Luca Ronconi si è spento a Milano nella notte del 21 febbraio 2015, a seguito di una complicazione virale che ha aggravato i problemi ai reni di cui soffriva da tempo. Avrebbe compiuto a breve 82 anni, essendo nato a Susa, in Tunisia, l’8 marzo 1933. Con lui scompare uno dei più grandi maestri al mondo della regia teatrale, un artista rinascimentale, un signore della scena e una personalità della cultura italiana “dalla statura senza pari”, come ha ricordato Renato Palazzi sulle pagine domenicali del “Sole24ore” del 22 febbraio 2015.
Ha diretto la Biennale Teatro nel 1975-76, il Laboratorio di Prato dal 1976 al 1979, il Teatro Stabile di Torino dal 1989, lo Stabile di Roma dal 1994 e infine, subentrando nel 1999 a Giorgio Strehler, è approdato al Piccolo di Milano come regista stabile. Per quest’ultimo teatro ha diretto da poco con un’energia creativa di freschezza ancora incredibile la grandiosa messinscena della pièce di Stefano Massini Lehman Trilogy, guidando un’ultima leva di attori cresciuti alla sua scuola dal nitore inconfondibile (tra questi, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni e Massimo De Francovich).
“Se Strehler –commenta a caldo Maurizio Porro (“Il Corriere della Sera”, 22 febbraio, p.34)- aveva incarnato il teatro nella sua essenza d’arte, artigianale e poetica, come luogo esclusivo di palcoscenico, Ronconi […] ha sempre sognato e spesso realizzato un teatro che uscisse dai suoi confini, per unirlo in matrimonio con le altri arti”. Come con la letteratura, di cui allestì molti capolavori romanzeschi rispettati alla lettera [Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda (1996), I fratelli Karamazov di Dostoevskij (1998), Lolita di Nabokov (2001), Fahrenheit 451 di Bradbury (2007), Pornografia di Gombrowicz (2014)], in funzione di una scena “narrativa”, ma non brechtiana, che dilatava e smontava lo spazio e il tempo in serate fiume e, talora, con stupefacenti macchine sceniche intrasportabili.
Impossibile stilare l’elenco delle centinaia di spettacoli (anche all’opera) sostenuti dalla passione assoluta di questo gigante della creazione teatrale del Novecento. A partire dal debutto con Orlando furioso nel 1969 a Spoleto, su riduzione di Eduardo Sanguineti -una spettacolare festa rinascimentale di piazza-, restano memorabili tanti lavori: dall’immane Ignorabimus di Arno Holz (tutta la notte, con un vero edificio in muratura ricostruito dentro il Fabbricone di Prato, 1986) al leggendario Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus (al Lingotto di Torino nel 1990, con veri treni su binari e oltre sessanta attori) o a Infinities, regia capolavoro su un testo scientifico dell’astrofisico John D. Barrow (al Piccolo, 2002).
Piace ricordarlo qui anche per il fertile rapporto con la drammaturgia di Pasolini, in particolare per le tragedie in versi Pilade, Affabulazione e Calderón (di quest’ultimo Ronconi fu il primo allestitore). Fu lui stesso a commentare quelle sue esperienza pasoliniane in una video-intervista che fu rilasciata il 28 ottobre 2010 ad Angela Felice e Marco Rossitti nella sua casa umbra e che, sistemata poi come contributo, è stata pubblicata nel volume Pasolini e il teatro, edito da Marsilio nel 2012 per la cura di Stefano Casi, Angela Felice e Gerardo Guccini (pp. 369-372). Una testimonianza, la sua, che va ben oltre un ricordo d’artista e si fa quasi lezione esemplare sul modo in cui il regista si rapportava al testo e ne scavava il senso e il motore da incarnare nello spazio e nel corpo/parola degli attori.
Ambiguità e teatralità di Pasolini
di Luca Ronconi
Credo di essere stato il primo a mettere in scena le opere teatrali di Pasolini, in cui prediligo particolarmente, come le più riuscite o perlomeno le più interessanti, Calderón e Pilade, un testo, quest’ultimo, su cui tra l’altro sto lavorando ora con gli allievi di teatro al Piccolo di Milano.
Posso anche dire che sono stato uno dei primi lettori del teatro di Pasolini, dato che, già alla fine degli anni Sessanta, credo, Laura Betti mi fece leggere una prima commedia, Storia interiore, che non mi era per niente dispiaciuta. Era un testo un po’ contorto su un prete che sogna, che si trasforma …
Tra i primi allestitori, sta naturalmente a parte lo stesso Pasolini, che ci aveva già pensato nel 1968 con la messa in scena di Orgia, a Torino. Quella anzi fu l’occasione in cui vidi per la prima volta un spettacolo tratto da un suo testo.
Devo poi aggiungere che Pasolini è proprio uno degli autori che ho frequentato di più, dato che ho messo in scena sia Calderón, in due versioni, che Pilade e Affabulazione. E’ abbastanza curiosa la doppia esperienza con Calderón, frequentato a molta distanza di tempo: la prima volta al Laboratorio di Prato, dove fu rappresentato nel 1978, dopo un lavoro iniziato nel 1976, con un gruppo di attori sia giovani che più maturi; la seconda volta, a Torino, nel 1993. Ebbene, negli anni Settanta, per un giovane interprete di venticinque anni, la memoria del Sessantotto era ancora fresca e faceva parte della sua esperienza. Non così negli anni Novanta, in cui del Sessantotto i ventenni non sapevano assolutamente nulla. E invece è stato molto interessante verificare come Pasolini riusciva a comunicare ancora la sua critica al capitalismo a degli attori di generazioni molto successive. Il che può chiamare in causa una delle caratteristiche forti di Pasolini, ossia il suo sguardo profetico sul dopo.
Per le mie esperienze teatrali con Pasolini, devo ricordare ancora che nel 1996, a Roma, ho curato un’opera in musica tratta da Teorema, sulla partitura di Giorgio Battistelli. Ultimamente mi ero anche molto interessato a una trasposizione teatrale di Petrolio, ma, con mio rammarico, non ne ho avuto la possibilità, per la mancata autorizzazione da parte degli eredi. E, ancora, mi attrae molto l’idea di una possibile trasposizione teatrale di Salò, per il suo coraggio e la sua struttura, che prevede quattro figure che raccontano e una serie di quadri. Ma anche questa idea è impraticabile, senza dire che la parola “attrarre” è impropria, perché attirare può implicare anche una forma di repulsione.
I rapporti di Pasolini con il teatro sono sempre stati quanto meno non nitidi. E innanzitutto bisogna dire che Pasolini non apprezzava il linguaggio teatrale. Sulla sua idea di messinscena, di comunicazione teatrale attraverso la rappresentazione dei suoi spettacoli, ha lasciato degli scritti molto espliciti. Devo anche dire che la sua prova come regista di Orgia nel 1968 non rendeva giustizia all’autore. Altre messinscene di quel testo, come ad esempio nel caso di Massimo Castri, erano indubbiamente molto più efficaci e significative di quella che io vidi fatta dall’autore secondo i suoi dettami, cioè con assenza di interpretazione e pura dizione. Quel lavoro, realizzato così, non si reggeva proprio in piedi.
Penso tuttavia che, se Pasolini avesse visto le nostre rappresentazioni, non le avrebbe approvate. In verità questo succede quasi sempre tra autori e interpreti o realizzatori, perché qualsiasi letterato nutre una grande diffidenza verso l’autonomia della rappresentazione. E molto spesso gli autori sentono la figura dell’attore come una interferenza, come un’invasione di campo in ciò che essi perseguono, e cioè nel rapporto diretto tra l’autore e il lettore.
Dico tutto questo per ribadire che io, mentre non condivido quasi niente del Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, sono stato invece profondamente appassionato dai suoi testi. E che cosa mi appassiona in essi?
Innanzitutto, la loro ambiguità. Alludo qui soprattutto a Pilade e Calderón, che ho frequentato di più rispetto ad Affabulazione, tra l’altro messo in scena una sola volta e inoltre secondo una versione volutamente ed estremamente da teatro borghese, che facesse risaltare tutto lo iato tra l’aspirazione alla tragedia e la matrice sociale di quelle figure e di quei personaggi. Negli altri due testi, invece, il fulcro è l’ambiguità di cui parlavo e che è così presente in tante opere di Pasolini, anche in Petrolio, che appunto per questo mi sarebbe interessato realizzare. E’ quella dicotomia o, meglio, divisione in due parti della figura centrale che è la matrice non solo di Petrolio, ma anche di Pilade o addirittura, come scissione in tre parti, di Calderón, mentre è meno evidente in Orgia e in Bestia da stile. Può essere una ambiguità di fondo o una dialettica interna, al punto che a volte non si riesce a decidere se una cosa è quella o un’altra. E’ la contraddittorietà, l’essere pro e contro la stessa cosa che mi interessa: un doppio di cui, come scissione ideologica, vedo l’ esempio, in Pilade, nel rapporto tra Pilade e Oreste.
Le opere di Pasolini, in sostanza, hanno una loro teatralità, che è data soprattutto dalla loro discontinuità. Molto spesso sono degli apologhi, ma però non hanno la concisione dell’apologo; sono dimostrative di qualcosa, ma all’interno contengono anche la sua confutazione. Hanno insomma una congenita teatralità, che consiste proprio nella dissoluzione in tante figure della soggettività, dell’io narrante. Spesso si sente dire, ed è verissimo, che non esistono belle commedie o bei testi teatrali autobiografici. Ma le opere di Pasolini, frazionando in tante figure la fisonomia o anche l’identità dell’autore, creano un movimento particolare di relazione tra le varie parti.
Questo discorso vale anche per la parola di Pasolini. Come spesso succede, è una parola talvolta necessaria, talvolta ridondante, talvolta addirittura decorativa. Chiaramente si tratta di una scrittura non molto selettiva e fatta abbastanza di getto. Questo sarebbe un difetto, se si ha in testa un tipo di drammaturgia estremamente economica. Invece, i testi e le parole di Pasolini hanno i pregi e i difetti della generosità. Io li ho sempre rispettati integralmente, perché non so quanto sarebbe opportuno fare una liposuzione del testo e se gli gioverebbe: ridurlo a qualche cosa, in fondo, sarebbe cercare di fargli dire una cosa sola. Invece, l’interesse dei testi di Pasolini è che sono divaganti, che parlano del futuro ma anche del passato; in certe parti sono legati all’attualità e in altre sono totalmente utopistici. Mi pare insomma che non sia giusto dare loro un tipo rigido di coerenza.
Ci vorrà ancora qualche decennio perché Pasolini smetta di essere un personaggio e sia solo un uomo di lettere. La figura di Pasolini, non solo in Italia, è una figura emblematica e rappresentativa, dati anche i suoi interessi in tutti i campi. E’ stato anche profetico, spesso anche profeta di sventure, e forse anche per questo ci si fanno continuamente i conti.