Pasolini nel Duemila
di Giorgio Galli
(da Giorgio Galli, Pasolini comunista dissidente. Attualità di un pensiero politico, Kaos edizioni, Milano 2010)
Alberto Asor Rosa, storico e cattedratico della letteratura italiana, di formazione marxista, aveva pubblicato nel 1965 Scrittori e popolo, saggio su un tema caro proprio a Pasolini. Era stato molto letto in chiave sessantottina, e sembrava collocare Antonio Gramsci più vicino al populismo che al marxismo.
Asor Rosa è dunque uno studioso particolarmente attrezzato per valutare Pasolini come pensatore politico. Eppure, dopo aver rilevato che «egli descrive, con gli strumenti propri dell’analisi linguistica, una condizione peculiare, storica e profonda al tempo stesso, della nazione italiana nel suo complesso, e cioè la sua imperfetta e manchevole unità politica, e le crepe sociali non mai rimarginate, da cui essa è stata ed è tradizionalmente contraddistinta» [1], approda a questa conclusione:
Pasolini accetta fin da allora, fin dai lontani, operosi e tutto sommato “positivi” anni Cinquanta… di sperimentare tutta la durezza del contatto, del confronto, del conflitto, dell’aspra contesa con il mondo. Negli anni Cinquanta in prospettiva ancora positiva: in seguito, in maniera sempre più sconsolata, e poi sempre più disperata, fino alla tragica uscita di scena di vent’anni dopo. [2]
L’uscita di scena non è né sconsolata né disperata, se è quella del saggio per il congresso del Partito radicale. Pone, con “durezza”, i temi attuali, si è visto, sulla possibile immodificabilità dei rapporti sociali e sul ruolo degli intellettuali. Se gli intellettuali non “tradiranno” – è l’ipotesi “positiva” – i rapporti sociali potranno continuare a essere modificabili, come nella storia e, particolarmente, negli ultimi “cento anni”, quando gli intellettuali hanno svolto appieno il loro ruolo critico per annunciare e conquistare diritti civili (saldandosi a comportamenti e movimenti collettivi di masse che cominciano a capire questi diritti, anche se inizialmente non ne sanno).
Questi i giudizi di un altro autorevole prefatore, Alfonso Berardinelli:
I poveri e i senza potere non aspiravano ad avere più ricchezza e più potere, ma ad essere in tutto e per tutto come la classe dominante, divenuta culturalmente la sola classe esistente. A questi discorsi [di Pasolini] la cultura di sinistra italiana reagì con un’alzata di spalle spesso al limite dell’irrisione. Pasolini scopriva cose risapute e le caricava di enfasi… Era davvero possibile, in buona fede, scoprire solo ora la “tolleranza repressiva”, “l’Uomo a una dimensione” di Marcuse? […]
Nonostante lo schematismo concettuale, Scritti corsari resta uno dei rari esempi in Italia di critica intellettuale radicale della società sviluppata. Se non può sostituire da solo una sociologia spregiudicata… è almeno in parte riuscito a salvare l’onore della nostra cultura letteraria… E questa saggistica politica d’emergenza la vera invenzione letteraria degli ultimi anni di Pasolini. [3]
È vero che il suo pensiero politico non può sostituire, «da solo», una «sociologia spregiudicata»; tuttavia è molto di più di un fenomeno letterario che «ha salvato l’onore», o una altrettanto letteraria invenzione di «saggistica politica». Pasolini ha un pensiero politico organico in evoluzione, che è stato grave errore della cultura di sinistra l’aver considerato con superficialità.
Sempre Berardinelli amplia il discorso:
Non c’è Paese occidentale moderno nel quale la cultura letteraria e filosofica non abbia giudicato male l’avvento della modernità borghese e capitalistica… L’ossessività monotematica e il carattere testamentario di Lettere luterane ha fatto dimenticare che il libro è solo il punto culminante di una lunga serie di attacchi alla modernizzazione che nella nostra letteratura si sono moltiplicati soprattutto dopo il 1955…
In un Paese più civile e libero un libro come Lettere luterane non sarebbe stato scritto. Pasolini parla con la persuasione e l’autorità morale di chi ha la certezza di avere intorno un ceto intellettuale e politico non solo vergognosamente inadeguato ai suoi compiti, ma perfino al di sotto di un livello decente di autocoscienza. Così, uno scrittore “solo in mezzo alla campagna”, si assume il fardello di responsabilità enormi… Deve immaginare e proporre, con paradossali metafore swiftiane, che cosa è moralmente e politicamente necessario fare. È come se Pasolini dovesse surrogare da solo una classe dirigente che non c’è. [4]
Questo approccio è valido, ma ancora prevalentemente letterario. Pasolini non è l’ultimo dei critici letterari della modernità. Ha un pensiero politico che distingue, si è visto, il “Consumismo” italiano da quello, in generale, della “modernità”, la democrazia italiana da quella, in generale, della modernità. Le sue proposte di ciò che è «politicamente necessario fare» non sono solo «metafore swiftiane» (come il Processo): sono proposte precise (anche se singolari) sulla scuola e sulla tv, riformabili in vista di uno sviluppo che renda l’Italia un poco più civile e un poco più libera (magari avvicinandola alle altre democrazie continentali).
Quanto il ceto intellettuale e politico italiano sia inadeguato a questo modesto riformismo, il primo decennio del Duemila lo conferma ben più del 1975. Ma Pasolini non ha mai pensato di surrogare da solo una classe dirigente che non c’è. Puntava sul ruolo collettivo di intellettuali che non tradissero e sull’ultima generazione della sinistra italiana. Non intendeva scrivere un monito “testamentario”. Non voleva farsi massacrare a Ostia. Si preparava a proporre al congresso del Partito radicale un messaggio di critica, ma anche di implicita speranza.
L’opportunità di far uscire Pasolini dalla dimensione quasi esclusivamente letteraria, per dargli una dimensione propriamente politica, è resa necessaria e urgente dal vuoto culturale, prima ancora che politico, di quanto resta della sinistra italiana. Si potrebbe pensare che l’Italia odierna della cosiddetta Seconda repubblica (cioè la Repubblica berlusconiana) sia diventata quel Paese degradato del quale egli parlava a metà degli anni Settanta.
A proposito delle vicende italiane del 1992-93 (snodo tra la Prima e la Seconda repubblica). Sarebbe stato preferibile «sostituire il personale politico per via elettorale», come aveva auspicato Pasolini negli anni Settanta, e come avevano sperato i milioni di elettori che votavano per ridurre il potere della Dc. Ma il Pci, allora, non aveva avuto il coraggio di rispettare il mandato ricevuto. E contro quel possibile mandato, contro la sostituzione per via elettorale, forze e personaggi ai quali era riferito l’”io so” di Pasolini avevano risposto con gli attentati, le stragi, il doppio “terrorismo” nero e rosso, anticomunista e antifascista, che in parte veniva dal basso, ma che poteva manifestarsi solo dall’alto: la copertura delle stragi “nere”, la tolleranza per la lotta armata “rossa”.
Nel 1992-93 l’Italia non fu affatto attraversata «da un’ondata di ferocia», come sostenuto dalla vulgata craxiana. La magistratura milanese (pur con qualche protagonismo) non allestì affatto il Processo pasoliniano: perseguì le dilaganti corruttele di Tangentopoli. Se ne derivò l’era berlusconiana, ciò fu dovuto, oltre che all’evoluzione antropologica ben descritta proprio da Pasolini, a partire dal Consumismo da poveri e dalla tv omologante, da morti provocate dalle stragi di mafia, di magistrati e di gente comune.
Pasolini non è stato affatto un “cattivo maestro” di violenza. Se parlò poco della lotta armata di sinistra, fu perché ancora non appariva fenomeno cruciale. Le Br non spararono per uccidere sino all’oscuro episodio di Padova (giugno 1975, due missini assassinati nella sede della loro federazione). Il sequestro Sossi (aprile-maggio 1974) non aveva influito negativamente sull’esito del referendum divorzista, come temeva la sinistra, e la liberazione dell’ostaggio era sembrata cavalieresca. Le Br di Mario Moretti cominciarono a uccidere alla vigilia delle elezioni politiche del 1976. Pasolini nel 1974 poteva scrivere: «In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza, né fisica, né morale. C’è una sola eccezione. Si tratta di una decina d’anni fa. Per strada un gruppetto di fascisti mi ha aggredito. C’erano con me dei giovani compagni. Abbiamo risposto con altrettanta violenza ed essi hanno battuto in ritirata».
Dunque Pasolini non fu un cattivo maestro, ma un buon maestro. Lo si può dimostrare proprio da una constatazione di Berardinelli: «Chi ha preso in considerazione un libro come Lettere luterane? Forse Norberto Bobbio o Rossana Rossanda? Luigi Pintor o Ernesto Galli della Loggia? Massimo D’Alema o Gianni Vattimo?» [5]. È vero. Le figure eminenti della sinistra italiana non lo hanno preso in considerazione. È un essere in debito. Lo si può ripagare solo cercando di capire quello che il buon maestro può insegnarci oggi. Egli stesso ci dà un’indicazione, dopo aver espresso il timore di rapporti sociali immodificabili. È una frase che ho già citata coi «partiti marxisti» ridotti «ad una funzione social-democratica, sia pure, dal punto di vista storico, completamente nuova».
Credo sia una possibilità da approfondire, capovolgendone il segno da negativo in positivo. Nel nuovo secolo i partiti marxisti della Seconda internazionale si sono evoluti in socialdemocratici. Altrettanto è accaduto per i partiti comunisti della Terza internazionale. Questa evoluzione ha ampliato i diritti della democrazia rappresentativa. Si tratta dei diritti politici e civili. E qui la socialdemocrazia si è fermata. È nell’impasse.
È possibile, riallacciandosi al concetto marxiano del rapporto economia-politica, estendere questi diritti al controllo del potere economico, dei big players delle multinazionali? Quando Pasolini parla di «funzione socialdemocratica completamente nuova», è compatibile procedere, col suo pensiero, in questa dirczione? Non con pianificazioni totalizzanti, che pur si sono mosse sulla scorta di Marx, ma con l’estensione del diritto di voto, base della democrazia rappresentativa, oggi svuotato perché limitato alla sfera politica?
Se l’articolo “Io so” portava al Processo, la nuova funzione storica della socialdemocrazia, nell’ambito del pensiero liberale, non potrebbe portare al kantiano jus cosmopoliticum? Vi avrebbe pensato Pasolini, se avesse potuto continuare a pensare dopo lo scritto per il congresso del Partito radicale? [*] Forse è possibile ipotizzarlo. È questa la connessione tra il suo dubbio circa il ruolo degli intellettuali, e l’Appendice di questo libro [**]. Perché oggi le lucciole pasoliniane sono proprio scomparse, nonostante il parere contrario dell’ultima autorevole personalità a occuparsi di Pasolini, il francese filosofo e storico dell’arte Georges Didi-Huberman, che aveva scorto le lucciole al Pincio «ancora all’inizio degli anni Novanta», le suppone «trasecolate nel vialetto degli aranci di Villa Medici», e che sostiene: «II compito che incombe su di noi è questo: rifuggire dai riflettori e cercarle nella notte» [6].
Certo, qualche comunità di lucciole sopravvive: ma sono sparute eccezioni. La metafora di Pasolini è più che mai realtà. È giusto rifuggire dai riflettori. Ma perché le lucciole tornino ovunque, è necessario un pensiero forte: quello che indichi come controllare il vero Potere.
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1 A. Asor Rosa, Prefazione a Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1994, pag. XIII.
2 Ibidem, pag XXI.
3 A. Berardinelli, Prefazione a Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990, pagg. X-XII.
4 A Berardinelli, Introduzione a Lettere luterane, Garzanti 2003, pagg. IX-XIII.
5 Lettere luterane, cit, pag. VIII.
6 Le lucciole di Pasolini non sono scomparse, «La Repubblica», 16 settembre 2009. Cfr. G. Didi-Huberman, Come le lucciole: una politica della sopravvivenza, Bollati Boringhieri 2010.
[*] Il testo dell’intervento che Pier Paolo Pasolini avrebbe dovuto tenere alCongresso del Partito radicale del novembre 1975 poté essere solo letto, davanti ad una platea sconvolta e muta, perché due giorni prima Pasolini moriva ucciso. L’intervento è tratto dal “Numero unico” pubblicato dal Partito radicale per il suo 35° Congresso, Budapest, aprile 1989: il testo dell’intervento risulta, in tale “Numero unico”, riportato soltanto parzialmente, con alcuni “omissis”. Ma in pasolini.net tale contributo pasoliniano viene proposto nella sua versone integrale (dai Meridiani Mondadori). L’intervento venne letto al Congresso 1975 del Partito radicale da Vincenzo Cerami.
C’è un grave pericolo – ci avverte il poeta e saggista – che incombe sul Partito radicale proprio per i grandi successi ottenuti nella conquista dei diritti civili. Un nuovo conformismo di sinistra si appresta ad appropriarsi della vostra battaglia per i diritti civili “creando un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo”. Proprio la cultura radicale dei diritti civili, della Riforma, della difesa delle minoranze sarà usata dagli intellettuali del sistema come forza terroristica, violenta e oppressiva. Il potere insomma si accinge ad “assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici”. La previsione di Pasolini si è avverata, non solo in Italia, ma nel resto della società occidentale dove, proprio in nome del progressismo e del modernismo, si è affermata una nuova classe di potere totalizzante e trasformista, di certo più pericolosa delle tradizionali classi conservatrici.
[**] Il titolo dell’Appendice è Ipotesi di cambiamento e si trova alle pagine 123-181 del libro di Giorgio Galli.