Un accorato ricordo di Pasolini, poeta del rifiuto, apparso in rete a firma di Daniele Taurino, a 39 anni dalla scomparsa del poeta di Casarsa all’Idroscalo di Ostia.
di Michele Taurino
www.ilfaroonline.it – 2 novembre 2014
Sappiamo bene che esistono in mezzo a noi, vite morte e morti più che mai piene di vita, come nel caso del poeta di Casarsa. Il correre veloce del tempo ci fa forse dimenticare che il 2 novembre del 1975 moriva, in modo atroce, a pochi passi dalle nostre case, Pier Paolo Pasolini. Era nato a Bologna nel 1922. Ultimo intellettuale di una stirpe italica perduta. Nei primi anni Cinquanta, si era trasferito a Roma, teatro privilegiato delle sue inquiete vicende esistenziali, città da lui profondamente amata, odiata, sofferta e intensamente vissuta: “Stupenda e misera città che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota: fino a farmi scoprire ciò che, in ognuno, era il mondo.” Così scriverà in Le ceneri di Gramsci del 1957. Ora, al di là e al di fuori del tempo, dei luoghi, dei giudizi perentori e pregiudizi sommari, Pasolini è stato e rimarrà per sempre un altissimo poeta, e meglio: il poeta del rifiuto per eccellenza. E continuerà ad esserlo, anche a dispetto dei suoi più accaniti detrattori. E anche se la sua opera, la sua straordinaria poesia, non verranno più lette e ripensate e continueranno ad essere rifiutate e deprecate con sdegno, riprovazione e quello scandalo che era sua intenzione suscitare. E resterà allora un puro e semplice grande frammento sospeso, incombente e un monito severo che sarà difficile ignorare e fingere di non ascoltare.
“I resti dilaniati di quel corpo – scrive il compianto filosofo Guido Zingari – rabbiosamente e ferocemente straziato e abbandonato nel deserto di rifiuti, nella sabbia sudicia e polverosa dell’Idroscalo di Ostia, sono e saranno paradossalmente ciò che rimane per sempre della sua presenza viva e palpitante, della sua voce alta e inconfondibile, della sua scrittura profusa ed incisa con forza ed intensità nelle pieghe del tempo”.
Il mistico disprezzo del mondo, il contemptu mundi dell’ascesi medioevale, diventa, trasferito nel tempo, modello di una serena viltà e colpevole indifferenza: è il grande e inaccettabile Rifiuto. Di fronte ai due terzi di umanità che vive un’esistenza violata ed illecita, in una deprecabile melma di miseria e inedia, non si può rimanere tranquillamente a guardare dall’alto. Un inquietante senso di colpa dovrebbe accompagnarci.
Su tutto questo si afferma l’ambiguo e pur conclamato Illuminismo delle ragioni pure ed incontaminate, inaugurato in Occidente nel Settecento, ed insieme con esso la dottrina del rifiuto razziale, con il suo perverso desiderio di nitore, purezza o forse di una seconda originaria e impossibile innocenza.
È come il bianco il nitore:
racchiude tutte in sé
le sporcizie umane.
La luce e la pulizia sono adulte
noncuranze premeditate
di reiezione.
“Fiori: ecco che cosa il cuore vorrebbe offrirvi in cambio dei rifiuti”. Che un gesto d’amore prenda finalmente il posto usurpato da un ennesimo gesto di rifiuto.