Il testo che presentiamo è la registrazione, avventurosamente ritrovata nel 2011 e fino ad allora inedita in Italia, dell’incontro di Pier Paolo Pasolini, il 30 ottobre 1975 a Stoccolma, con un gruppo di critici cinematografici svedesi. Riprendiamo la trascrizione apparsa il 16 dicembre 2011 sull’”Espresso”, insieme ad un commento di Paolo Fantauzzi e alla testimonianza di Carl Henrik Svenstedt, autore dello straordinario ritrovamento, apparsi sul periodico in quella occasione .
Un documento eccezionale: l’intervista a Pasolini a Stoccolma il 30 ottobre 2015
www.espresso.repubblica.it – 16 dicembre 2011
Cosa conosce del cinema svedese?
Come tutti gli altri intellettuali italiani, conosco Bergman. Non conosco gli altri. Conosco i nomi ma non i film.
Mai visti?
Mai. Perché a Roma è una città terribile. Ci sono cinema d’essai ma le occasioni per vederli sono molto rare.
Non avete cinema d’essai?
Ci sono uno o due cinema d’essai ma non è come a Parigi.
Signori e signore, il signor Pasolini è qui per presentare il suo nuovo film. Lo ha appena terminato, ed è un film su Sodoma…
Penso che sia la prima volta che faccio un film di cui non ho avuto un’idea. Era stato proposto a Sergio Citti e come sempre l’ho aiutato a scrivere la sceneggiatura. Ma man mano che andavamo avanti , Citti amava sempre di meno il film e io l’amavo sempre di più e l’ho amato soprattutto nel momento in cui mi è venuta l’idea di ambientarlo nel ’45, durante gli ultimi mesi della Repubblica di Salò. D’altra parte Citti ha pensato a un altro soggetto e allora ha abbandonato definitivamente il progetto. E poiché del progetto m’ero innamorato io, l’ho finito io. Questo film, essendo tratto da de Sade, è imperniato sulla rappresentazione del sesso. Ma la cosa è cambiata rispetto ai tre ultimi film, a quella che io chiamo la “trilogia della vita”: Boccaccio (Il Decameron, ndr.), I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte. In questo film il sesso non è altro che l’allegoria, la metafora della mercificazione dei corpi attuata dal potere. Penso che il consumismo manipoli e violenti i corpi né più né meno che il nazismo. Il mio film rappresenta questa coincidenza sinistra tra consumismo e nazismo. Ecco, non so se questo sarà capito dal pubblico perché il film si presenta in un modo enigmatico, quasi come una sacra rappresentazione, dove la parola sacra ha il senso latino anche di maledetta.
Perché ha scelto il 1945 per il film?
Ho voluto rappresentare un mondo alla fine, non nel momento di maggior gloria. È una ragione poetica. Avrei potuto ambientarlo nel ’38, nel ’39, nel ’37, però sarebbe stato meno poetico.
Cosa c’è di poetico in quel periodo?
Una decadenza, un crepuscolo sono di per se stessi poetici. Se io l’avessi ambientato nell’apogeo del nazismo, sarebbe stato un film intollerabile. Sapere che tutto questo avviene negli ultimi giorni, che poi tutto questo sarebbe finito, dà un senso di sollievo allo spettatore. In sostanza questo film è un film sulla vera anarchia, che sarebbe l’anarchia del potere.
Lei è un cineasta e un poeta. C’è una relazione fra questi due ruoli?
C’è un’unità profonda fra le due cose per quel che mi riguarda. Sarebbe come se io fossi uno scrittore bilingue.
Qual è il titolo del film?
Il titolo è Salò, il nome di una città sul lago di Garda che era la capitale della Repubblica fascista. Ma è un titolo polivalente, c’è un’ambiguità: il titolo completo sarà Salò o le 120 giornate di Sodoma. Ad ogni modo nel film non c’è nessuna ricostruzione storica dell’epoca, nessun rapporto veramente storico: non c’è nessun ritratto di Mussolini, non fanno mai il saluto fascista, non c’è niente di ricostruito. È soltanto dato.
Come finanzia i suoi film? I suoi film in Italia hanno successo economico?
Il finanziamento è quello normale, c’è un produttore.
Non ha problemi?
Non ho problemi perché sono andati male commercialmente solo Porcile e Medea. Tutti gli altri sono andati bene. Accattone, l’importante è stato quello, non è andato benissimo ma abbastanza bene per un esordiente. E da allora non ho mai avuto problemi.
Lavora del tutto all’interno del sistema commerciale?
Sì, completamente.
Questo vuol dire che è possibile fare film molto personali e anche molto poetici all’interno del sistema?
Sì, in Italia è possibile. Non lo faccio solo io, anche Fellini per esempio.
Ma lei e Fellini siete molto noti. Per un giovane di 25 anni che voglia fare un film del genere sarebbe possibile?
È difficile per un giovane, ma come in tutte le professioni, come anche per un giovane medico. Nella maggior parte dei casi sono gli stessi registi che aiutano dei giovani a fare un film. Per esempio Bertolucci il primo film gliel’ho fatto fare io. Forse Bergman, se avesse fiducia in un giovane, potrebbe fargli fare un film, suppongo.
Visto che ha la possibilità di realizzare i film all’interno del sistema, come sceglie i suoi soggetti? Ha le stesse libertà di quando scrive una poesia o deve anche pensare al pubblico? Non è un problema?
Questo non è un problema morale, politico o pratico. È un problema estetico, cioè fa parte della metrica e della prosodia di un film il fatto di possedere un certo grado di leggibilità, di semplicità. Voglio spiegarmi meglio: prendiamo il caso estremo di un film assolutamente di avanguardia, cioè “illeggibile” come direbbe Philippe Sollers, oppure un testo letterario assolutamente di avanguardia. Ebbene fra i due è più leggibile il film. C’è una maggiore semplicità, una maggiore capacità di essere letto che è insita nella tecnica stessa del cinema.
Senza successo commerciale è possibile comunque in Italia continuare a fare film?
Delle volte succede che pur non avendo un certo successo si può ritentare purché l’insuccesso sia soltanto commerciale e nel film fatto si noti una certa qualità.
Ha detto addio per sempre al realismo dei suoi primi film?
Non sono d’accordo su questo fatto. Hanno dato finalmente in Italia, dopo quindici anni, Accattone alla tv. Ci siamo resi conto che non è affatto un film realistico, è un sogno, è onirico”.
In Italia non si è creduto che fosse realista?
Sì, ma è stato un equivoco. Quando l’ho fatto, sapevo di fare un film lirico, non dico onirico come appare adesso ma molto lirico. Non per niente ho fatto quel commento musicale, l’ho girato in quel modo. Poi è successo questo: che il mondo realistico da cui ho tratto Accattone è caduto, non esiste più, quindi Accattone è un sogno di quel mondo”.
Mamma Roma è realista…
Mamma Roma è un po’ più realista di Accattone, forse. Adesso lo dovrei rivedere. Però è meno bello, è meno riuscito, proprio perché è meno onirico.
Qual è la sua formazione cinematografica?
Non c’è. È stata quella di uno spettatore, ma ho cominciato subito con due grandi precisi amori che continuano ancora: da una parte Charlot e dall’altra Kenzo Mizoguchi, un regista giapponese morto quindici anni fa (in realtà era morto nel 1956, ndr.). Sono i due poli al cui interno avviene tutto nei miei film. Infatti tutti i miei film sono sempre una mescolanza di quello che gli stilisti chiamano comico e sublime, come categorie stilistiche. Anche nell’Edipo re, che dovrebbe essere tutta un’opera ad altezza stilistica e tecnica sublime, serpeggia invece dentro il comico. Io, infatti, ho sempre assunto nel cinema la realtà come un elemento stilistico comico. Ma bisogna stare attenti: non diamo alla parola “comico” il senso corrente.
Lei è stato scrittore, lo è ancora. Come ha deciso di fare cinema?
La cosa ha radici lontane. Quando ero ragazzo, avevo 18-19 anni, per un momento ho pensato di fare il regista. Poi è venuta la guerra e questo ha tagliato per lunghi anni ogni possibilità e ogni speranza. E poi ci sono state delle circostanze: dopo che ho pubblicato il mio primo romanzo, Ragazzi di vita, che ha avuto successo in Italia, sono stato chiamato per fare delle sceneggiature. Quando ho girato Accattone, era la prima volta che toccavo una macchina da presa. Non aveva fatto mai neanche una fotografia e neanche adesso so fare una fotografia.
Per l’avvenire come si vede: di più nella letteratura o nel cinema?
In questo momento penso di fare ancora un film o due e poi ridarmi completamente alla letteratura.
È sincero?
In questo momento sono sincero, spero di essere sincero.
Girare dei film è fisicamente faticoso? Sembra comunque che sia più piacevole farlo in Italia. Gli italiani si divertono di più?
Mi diverto molto, è un gioco meraviglioso. È molto faticoso, per me poi che faccio anche l’operatore di macchina, perché tengo sempre la macchina in mano, faccio le inquadrature. Quindi è faticoso anche muscolarmente, però è un divertimento enorme.
La vostra troupe com’è? C’è molta gente?
No, è la più piccola possibile.
Gira sempre in 35 mm?
Sempre in 35 mm.
Ci vuole molto a imparare?
In un quarto d’ora si impara tutto.
Lei preferisce attori non professionisti. Come lavora? Cerca un ambiente e quando trova quello poi sceglie le persone?
Non è esattamente così. Se io faccio un film di ambiente popolare, prendo gente del popolo, cioè non professionisti, perché credo sia impossibile per un attore borghese fingere di essere un operaio o un contadino. Suonerebbe falso in modo intollerabile. Se invece faccio un film d’ambiente borghese, poiché non posso chiedere a un ingegnere, un medico o un avvocato di venire a fare l’attore per me, prendo attori professionisti. Naturalmente parlo dell’Italia e dell’Italia di dieci anni fa. Se fossi in Svezia probabilmente prenderei sempre degli attori perché non c’è più differenza tra un borghese e un operaio in Svezia. Parlo di un fatto fisico. In Italia c’è una differenza come tra un bianco e un nero.
Nei suoi ultimi film non ci sono elementi religiosi, giusto?
Non sono tanto sicuro che non ci fossero elementi religiosi nei miei ultimi film. Nelle Mille e una notte c’era anche una specie di afflato religioso in tutto il film. Non c’era religiosità confessionale, temi religiosi diretti ma una situazione di mistero e di irrazionalità c’era. Tutto l’episodio di Ninetto, che è la parte centrale delle Mille e una notte…”.
Ha partecipato al dialogo fra cattolici e marxisti in Italia?
Non ci sono più i marxisti e i cattolici in Italia, non ci sono più cattolici in Italia.
Ci spieghi allora come è la situazione.
In Italia è avvenuta una rivoluzione ed è la prima nella storia italiana perché i grandi Paesi capitalistici hanno avuto almeno quattro o cinque rivoluzioni che hanno avuto la funzione di unificare il Paese. Penso all’unificazione monarchica, alla rivoluzione luterana riformistica, alla rivoluzione francese borghese e alla prima rivoluzione industriale. L’Italia invece ha avuto per la prima volta la rivoluzione della seconda industrializzazione, cioè del consumismo, e questo ha cambiato radicalmente la cultura italiana in senso antropologico. Prima la differenza tra operaio e borghese era come tra due razze, adesso questa differenza non c’è già quasi più. E la cultura che più è stata distrutta è stata la cultura contadina, che allora era cattolica. Quindi il Vaticano non ha più alle spalle questa enorme massa di contadini cattolici. Le chiese sono vuote, i seminari sono vuoti, se lei viene a Roma non vede più file di seminaristi che camminano per la città e nelle ultime due elezioni c’è stato un trionfo del voto laico. E anche i marxisti sono stati cambiati antropologicamente dalla rivoluzione consumistica perché vivono in altro modo, in un’altra qualità di vita, in altri modelli culturali e sono stati cambiati anche ideologicamente.
Sono marxisti e consumisti al contempo?
C’è questa contraddizione, tutti coloro che sono sia dichiaratamente marxisti, sia che votano per i marxisti sono al tempo stesso consumisti. Non soltanto, ma il Partito comunista italiano ha accettato questo sviluppo.
Ma quando parla di marxisti parla del Partito comunista o di altre fazioni?
Ma sì, dei comunisti, socialisti, degli estremisti. Per esempio gli estremisti italiani gettano delle bombe e poi la sera guardano la televisione, “Canzonissima”, Mike Bongiorno.
Le società di classe c’è ancora?
Le classi ci sono ma – è questo il punto originale dell’Italia – la lotta di classe è sul piano economico, non più sul piano culturale. Adesso la differenza è economica tra un borghese e un operaio, ma non c’è più differenza culturale fra i due.
E il nuovo movimento fascista?
Il fascismo è finito perché si appoggiava su Dio, famiglia, patria, esercito, tutte cose che adesso non hanno più senso. Non ci sono più italiani che di fronte alla bandiera italiana si commuovono.
C’è un disfacimento comunque della società italiana di oggi, vero?
Considero il consumismo un fascismo peggiore di quello classico, perché il clerico-fascismo in realtà non ha trasformato gli italiani, non è entrato dentro di loro. È stato totalitario ma non totalizzante. Solo un esempio vi posso dare: il fascismo ha tentato per tutti i vent’anni che è stato al potere di distruggere i dialetti. Non c’è riuscito. Invece il potere consumistico, che dice di voler conservare i dialetti, li sta distruggendo.
Crede che ci sia un certo equilibrio tra le forze diverse?
C’è un equilibrio caotico.
A cosa è dovuto il caos?
Alla crisi di “crescenza” dell’Italia, che è passata rapidamente da Paese sottosviluppato a Paese sviluppato. Tutto questo è avvenuto nell’arco di cinque, sei, sette anni. Sarebbe come prendere una famiglia povera e farla diventare miliardaria, perderebbe la propria identità. Gli italiani sono in un momento di perdita dell’identità. Tutti gli altri Paesi invece o sono già sviluppati e hanno cominciato uno sviluppo graduale da almeno due secoli o sono come il Terzo mondo, pre-sviluppati.
Faccia una profezia, sia Tiresia. C’è speranza nel futuro?
Dovrei fare Cassandra più che Tiresia. Ho chiesto oggi a dei ragazzi svedesi con cui ho parlato, ho fatto loro questa domanda: voi vi sentite ancora più vicini alla civiltà umanistica o vi sentite già dentro la civiltà tecnologica? E mi pare che loro abbiano risposto, piuttosto tristemente, che si sentono la prima generazione di una trentina di generazioni diverse da quello che è stato fino adesso. E per concludere. Tutto quello che ho detto, l’ho detto a titolo personale. Se voi parlerete con altri italiani vi diranno: “Quel pazzo di Pasolini”.
La storia di questo nastro
di Paolo Fantauzzi
(“L’Espresso” – 16 dicembre 2011)
Non fosse stato per la meticolosità con cui Carl Henrik Svenstedt conserva i suoi nastri, la voce di Pasolini non sarebbe mai saltata fuori. Persa per sempre. E’ invece proprio la cura con cui questo ex giornalista della radio svedese ha catalogato centinaia di registrazioni e interviste raccolte nel corso degli anni che l’intervento (uno degli ultimi, seguito da un’intervista alla tv francese, a una a Furio Colombo), a Stoccolma poco prima di essere ucciso, è tornato alla luce dopo decenni di oblio.
Siamo agli ultimi giorni di ottobre 1975. La circostanza che porta il poeta in Svezia è la traduzione de Le ceneri di Gramsci: il 28 è all’Istituto italiano di cultura per la presentazione del volume, poi a una tavola rotonda allo Svenska Filminstitutet su invito dell’associazione dei critici svedesi. All’incontro partecipa il gotha dei giornalisti di cinema del Paese. Come è riuscito a ricostruire “l’Espresso”, fra i tanti, Stig Bjõrkman, Nils-Petter Sundgren, responsabile della programmazione cinematografica della tv di Stato, Jonas Sima, futuro regista di documentari di successo, il poeta Jan Olov Ullén.
Per oltre un’ora il regista risponde alle domande. Sveriges radio decide di registrare la conferenza per farne un programma nei giorni seguenti, anche se l’omicidio dell’Idroscalo avrebbe costretto a rivedere il proponimento. Nel 1981 il nastro è ancora negli archivi dell’emittente e viene riproposto per una trasmissione, ma da questo momento se ne perde traccia. Finché Svenstedt non lo ritrova. Quando chiacchierando con un’amica ha saputo che l’originale era andato perso, Svenstedt non si è perso d’animo: è sceso in cantina, ha rovistato fra i mille nastri conservati. La registrazione è saltata fuori. Il nastro è stato poi donato, alla fine dell’ottobre scorso, all’Istituto italiano di Cultura di Stoccolma. Il suono è imperfetto, per questo ancora più vero: si sentono i rumori delle sedie e dei bicchieri, i commenti a mezza bocca pronunciati al microfono. “Furono tre giorni splendidi, di gioia”, ricorda Ninetto Davoli, anche lui a Stoccolma in quell’occasione. “Pier Paolo si era portato un completo gessato di cui andava orgoglioso e io lo prendevo in giro per la sua eleganza. Gli piaceva così tanto che volli che indossasse quel vestito anche per il suo ultimo viaggio, appena qualche giorno dopo”.
Quel giorno di Ognissanti
di Carl Henrik Svenstedt*
Il giornalista, scrittore e cineasta racconta l’avventuroso ritrovamento del nastro dell’intervista concessa da Pier Paolo Pasolini
(“L’Espresso” – 16 dicembre 2011)
Era la mattina di Ognissanti. Siamo scesi in città molto presto attraverso Porta Pinciana. La luce era alta sopra Villa Borghese, le scimmie urlavano nel giardino zoologico. Ma c’era anche uno strano silenzio. In piazza del Popolo, piccoli gruppi di persone si addensavano intorno all’edicola, ammutoliti. I titoli dei giornali urlavano: “Pasolini ammazzato!”. Un colpo al cuore per molti. La poesia era stata la loro ultima linea di difesa contro il male, e adesso anche questa era stata travolta. I nemici erano entrati nel cortile di casa. Sentivo il mio corpo contratto come un singolo muscolo. Mia moglie italiana, cominciò a imprecare: “Andiamocene da qui. Andiamo via da questo paese di merda!”. Tornammo a Stoccolma il 3 novembre. Il mio collega della radio mi consegnò un nastro magnetico.
“Questa è una registrazione della conferenza di Pasolini alla Casa del Cinema”, disse. Ascoltai la sua voce discreta – sembrava stanco da morire. Poi scrissi queste righe per il mio nuovo romanzo. Il nastro scomparve nella nostra cantina per i successivi 36 anni. Avevo incontrato Pasolini per la prima volta alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro organizzata da Lino Micciché nel 1967. Pier Paolo aveva tenuto in quell’occasione un Discorso sul piano-sequenza ovvero il cinema come semiologia della realtà, partendo dal filmato dell’omicidio di Kennedy.
Resta ancora uno dei commenti più belli e importanti sul cinema poetico. Ci incontrammo in seguito un paio di volte in questi anni, alla Mostra di Venezia per la prima di Medea, e nella sua casa all’Eur quando stavamo lavorando alla sua traduzione in svedese (poi seguita da Porcile). Pubblicai anche una scelta delle sue poesie, Linee terrestri (tradotte da Jordiska Rader). C’era la sua piccola vecchia madre, Susanna, che cinque anni dopo avrebbe seguito la sua bara come la Maria della Bibbia. Dieci anni dopo andammo a Casarsa. Sono stati seppelliti l’uno accanto all’altra nel suo quieto cimitero. Non c’era posto per un padre. Il nostro spazio condiviso era la poesia visiva, in versi e sullo schermo cinematografico. Pier Paolo è stato amato e riverito in Svezia molto precocemente. Lo consideravamo il più grande poeta italiano del dopoguerra.
*giornalista, scrittore e cineasta
traduzione di Mario Baccianini