fino a quel punto egli era stato un perso­naggio falso, tutto costruito aprioristicamente e arbi­trariamente. Nulla di ciò che egli dice o fa è attendi­bile. Come abbiamo visto, l’Autrice è informata di tutto: ci dà notizie dei personaggi minori e minimi – anche quando sono già fuori dalla storia, in un loro remotissimo mondo autonomo; addirittura, la Mo­rante ci dà notizie su personaggi solo nominati. Ma, poiché per Ninnarieddu la Morante aveva bisogno della figura del classico amato, che fugge, dispare, è eternamente altrove, per la disperazione dell’amante (il fratelluccio Useppe), ebbene, la Morante ci dice sempre che Ninnarieddu, appunto, fugge, dispare, sta altrove, non si fa più vivo ecc. Dove vada e cosa faccia non si sa.
Ma qual è la logica che lega l’abbondanza di infor­mazioni, inutili e irrichieste, su un qualsiasi personag­gio appena nominato e puramente parentetico e la to­tale mancanza di ogni informazione su un personaggio come Ninnarieddu che ci sta, invece, molto a cuore? È la libertà dell’artista, si dirà: il suo diritto a infrangere la sua propria logica. Ebbene sì. Ma ciò non toglie che tali infrazioni siano estremamente goffe, e che quindi Ninnarieddu risulti un personaggio «scollato» (come Moravia dice per Madame Bovary). Ma ecco che, dal momento in cui muore e diviene un ricordo, Ninna­rieddu è stupendamente reale.
2) L’«ideologia reale» di un autore è sempre «de­dotta»: il che significa che l’individuarla ed esprimer­la, dipende dall’intelligenza del deduttore. Non pre­tendo, quindi, di poterla qui delineare in tutta la sua oggettività o almeno nella sua configurabilità. Fra l’al­tro, ogni ideologia reale è, per sua natura, illimitata e indefinibile, perché abbraccia tutto il possibile. Mi li­mito ad afferrarne qualche carattere.
Prima di tutto, appunto, la sua illimitatezza, che corrisponde a quella totalità che è la persona di Elsa Morante: totalità che si pone in un rapporto interpre­tativo completo col mondo. E da questa illimitatezza che deriva l’illimitatezza reale del libro, il suo sfumare verso superfici «altre», non verbali. Ed è questa illimi­tatezza che vanifica la convenzione della «favola» (dal­la Morante ostinatamente adottata e applicata): infatti la «favola» è per sua costituzione «chiusa», e non si può «chiudere» in nessun modo un’ideologia illimitata. Tale ideologia è quella che per conto suo produce le parti sincere e «belle» del libro (la prima parte, il personaggio di Ida, la parte finale, anche se non tutta). Non solo: ma essa presiede anche alle due o trecento pagine manierate e «brutte» del libro: infatti non c’è una sola di tali pagine che, estrapolata, non abbia qualcosa di reale, sempre. Per esempio, ognuno dei «referti» inseriti per pura volontà d’autrice, quasi co­me zeppe, nel racconto, e che nel contesto appaiono insopportabili, in se stessi, invece, risultano quasi sem­pre forniti di vitalità e realtà.
Il nucleo parlabile dell’«ideologia reale» della Morante consiste nella morte vista come fenomeno che ri­duce a scherzo la vita: ma a uno scherzo bellissimo, struggente, degno di essere vissuto, anche nelle sue inevitabili brutture. Ciò è accaduto agli avi, che sono già morti, e accade a coloro che muoiono fisicamente. Una stupenda, funeraria musica mozartiana accompa­gna gli atti della vita di costoro. Il fatto che muoiano non riaccende in chi resta l’atroce sentimento della so­pravvivenza: al contrario, riaccende in lui la pietà, o, meglio, il vero e proprio amore per i morti, sentiti co­me i veri fratelli. L’autrice (che, appunto, sopravvive) non prova il piacere del tiranno (Hitler) che si realizza solo attraverso la serie infinita delle morti altrui; ma prova la serena pena di chi vede confermato ciò che impietosamente sa: è il medico Hachiya, sopravvissu­to, che gira per Hiròshima a guardare i luoghi dei morti e a pregare (cfr. ancora il citato Potere e soprav­vivenza).
3) È l’«ideologia decisa» tuttavia che, ritagliando l’immenso tessuto dell’«ideologia reale» – oppure, meglio, restringendola e volgarizzandola – produce la struttura del libro: ossia i due schemi dell’abnorme ma canonica dilatazione narrativa e della contrapposizione tra vita e Storia. È essa dunque che rende parlabile l’imparlabile, sia pure attraverso pazienti circonlocu­zioni. Veniamo così esplicitamente a sapere, nel corso della lunga lettura, che la vita, proprio la vita – come vitalità prorompente, ingenuità, dedizione totale alla illusione, corporeità – è il «Bene», mentre la Storia, in quanto produttrice di morte, è il «Male». È un’idea come un’altra. Giusta, fin troppo giusta.
La Morante, però, correda questa idea elementare, e evidentemente insostenibile (come si può separare la Storia del Potere dalla Storia di chi subisce la violenza di tale Potere, oppure se ne estranea?), di un suppor­to filosofìco-politico. La filosofia è quella di Spinoza, quella del Vangelo letto da San Paolo e quella della grande cultura induistica; la politica è quella ideolo­gizzata dagli anarchici. Tale sincretismo non coincide però con nessuna ideologia storica: nessun mistico vi si riconoscerebbe, ma neanche nessun anarchico. Il «pastiche» è unicamente morantiano. Tale affascinan­te ideologia personale rivela però un’estrema debolez­za e fragilità nel momento in cui viene tradotta in ter­mini di romanzo popolare, applicata, volgarizzata. Benché mascherata con un certo umorismo, essa stri­de puerilmente nel testo narrativo; mentre «messa nel­la bocca» dei personaggi diviene totalmente afasica. E chiaro che essa, per valere – come realmente vale – ha bisogno di un’assoluta aristocraticità, di una assoluta illeggibilità. E infatti non per nulla il suo alto valore si manifesta in pieno nel precedente libro della Morante (II mondo salvato dai ragazzini) che è un libro di versi, cui invano il registro gnomico, e, ancora, favolistico, tentano di attribuire leggibilità. Nel momento in cui tale ideologia viene trasformata in un «tema» di ro­manzo popolare – per definizione voluminoso, carico di fatti e informazioni, facile, rotondo e chiuso – essa perde ogni credibilità: diviene un fragile pretesto che finisce col derealizzare la sproporzionata macchina narrativa che ha preteso di mettere in moto.

2 agosto 1974