Una riflessione dalla redazione di fanpage.it
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Il due novembre del 1975 muore, brutalmente assassinato, Pier Paolo Pasolini, all’idroscalo di Ostia. L’evento, pur macabro, è uno dei fatti che più hanno impresso la figura del grande poeta nell’immaginario collettivo, assieme al peso della sua eredità intellettuale.
Scrivere un articolo che commemori la figura di Pasolini, nell’anniversario della morte, è una cosa molto difficile. È molto difficile prima di tutto perché significa riportare alla memoria un fatto di sangue truce, nascosto in un angolo della mente piuttosto buio, dato che solo provare a rievocarlo, nella sua concretezza, è qualcosa che produce un istintivo ribrezzo.
Ma questa è solo una ragione superficiale, perché in realtà evocare la figura storica di Pasolini significa affrontare un’inevitabile vertigine della mente, quella che sta nello spazio che si apre tra noi e lui. E proprio noi, che non siamo algidi storici ma ammiriamo Pasolini per la sua attività di poeta, di cineasta e scrittore, siamo costretti ad ammettere lucidamente di essere in un tempo disperatamente postumo a quella attività intellettuale.
Noi ci troviamo in un mondo, o meglio noi siamo il mondo, di cui Pasolini temeva l’avvento e siamo così diversi da ciò che Pasolini cercava di difendere che proclamare la nostra sincera ammirazione per lui ci pone di per sé di fronte al paradosso di dovere ammettere di essere lontani da lui, di essere qualcosa di talmente altro da provare istintivo pudore nel volerne accogliere l’eredità.
È vero che il peso dell’alterità di Pasolini è sempre stato un fulcro del suo carisma, e la distanza che sentiamo non è altro che, alla fin fine, la stessa distanza che c’era fra il Pasolini borghese emarginato, perseguitato, e la borghesia connivente al potere dell’epoca; così come è d’altronde vero che la atroce valanga di violenza storica del capitalismo ha prodotto, oggi, disuguaglianze talmente palesi che è impossibile non vedere con lucidità che il proletariato cui si sentiva vicino Pasolini ha mutato solo aspetto, in alcuni casi, ma ci circonda. E ora che tutte le cose che Pasolini temeva sarebbero accadute sono di fatto accadute, è difficile immaginare un intellettuale simile a lui o a Sartre, che, a prescindere da giudizi di valore, si sobbarchi il peso delle contraddizioni del proprio tempo.
Pier Paolo Pasolini era soprattutto questo: una forza intellettuale in grado di portare su di sé, con dolore, le contraddizioni del suo mondo, poiché non solo le denunciava, ma le viveva intimamente e le lasciava emergere, nella forma più dilaniante, all’interno della propria opera: Pasolini traeva la sua ispirazione stessa da tali contraddizioni. Gli scrittori di oggi sono emarginati mediaticamente, ma i più vivono in piccoli gruppi appartati, in riserve indiane in cui, pur di sopravvivere, hanno talora l’aspetto, al confronto, di ombre in lontananza.
La nostra condizione disperatamente postuma rispetto a tutto ciò che Pasolini rappresentava si manifesta, essenzialmente, in ogni istante di quiescenza, non solo nei confronti del carro di trionfo del capitalismo, ma anche nei confronti di noi stessi, si manifesta nella passiva accettazione di quella “destra nera” che è annidata dentro l’animo di tutti, come l’ha definita una volta Pasolini nella storica rubrica Il Caos. Quando ci capita di vedere l’immagine di Pasolini, i sentimenti che proviamo sono i più contrastanti: chi lo ama prova un senso quasi di sacralità, salvo poi comprendere quanto di molto umano ci fosse dietro tale carisma; chi non lo ama spesso non lo comprende affatto, prova fastidio e sente la forte necessità di doverlo giudicare, di doverlo incasellare, banalizzare, trovando nelle debolezze e nelle contraddizioni di Pasolini un alibi per la propria ignoranza.
In ogni caso la problematicità intrinseca e, talora, anche il fastidio che scaturisce dal suo mito è prima di tutto la problematicità della nostra epoca, è il ritorno del rimosso di una società in cui tutti i soggetti politici sono talmente immersi nello status quo da non poter far altro che rimuoverne le contraddizioni, senza combattere contro se stessi, mentre il deserto socioeconomico da lui prima di ogni altro narrato avanza inesorabilmente. Pier Paolo Pasolini è stato ammazzato il 2 novembre del 1975, all’idroscalo di Ostia, in circostanze che trasmettono, nella loro iconicità, in modo lampante tutto quello che la sua esistenza è stata; ed anche per lui la morte è stata, come viene definita in Empirismo eretico, “un fulmineo montaggio della nostra vita”, perché in un lampo ci ha restituito l’immagine così forte che abbiamo oggi di lui.
Questa immagine, così forte, così intensa, quest’”icona” è, quindi, un pesante bagaglio storico che non sappiamo bene dove sistemare: è un’immagine che, proprio perché ci trascina con sé quando la guardiamo, proprio perché coinvolge così direttamente il suo osservatore mettendolo in discussione, durerà ancora per molto tempo.