Pasolini e la parola, di Marco Antonio Bazzocchi

Pasolini e la parola
di Marco Antonio Bazzocchi

«Bollettino ‘900» – http://www.comune.bologna.it

Negli anni Sessanta Pasolini rievoca, annullandolo, il mito romantico della parola primigenia: si tratta di un ricordo d’adolescenza, quando in un pomeriggio estivo risuona nella casa dei vicini di Casarsa la parola “rosada”, cioè “rugiada”, termine dialettale ma contemporaneamente colto, letterario, carico di memorie ma anche innocente: parola ancora orale che il poeta per primo trascrive sulla pagina, facendone l’inizio di una poesia. Questa poesia però è andata persa, al suo posto si formano le altre «a Casarsa»: l’origine del linguaggio è cancellata, ne rimane solo una memoria impossibile.
Inizia così un interminabile lavoro di recupero e di scavo: scavo nella tradizione dialettale e popolare, studio della poesia colta, dai simbolisti agli ermetici (che per Pasolini formano un unico blocco). Una parola “bassa”, dunque, ed una parola “alta”, quasi in anticipo su quello che Contini dirà di un poeta amato e studiato, Pascoli. E Pascoli (con dietro Leopardi e Tommaseo) diventerà il filtro di tutta l’esperienza poetica novecentesca, esperienza che Pasolini legge come lotta ininterrotta tra una parola del centro ed una parola della periferia, in un processo di osmosi continua. Il binomio Passione e ideologia che dà titolo ad una delle indagini poetiche più importanti del nostro Novecento traduce anche un rapporto tra lingua minore, dialetto, corporeità (quello che Zanzotto oggi chiamerebbe soma-psiche), e lingua maggiore, appunto idea, razionalità.
Nelle Ceneri di Gramsci tutto questo produce una torsione esasperata tra voce poetica (Soggetto) e mondo, torsione che porta alla famosa tecnica della sineciosi, per cui ogni oggetto viene definito da un contrasto esasperato di attributi (esemplare il «stupenda e misera città» riferito a Roma, luogo generatore dell’intera raccolta). Ma la sineciosi è un modo per risalire ancora una volta ad una parola primigenia, parola che contiene la compresenza degli opposti e non può trovare mai fissazione grafica, fin quasi all’autodistruzione.
In Dal Laboratorio (Appunti en poète per una linguistica marxista), il saggio del ’65 di cui sopra, si arriverà alla teorizzazione della lingua italiana come struttura che “tende” ad essere un’altra struttura: «La mia lingua non consiste dunque in una struttura stabile, ma vive la inquietudine motoria, il bisogno di metamorfosi di una struttura che vuol essere altra struttura» (il che andrebbe tenuto presente per capire il parlato di molti film di Pasolini, parlato che si fonda su un doppiaggio fortemente straniato e connotato dialettalmente: qualcosa di simile, anche se in direzione opposta e più letteraria, farà Fellini).
La parola orale diventa dunque un fantasma, e questo fantasma percorre l’intera attività di Pasolini scrivente, scrivente sia con segni grafici che con immagini. Solo così si può capire l’effetto di parola e immagine “estrema”, verrebbe da dire “funeraria”, che proviene dalle sue opere, e quell’atmosfera da “dopo-storia” che pervade sia il Salò-Sade che Petrolio, dove ad una esibizione strutturale esasperata si uniscono modi allegorici da sacra rappresentazione sul fondo di un dramma cosmico (e l’atmosfera ha qualcosa in comune anche con i Fratelli d’Italia di Arbasino, vecchi e nuovi: fenomeno da meditare meglio quando si dibatte sulla “situazione attuale” e non ci si rende conto che molto era già preannunciato in opere degli anni Settanta, soprattutto per quel che riguarda gli sfaceli sociali e ambientali – da tenere ben uniti – che forse riusciremo a rimediare con anni e anni di fatiche, anche letterarie).

«Bollettino ‘900» – Electronic Newsletter of ‘900 Italian Literature
n. due-tre, dicembre 1995 – 1996, n. 1