“Porcile” e l’opposizione del sacro, di Luca Biscontini

La recente edizione in blu ray della versione restaurata del film Porcile, a cura della Cineteca di Bolognaoffre il destro a Luca Biscontini per un’analisi della pellicola, considerata dal critico l’opera più sincera di Pasolini, e perciò scandalosa. La scheda è apparsa nel maggio 2016 su www.taxidrivers.it, la rivista online di cinema indipendente di cui Biscontini è caporedattore. 

“Porcile” di Pier Paolo Pasolini in blu ray
di Luca Biscontini 

www.taxidrivers.it – maggio 2016 

I lapide: «Interrogata ben bene la nostra coscienza abbiamo stabilito di divorarti a causa della tua disubbidienza». 

II lapide: «Io e te moglie siamo alleati: tu madre-padre, io padre-madre. La tenerezza e la durezza sono intorno a nostro figlio da tutte le parti. La Germania di Bonn, accidenti, non è mica la Germania di Hitler! Si fabbricano lane, formaggi, birre e bottoni (quella dei cannoni è un’industria d’esportazione). È vero: si sa che anche Hitler era un po’ femmina. Ma com’è noto, era una femmina assassina: la nostra tradizione è decisamente migliorata. Dunque? La madre assassina, lei, ebbe figli obbedienti, con gli occhi azzurri pieni di tanto disperato amore. Mentre io, madre affettuosa, ho questo figlio che non è né obbediente né disubbidiente?”.

"Porcile". Cofanetto
“Porcile”. Cofanetto

Il modo migliore per tentare di analizzare Porcile di Pier Paolo Pasolini consiste probabilmente nel far parlare l’opera stessa, cercando di far emergere alcuni dati salienti, in riferimento ad un linguaggio fortemente poetico che l’autore utilizza per provare a cristallizzare l’orrore. Le lapidi che introducono il film ci forniscono un immediato orientamento circa la doppia valenza di una sacralità che eroicamente i due personaggi protagonisti (Pierre Clementi e Jean-Pierre Léaud) cercano di salvaguardare, l’uno attraverso un gesto di rivolta estrema, il cannibalismo, l’altro con l’aberrazione della zoofilia; entrambi vengono barbaramente uccisi, ma su di essi scende una sorta di grazia: per Clementi è costituita dallo spirito di rivolta; per Léaud è l’irrazionalità, il mistero.
Pasolini, con un montaggio alternato, accosta e compara due situazioni storiche diverse ma giustapponibili, nella misura in cui nella prima (quella di Clementi) siamo in un mondo precapitalistico in cui è ancora possibile porsi in una dinamica totalmente antagonista, mentre nel secondo si segnala il passaggio dal vecchio al nuovo capitalismo, e, dunque, essendo avvenuta una feroce sussunzione della maggior parte dei soggetti (esclusi i contadini capeggiati da Ninetto Davoli, e la brava Anne Wiazemsky che incarna ciò che Julian dovrebbe essere), l’unica maniera per smarcarsi dall’insuperabile impasse è ricorrere a una dimensione poetica che recuperi ciò che la prosaicità della logica dei consumi vorrebbe annientare; un linguaggio che si scagli contro la cronologia del tempo, contro ogni circolarità economica (finanche psichica), per rievocare quel flusso emotivo (sacro) che, nonostante tutti i tentativi di sabotaggio, continua a informare, integrandola, la realtà.
L’ossessione del “mangiare” e dell’”esser mangiato” ha da sempre condizionato inconsciamente il poeta friulano a cui, dunque, non rimaneva che provare a esorcizzare questa tragica incombenza mettendola su pellicola, articolando la doppia modalità di relazionarsi alla realtà che gli era propria; quelle lapidi che aprono il film potrebbero tranquillamente campeggiare sul suo feretro, confermando la sconcertante capacità di prevedere in largo anticipo il futuro.
Porcile è un film povero, girato in un mese, con una cifra irrisoria. È tendenzialmente considerato un’opera minore di Pasolini, ma al contrario chi scrive l’ha sempre considerato il suo lavoro più sincero, e in questo senso scandaloso, capace di sviscerare fino in fondo la contraddittorietà apparente di un pensiero che in realtà non faceva altro che confrontarsi continuamente con una arcaicità, che, come uno scrigno, conserva quel “sacro” (l’eccedenza, l’infinità, la globalità) di cui un poeta non può fare a meno. Pasolini ha avuto l’indubbio merito di cercare di condividere con i suoi lettori e spettatori questa incontenibile pulsione, l’unica che gli permetteva di sopportare il peso delle varie crociate mosse contro di lui, senza arroccarsi su una posizione aristocratica di artista sganciato dal mondo. E per tale motivo, probabilmente, non dovremmo mai smettere di essergli grati.
«Il contenuto politico esplicito del film ha come oggetto, come situazione storica, la Germania. Ma non parla della Germania, bensì del rapporto ambiguo tra vecchio e nuovo capitalismo. La Germania è stata scelta in quanto caso limite. Il contenuto politico implicito del film è una disperata sfiducia in tutte le società storiche. Dunque anarchia apocalittica. Essendo così atroce e terribile il «senso» del film, non potevo che trattarlo: a) con distacco, quasi contemplativo; b) con umorismo».
Pasolini fornisce queste preziose indicazioni che ci permettono di capire meglio la storia ambientata nel presente, in cui le iperboli linguistiche utilizzate sia nei dialoghi tra Klotz (Alberto Lionello) e Herdhitze (Ugo Tognazzi) sia in quelli tra Julian e Ida rendono talora difficile la comprensione; in realtà il quadro è chiarissimo: all’orrore del passato recente (la Germania di Hitler) segue quello del nuovo capitalismo. Assistiamo a un’inquietante fusione tramite cui una nuova forma di totalitarismo si abbatte sulle masse, riducendo i soggetti al ruolo di passivi consumatori, inaugurando quella tremenda degenerazione antropologica denunciata successivamente nelle Lettere luterane. Julian è il risultato di questo drammatico passaggio e il suo triste epilogo (l’esser mangiato dai porci) restituisce con solarità l’impossibilità di adattarsi a una realtà in cui tutto diviene conformismo (compreso l’essere rivoluzionario), non c’è via di scampo, la sussunzione è definitivamente compiuta. Porcile anticipa, con una ferocia che non è inferiore, la drammaticità di Salò, e il distacco e l’umorismo sono operativi in entrambi i film, segnalando l’unica modalità che l’autore poteva utilizzare per affrontare temi così angoscianti e che viveva ogni giorno sulla propria pelle.
Ida: «Cos’è stato, Julian, a bloccarti in questa villa italianizzante?»
Julian: «Probabilmente un nulla, una foglia sperduta, un cigolio di una porta, un grugnito».
Straziante e poetico questo dialogo tra i due giovani, in cui emerge la fatalità di un destino che fa il suo corso senza che sia possibile rintracciarne le vere cause. Julian, d’altronde, è un borghese fino in fondo, e non può dunque sviluppare il necessario distacco per analizzare la situazione (comunque  intrascendibile) e tentare una rivolta che lo liberi (che ad ogni modo sarebbe un comportamento conformista). È irrimediabilmente catturato in una condizione che può solo attenuare grazie alla poesia, che tuttavia non impedirà che l’atroce epilogo si compia. L’elemento irrazionale, dunque, è decisivo, e gli permette di permanere temporaneamente in uno stato di grazia che redime.

Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia.

Altrettanto emozionante è la chiusura del “cannibale” Clementi, che, con la sua anarchia apocalittica e la contestazione globale sul piano esistenziale, scalcia, morde, scaccia chiunque voglio sottometterlo a un potere che inevitabilmente lo soggiogherebbe. Non ha pietà, così come non ce l’ha chi vorrebbe ridurlo in uno stato di schiavitù che non potrebbe mai accettare. Preferisce scorrazzare libero tra le fredde pendici dell’Etna, mangiando farfalle, serpenti, carne umana, mosso dall’istintivo impulso di vivere a contatto con una natura sacra, che non ha nulla di “naturale”, così come Pasolini avrà modo di affermare nel successivo Medea, dove articola con maggior chiarezza il proprio sentimento nei confronti di una realtà di cui riesce a carpire ancora quell’eccedenza che magnificamente non cessa di mostrarsi. Medea, anch’essa con un furore implacabile, si scaglia contro un destino che non riesce ad accettare, arrivando a uccidere i propri figli pur di vendicarsi di Giasone. Un’ira divina, la sua, incontenibile.

"Medea" (1969)
“Medea” (1969)

Chiudiamo proprio con il prologo del film con Maria Callas, che restituisce in maniera esemplare la nozione di sacro che Pasolini voleva a tutti i costi salvaguardare:

Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tientelo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito –  e comincerà qualcos’altro. Addio cielo, addio mare! Che bel cielo! Vicino, felice! Dì, ti sembra che un pezzetto solo non sia innaturale?  non sia posseduto da un Dio? E così è il mare, in questo giorno in cui tu hai tredici anni, e peschi con i piedi nell’acqua tiepida. Guardati alle spalle! Che cosa vedi? E’ forse qualcosa di naturale? No, è un’apparizione quella che tu vedi alle tue spalle, con le nuvole che si specchiano nell’acqua ferma e pesante delle tre del pomeriggio!
…. Guarda laggiù … quella striscia nera sul mare lucido e rosa come l’olio. E quelle ombre degli alberi … quei canneti. In ogni punto in cui i tuoi occhi guardano, è nascosto un Dio!
E se per caso non c’è, ha lasciato lì i segni della sua presenza sacra, o silenzio, o odore di erba o fresco di acque dolci …
Eh sì, tutto è santo, ma la santità è insieme una maledizione. Gli Dèi che amano – nel tempo stesso –  odiano.

[idea]Info[/idea]
Restaurato in 2k da Cineteca di Bologna in collaborazione con Movietime e Medusa presso il laboratorio “L’immagine Ritrovata”, Porcile è disponibile in blu ray, in formato 1.85:1 con audio LPCM 2.0. Nei contenuti speciali, “Cinegiornale” : La prima del film Porcile, intervista a Roberto Chiesi (Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna). Pubblicato da Mustang e distribuito da CG Entertainment.