La scrittura-testamento dell’ultimo Pasolini
di Pasquale Voza
Per gentile concessione pubblichiamo da “I Diari di Cineclub” (n. 19, luglio 2014) questa acuta riflessione di Pasquale Voza, che si confronta con la scrittura-testamento dell’ultimo Pasolini e ne interpreta la drammatica e consapevole impossibilità espressiva nel quadro apocalittico dell’egemonia neocapitalistica e della scissione irrimediabile tra il Potere e la vita.
Nella Lettera luterana a Italo Calvino (30 ottobre 1975), Pasolini, replicando alle «certezze laiche, razionali, democratiche, progressiste», sulla base delle quali, a suo avviso, l’autore delle Cosmicomiche aveva individuato o creato, a proposito della carneficina del Circeo, dei capri espiatori («parte della borghesia», «Roma», i «neofascisti»), osservava con polemica amarezza che i «giovani del popolo possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani del Parioli: e con lo stesso identico spirito…». Per Pasolini non era vero che la «cancrena» si diffondesse da alcuni strati della borghesia (magari romana, magari neo-fascista) e contagiasse il paese e quindi il popolo: c’era invece «una fonte di corruzione ben più lontana e totale» (che certo sfuggiva del tutto a chi, come Sofri, proponeva allora come esclusiva una lettura di ‘classe’ degli autori di quella carneficina, pariolini, borghesi e fascistoidi). Tale fonte di corruzione era legata ad una vera e propria «crisi cosmica», consistente nel «passaggio dal ‘Ciclo’ naturale delle stagioni al ‘Ciclo’ industriale della produzione e del consumo». Derivavano di qui, per Pasolini, «il nuovo fascismo», il potere consumistico e colonizzatore del nuovo Capitale, la «scomparsa delle lucciole», vale a dire la sconvolgente mutazione antropologica, che aveva prodotto come esito estremo la scomparsa del corpo, della corporalità popolare, «l’ultimo luogo in cui abitava la realtà». Nella sua scrittura saggistica di quegli anni, soprattutto in quella «corsara» e «luterana», l’autore delle Ceneri di Gramsci polemizzava tenacemente, pur nei termini perentori della sua visione apocalittica, con lo «sviluppismo» proprio delle culture e delle politiche della sinistra e con il «progressismo», privo di sospetto, dell’intellettualità democratica. A suo modo, egli invitava a guardare all’invisibilità ramificata del Potere, inteso non solo come Palazzo, separato e cinicamente corruttore, ma anche, e soprattutto, come primato formidabile della mercificazione, come vera e propria «catastrofe del valore d’uso», come manipolazione estrema: insomma quello che oggi, attraverso varie mediazioni, in primis la mediazione di Foucault, si chiama bio-potere.
Sicché in generale uno dei nodi fondamentali, che contrassegnano in profondità l’intera opera pasoliniana, si può considerare senza dubbio la polarità corpo-storia («l’abisso tra corpo e storia», come è detto nella raccolta La Religione del mio tempo), e più in particolare, da un certo momento in poi, la polarità corpo-potere. «Il corpo (ogni corpo), coperto di croste ed eternamente crocifisso, / (non c’è niente da fare!) è preso per scherzo; / è una cosa privata su cui è bene sorvolare, tacere / – o, appunto, solo scherzarci su, nelle more»: il pathos polemico di questi versi del 1971 era indirizzato per implicito alle culture, alle ideologie e al senso comune imperanti, anche a sinistra, che ignoravano e insieme rendevano invisibile e reprimevano quella che per Pasolini era la crucialità-sacralità, la realtà del corpo. In stretta connessione con il primo, v’è poi il nodo della scissione tra la politica e la vita: in termini assai peculiari, nei termini appunto di una «crisi cosmica», Pasolini vide come pochi l’avanzare dei processi, per così dire, di “colonizzazione” della vita e insieme l’avvitarsi di una politica-potere costitutivamente incapace, a suo avviso, di accostarsi, di guardare ai temi della vita, a temi, cioè, considerati tradizionalmente im-politici.
Per suscitare l’attenzione più allarmata possibile su tale problema, Pasolini, che si definiva «misero e impotente Socrate / che sa pensare e non filosofare», volle affidarsi ad un’estrema metafora politica e parlò di «Destra divina che è dentro di noi, nel sonno». Il protagonista del dramma Bestia da stile la chiamava «destra sublime» e Pasolini, in Volgar’ eloquio, si provò a spiegarla: «[…] una destra che coinvolga, inglobi una serie di problemi, amori, rimpianti; che in fondo valgono per tutti […] una destra utopistica, completamente idealizzata». Era un modo paradossale e ‘obliquo’ di chiedere (o forse di non chiedere più) alla sinistra di farsi carico dei problemi terribili e radicali inerenti alla sussunzione della vita nell’universo orrendo della modernizzazione e della sua falsa tolleranza liberale: di farsi carico dell’eclissi del sacro, che, al di là della pronunzia pasoliniana, fu un tema assai circolante nella riflessione sociologica e culturale degli anni Sessanta, come per altro verso lo fu il motivo della «unidimensionalità» omologante di derivazione francofortese, in particolare marcusiana.
L’altra faccia di questo processo era per Pasolini la nascita dell’italiano «come lingua nazionale», vale a dire il dispiegarsi egemonico della lingua comunicativa della «nuova borghesia» («una borghesia neocapitalistica», «una borghesia di tipo tecnocratico»): si trattava di un’egemonia che, se pur incipiente, appariva ai suoi occhi tale da minacciare socialmente la capacità più profonda ed intima della poesia, cioè quella di raffigurare il sacro «facendo ricorso ai più rimossi archetipi». Rispetto all’aforisma benjaminiano («la catastrofe è che tutto continui come prima»), si potrebbe dire che per Pasolini la catastrofe era che non ci fosse più un prima: «sto dimenticando com’erano prima le cose. […] Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente».
Insieme al corpo scompariva la poesia, che dava vita al corpo: aveva vinto il Potere, e il sesso non era più mistero nello stesso tempo in cui era scomparso il contro-potere della poesia. È per questo, a ben guardare, che la scrittura dell’ultimo Pasolini, dalla Divina Mimesis a Bestia da stile a Petrolio, è una scrittura sull’impossibilità della scrittura: una continua, drammatica metascrittura, una sorta di prometeismo espressivo che ormai si sa perdente in partenza.
[info_box title=”Pasquale Voza” image=”” animate=””]ordinario di Letteratura italiana all’Università di Bari, fondatore del Centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani, curatore (con Guido Liguori) del Dizionario gramsciano 1926-1937 (Carocci, 2009), si è interessato particolarmente dell’ultima fase dell’attività letteraria di Pasolini, come nello studio La meta-scrittura dell’ultimo Pasolini. Tra crisi cosmica e bio-potere (Liguori, 2011). Oltre all’opera di Pasolini, i suoi interessi lo hanno portato a scrivere volumi di teoria e critica letteraria nell’età romantico- risorgimentale, oltre a saggi sulla narrativa di Tozzi, sulla produzione letteraria di Moravia, sulla letteratura meridionalista, sulle culture del Sessantotto.[/info_box]