Pier Paolo Pasolini: Lo scimmione e il centauro
di Alessandro Barbato
“[…] Nulla è più terribile
della diversità. Esposta ogni momento
– gridata senza fine – eccezione
incessante – follia sfrenata
come un incendio – contraddizione
da cui ogni giustizia è sconsacrata.”
P.P. Pasolini, La realtà, 1964
Torno a stupirmi per la leggerezza con cui, a suo tempo, sono passato attraverso l’opera pasoliniana senza cogliere la cristallina compiutezza di alcune pagine, fra le meno note, che sembrano piccoli manifesti di una poetica allora nascente ma già fortemente indirizzata verso temi e problemi che avrebbero agitato e appassionato non poco il Pasolini della maturità, il poeta così come il regista. E’ questo il caso di Lo specchio insistente, un delizioso raccontino, uno dei tanti scritti apparsi più di mezzo secolo fa, su riviste o quotidiani, e ricomparsi, qualche volta e insieme ad altri, in volumi postumi prima di trovare una sistemazione organica nel primo dei due poderosi tomi dedicati ai romanzi e ai racconti della collana «I meridiani».[1] Pochissime pagine che consentono di avviare un discorso che, se i limiti del presente contributo lo consentissero, potrebbe spingere a una nuovo percorso all’interno dell’opera pasoliniana, che non smette di affascinare specialisti e semplici lettori anche, se non soprattutto, per il suo costante e ininterrotto ridefinirsi.
Un testo che con tutta probabilità attinge dai materiali autobiografici riversati negli ormai celebri Quaderni rossi[2] e che permette di continuare una riflessione che già da tempo mi appassiona, ovvero l’originalità di una produzione intellettuale e artistica che ha ben pochi corrispettivi per la modalità attraverso la quale dato biografico e creazione poetica sono intrecciate, illuminandosi e sostenendosi vicendevolmente. Il clima che permea lo scritto giovanile, pubblicato nel 1946 sul quotidiano friulano «Libertà», è sin dalle prime battute ansiogeno e surreale: Pietro, il protagonista dietro il quale è sin troppo semplice scorgere la presenza dello scrittore, viene destato da un sonno che il lettore immagina agitato e confuso. Immediatamente dopo, il giovane comincia a scrutare la sua figura soffermandosi, «con esattezza», sul proprio abbigliamento, su quegli abiti che, in un certo senso lo riconsegnavano al mondo, lo identificavano, «lo definivano, lo indicavano come l’unico che potesse indossarli», in quello che lo scrittore raffigura come una sorta di deragliamento del pensiero.[3] Nel breve spazio del racconto il lettore può solo congetturare sul significato di questo accorgersi dell’essere vestito da parte del protagonista, una sorta di rovesciamento della scoperta della propria nudità che nell’Eden rese consapevoli della propria colpa Adamo ed Eva. Resta probabilmente una mia suggestione, anche perché la questione dei vestiti è presentata da Pasolini nello spazio di poche righe e come del tutto simile ad altre assillanti sensazioni che sembrano agitare il suo protagonista, preso da un non meglio precisato senso di inadeguatezza o piuttosto di costrizione esistenziale che però è rapidamente superata proprio per la sua familiarità con quel perenne oscillare tra senso di estraniamento e parziale ritorno nell’alveo del fragilissimo mondo interiore che lo caratterizza.
Pietro, in effetti, palesa sin «troppa abitudine a simili sensazioni», dopo tutto anche nel timido risveglio con cui si apre il brano è possibile intravedere una sorta di faticoso ritorno da regioni inquiete, indifferenziate e lontane, non completamente accessibili all’umana ragione, ritorno cui sembrano alludere anche i puntini di sospensione con cui si apre il testo, quasi che fosse il seguito di un prologo avvenuto chissà dove e quando. E’ proprio per questo che, come sembra dover fare spesso, anche a proposito del problema dei vestiti, che peraltro in alcun modo vengono descritti se non per le sensazioni che suscitano nel protagonista, Pietro procede a una rapida quanto parziale presa di coscienza, indefinita e sospesa. Certamente non risolutiva.[4]
Persiste, in effetti, accanto a quella che sempre più sembra una inadeguata soluzione di comodo, l’amarezza per un pensiero «dimostratosi inafferrabile, e la convinzione che sarebbe presto venuto il momento in cui il troppo ripetersi di situazioni simili l’avrebbe reso incapace a rassegnarsi.»[5] Il breve preludio introduce proprio il verificarsi di quel momento: prima di uscire dalla stanza, di andare verso il mondo, il giovane lancia uno sguardo distratto nello specchio della sua camera e nel compiere l’azione viene assalito dagli «sconforti dell’adolescenza»,[6] da una sensazione che riporta a galla quell’età di superamenti e trasformazioni, quel delicato passaggio durante il quale possono verificarsi drammatici scarti tra i «gradi dell’essere»;[7] e per il quale, tutte le società hanno previsto precisi rituali atti a modellare i fanciulli in maniera assolutamente conforme all’ordine culturale caratteristico e distintivo della civiltà in questione, che in tal modo oltretutto, in maniera assolutamente speculare, conferma se stessa.
E’ in questo momento che qualcosa di non risolto, di non pacificato, arriva a turbare Pietro, tanto che per lui non è possibile procedere oltre. Quello che appare allo specchio infatti, al posto della sua immagine riflessa, è di una assurdità così manifesta che al giovane non è possibile far finta di nulla o ribellarsi:
[…] apparve nello specchio un orribile scimmione, col muso intelligente e grinzoso, il petto ricoperto da un vello arruffato. La bestia lo guardava fissamente, con uno sguardo penetrante, che, un poco alla volta, assumeva un’aria sempre più astuta e spudorata fino a diventare ilare, insistente, come quella degli ubriachi. Pareva volesse riuscire contagioso, quello sguardo, suscitando un’ilarità cordiale e indiscutibile, e si attaccava con l’occhio all’occhio, viscidamente, storditamente. A cosa alludesse, pareva dovesse riuscir cosa ovvia senza bisogno di nessun’altra spiegazione se non quell’occhiata ripugnante che aveva l’aria di rallegrarsi.[8]
L’immagine, al lettore almeno un po’ addentrato nelle vicende biografiche dell’autore, non può non far venire in mente quell’omosessualità che Pasolini, a più riprese in quegli anni, come testimoniano appunto i Quaderni rossi, oltre che sua la nutrita corrispondenza con amici e confidenti, considerava come un male piombatogli addosso come una maledizione, «il marcio ereditato dai miei avi»[9], una colpa inespiabile che minava un’intera esistenza:
Io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro.[10]
Lo specchio sembra dunque palesare in maniera perentoria quella natura inconciliabile, quella forza non completamente addomesticabile – si pensi all’idea dello scimmione, una sorta di “quasi uomo” appunto – con cui Pier Paolo Pasolini aveva dovuto ben presto fare i conti a livello personale, ma che all’epoca dello scritto in questione trovava la sua sublimazione soltanto in pagine di diario, in versi ed esperimenti narrativi, restando malamente taciuta nello spazio delle relazioni interpersonali e drammaticamente vissuta anche per il suo essere segno di una diversità che la società avrebbe certamente sanzionato con l’esclusione e con l’accusa. Cosa che puntualmente avvenne, travolgendo l’universo domestico e sociale in cui il giovane Pasolini era inserito e costringendolo a una precipitosa fuga verso Roma, dove l’autore si sarebbe poi consacrato e dove le dissimulazioni romanzesche sarebbero state affiancate da lucide analisi e pubbliche prese di posizione sul tema.[11]
Così anche Pietro, il protagonista del racconto, dopo aver superato la circostanza definendola inesorabile, qualcosa che appunto in alcun modo poteva essere arginata dalla ragione, appare impegnato soprattutto a escogitare un modo per non far vedere quell’«immagine accusatrice» ai parenti e ai vicini. Tutti i tentativi si rivelano però fallimentari: dapprima, aiutandosi con il sapone e uno strofinaccio, Pietro prova a lavare via lo scimmione che lo continua a fissare ridendo; quindi, preso dalla disperazione, scaglia lo specchio sul pavimento infrangendolo in mille pezzi che si sarebbero magicamente ricomposti non appena il giovane si sarebbe allontanato, «pieno di sentimenti confusi, come quando da fanciullo suo padre lo sgridava», restituendo ancora intatta l’immagine dello scimmione che avrebbe continuato a tormentare Pietro che, nel frattempo, era tornato con una scopa per spazzare via dalla sua vita i cocci di quella scomoda presenza.[12]
Dopo l’ennesimo momento di sconforto per il fallimento di quei rozzi tentativi di venire a capo di una situazione tanto tragica quanto assurda, Pietro tenta strade più raffinate: inizialmente prova a convincere lo scimmione circa la necessità di sparire con uno sguardo di umana superiorità, al quale la bestia contrappone però la certezza dell’eternità di un ghigno che sarebbe persistito immutabile senza sforzo alcuno, come un dato naturale ineliminabile, tale da non poter essere semplicemente rimosso o negato, tanto era indissolubilmente legato al protagonista, al suo essere. Così il giovane, percependo l’inutilità di quella lotta impari ma al tempo stesso per nulla incline a mollare, si decide a un gesto che l’autore definisce irreparabile, eccessivo, tale da proiettarlo «al di là dal comune stato umano»[13]: afferrato lo specchio, lo avvolge in un panno recandosi ben oltre l’abitato, verso lo spazio non umanizzato, un luogo deserto, le rive di una roggia, dove spaccato lo specchio ne getta in parte i cocci nel ruscello, conficcando gli altri resti nel terreno fangoso.
E’ interessante notare come per Pasolini, l’idea di distruggere quella forza selvaggia con il quale l’autore raffigura il suo tormento, riconsegnandola appunto allo stato naturale cui secondo lui appartiene – al ruscello, al fango – corrisponda al negarsi come essere umano, tanto che la mostruosità del gesto è appunto descritta come un’azione che sottrae Pietro dallo status di uomo in mezzo agli altri uomini, come se questi potesse essere veramente integralmente umano solo accettando quella naturalità così ottusamente altra rispetto al pacifico e idilliaco orizzonte contadino in cui sembra calato il protagonista e che Pasolini tratteggia all’interno di una parentesi che descrive il suo turbato ritorno a casa a pomeriggio ormai inoltrato.
Ma proprio perché parte inestinguibile di lui, Pietro percepisce, chiaro, sin da subito il presentimento che la bestia non sia affatto scomparsa, annegata tra le correnti della roggia o sepolta dal fango; l’illusione di aver relegato definitivamente al di fuori del proprio orizzonte umano e sociale quel testimone scabroso di una diversità così inquietante ha infatti vita breve:
Pietro varcò la porta di casa sua con un peso fortissimo nel cuore, e quando aprì l’uscio della camera vide lo specchio al suo solito posto. Il bestione, dentro, vi gongolava con l’orrida bocca spalancata in un riso sazio e immobile; gli occhi fissi su Pietro avevano portato la loro espressione insinuante a una tensione allucinata. […] Il parossismo dell’omertà che egli, giustificatamente, era venuto a stabilire con la vita segreta del giovane, era divenuto una enfiagione dei labbri e delle palpebre che tuttavia mantenevano la loro bestiale, selvatica indifferenza. Pietro si sedette, e col capo stretto tra i pugni rimase a guardare l’immagine. «Non tu», diceva quasi piangendo, «non tu orribile, innocente bestione, non tu devi scomparire…Chi ti ha mandato qui, in questo specchio dove dalla mia infanzia mi sono guardato, incerto, mille volte, sa della tua naturalezza invincibile. Non sei tu che devi sparire, tu che non vuoi vedere null’altro in me, se non ciò di cui ridi, e che infatti dio mio, è tutto quello in cui veramente io consisto.[14]
Pietro e lo scimmione sono uniti nel medesimo destino: è ormai chiaro come il giovane possa riuscire a liberarsi da quella angosciante «naturalezza invincibile», solo immolando tutto se stesso, cancellandosi, negandosi, sparendo così come avrebbe voluto avvenisse alla bestia. Accade così che Pietro esca di casa per non farvi più ritorno, per uccidersi probabilmente, Pasolini nulla dice in proposito, anche se tutto è reso evidente dall’attesa, prima insostenibile, poi rapidamente fatta di una rassegnazione figlia di un «egoismo ormai pronto», da parte della madre e della sorella del protagonista, che solo nelle righe finali compaiono nel racconto che si chiude lì dove era iniziato, nella stanza del giovane, avvolta in una atmosfera «assolutamente diversa» e dove «nella penombra giallastra si vedeva brillare lo specchio vuoto.»[15]
Sarebbe ingeneroso, oltre che erroneamente liquidatorio a mio avviso, ridurre il valore di queste poche pagine giovanili all’analisi, peraltro rapidissima, degli stati d’animo dell’autore di fronte alla propria omosessualità, quasi che questa fosse la chiave di accesso all’universo pasoliniano o, peggio ancora, la giustificazione e la ragione di un percorso creativo che viveva allora una delle sue stagioni più feconde. Ciò che affascina, in questo testo in particolare ma più in generale in molti scritti cosiddetti minori, è piuttosto la ricchezza di intuizioni che preludono a future e più mature realizzazioni; quando la diversità sarebbe assunta al rango di alterità, una dimensione che Pasolini avrebbe sempre più provocatoriamente esaltato nelle sue opere, connotandola di volta in volta in maniera diversa e via via in modo sempre più preciso anche grazie alla sua grande attenzione per le acquisizioni di discipline come la storia delle religioni e l’antropologia. Alterità che in maniera sempre più consapevole sarebbe stata contrapposta, sebbene sempre più nichilisticamente, al conformismo dilagante degli anni della «Nuova Preistoria», l’epoca dell’inferno neocapitalistico e consumistico, destinata a far morire «l’idea dell’uomo che compare nei grandi mattini»,[16] in un discorso che ormai era pronto per trascendere i limiti della biografia e avvolgere con il suo sguardo la società occidentale nella sua interezza.
Lo specchio insistente ci fa dunque cogliere l’autore certamente in una fase in cui la propria diversità è percepita soprattutto come una tara che impone l’esclusione, anzi l’autoesclusione, sfumatura che non avrebbe mai abbandonato Pasolini e che anzi per la tutta la sua vita sarebbe stata fonte di versi accorati in cui l’esibizione della propria solitudine, del proprio tragico destino di «segnato», rappresenta uno dei centri tematici più saldi. Ciò nonostante nel brano, correndo probabilmente il rischio di qualche forzatura, mi sembra di cogliere la presa di coscienza, forse ancora frettolosa, come quelle compiute da Pietro prima dell’incontro con lo scimmione, dell’ineludibilità di un confronto con quella idea di diversità che si va facendo più matura, più stratificata. Un confronto che non può essere rimandato, né a livello individuale né sul piano sociale o interculturale, pena la scomparsa del senso stesso dell’essere uomo: Pietro non può cancellare lo scimmione se non negando se stesso, uscendo dal consorzio umano proprio per la pretesa, assurda quanto l’immagine che compare nel suo specchio, di eliminarvi per sempre quella dimensione remota, naturale e immanente per Pasolini, rappresentata dallo scimmione che ride.
Il diverso inizia a farsi altro e come tale avrebbe poi assunto, nelle opere più tarde, scritte o filmate, le forme del poeta che si ostina a far versi in un mondo che non sa che farsene della poesia, che non si accorge nemmeno della mancanza di richiesta di poesia;[17] del sacro che giunge a scardinare la forma mentis borghese con tutta la forza della sua radicale alterità rispetto al vuoto orizzonte desacralizzato dei protagonisti di Teorema, uno dei quali si chiama proprio Pietro ed è condannato a vagare nel deserto, nudo e perduto in un urlo ferino che ne deforma il viso in un cieco furore animale. Una pellicola quest’ultima in cui tra i protagonisti c’è Paolo, il figlio di Pietro, che sembra possedere qualche timida caratteristica del personaggio del raccontino appena esaminato: penso alla rivelazione della propria diversità innescata dall’incontro con l’Ospite divino che giunge a infrangere la quiete della sua esistenza borghese o ai suoi maldestri tentativi di sublimare tale diversità nell’arte, un escamotage evidentemente destinato al fallimento.
Alterità che torna nell’orribile segreto coltivato da Julian, uno dei protagonisti del film Porcile, che finirà divorato dalla sua stessa, inconfessabile, aberrazione; o ancora quella delle Erinni che tormentano Oreste nel rifacimento pasoliniano dell’Orestiade di Eschilo, prima di essere addomesticate dalla ragione e di risvegliarsi nel Pilade, opera teatrale che narra appunto del ritorno delle antiche forze ancestrali che Oreste, illusoriamente, credeva vinte per sempre. Come non pensare poi a Medea, pellicola in cui il confronto-scontro tra una lunga serie di opposizioni apocalitticamente inconciliabili rappresenta il fulcro di un’opera tra le meno comprese dalla critica al momento della sua apparizione nelle sale. La sacerdotessa della Colchide è probabilmente la più alta espressione di quella alterità che Pasolini cercherà di tratteggiare nelle sue opere al fine di ammonire la civiltà occidentale sui rischi che la rimozione o l’azzeramento di ogni diversità, proprio perché inautentica e inattuabile, porta con sé. Medea che è, al tempo stesso, allegoria delle regioni oscure dell’inconscio, della civiltà arcaica e sacrale, della legittimità del pensiero simbolico che proprio perché negato travolge Giasone, l’eroe borghese, modello del mondo pragmatico e arrivista in cui è stata sancita la fine di ogni metafisica e che proprio per questo è destinato a divenire universo alienante e inumano.[18] Giasone che, verso la fine della pellicola, quando ormai ha abbandonato Medea al suo destino di reietta, è raggiunto da una apparizione assai emblematica, la materializzazione del centauro Chirone, colui che da bambino lo aveva allevato ed educato procedendo in termini sempre più razionali e desacralizzanti e perdendo man mano le sue sembianze di creatura mitica, metà uomo e metà animale, per divenire interamente umano. Ma accanto al nuovo Chirone, come si ricorderà, ricompare stavolta il vecchio centauro che però non parla, una visione che ricorda drammaticamente a Giasone che nulla può essere rimosso per sempre, «ciò che è sacro si conserva accanto alla sua forma sconsacrata».[19] Proprio per tale ragione Giasone, come Pietro, non può pensare di negare l’altro che è in lui senza votarsi a una cieca distruzione in cui alla fine avrebbe perduto anche se stesso.
In conclusione a queste brevi note, suscitate da una rilettura che, mi si perdoni l’enfasi, ha avuto su di me l’effetto di un piccolo rimorso e di una vera apparizione, mi sembra di poter dire che è proprio nella misura in cui si riuscirà in futuro a far dialogare sempre di più vissuto pubblico e privato, biografia e opera, lo scimmione e il centauro, senza che l’uno prevalga sull’altro o che le ragioni dell’uno siano assorbite in quelle dell’altro, che l’opera di Pier Paolo Pasolini continuerà a fornire, a chiunque vorrà o saprà coglierli, preziosi spunti per proseguire nello studio di una esperienza artistica e intellettuale che è impresa quanto mai ardua confinare nella pura e semplice, per quanto qualitativamente significativa, vena letteraria.
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[1] P.P. Pasolini, Lo specchio insistente, in «Libertà», 8 giugno 1946; poi in P.P. Pasolini, Un paese di temporali e di primule, a cura di N. Naldini, Guanda, Parma 1993, pp. 116-119; ora in P.P. Pasolini, Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, «I meridiani», Mondadori 1998, vol. I, pp. 1298-1301.
[2] Cfr.: P.P. Pasolini, Dai “Quaderni rossi”, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. I, pp.131-157. Si vedano anche le interessanti notizie relative al testo che mostrano anche come da tali diari personali Pasolini abbia attinto per la composizione di molti racconti a cui lavorava in quegli anni. Cfr.: Ivi, pp. 1655-1661.
[3] P.P. Pasolini, Lo specchio insistente, in Id, Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, «I meridiani», Mondadori 1998, vol. I, p. 1298.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] L’espressione è pasoliniana, tratta da Passione e ideologia in un testo in cui il Poeta afferma di aver utilizzato in gioventù il friulano per oltrepassare la barriera che a suo dire lo separava dal mondo. Cfr.: P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960, p. 137.
[8] P.P. Pasolini, Lo specchio insistente, op. cit., p. 1298-1299.
[9] P.P. Pasolini, Lettere (1940-1954), Einaudi, Torino 1986, p. 204.
[10] Ivi, p. 391.
[11] Il rapporto di Pasolini con la propria omosessualità, oltre a essere affrontato dalle numerose biografie dedicate all’autore, è al centro di un interessantissimo contributo di Francesco Gnerre, Pier Paolo Pasolini e il panico dell’omosessualità, apparso su «Testo e senso», n.8, 2007. Consultabile, grazie alla paziente e insostituibile opera di Angela Molteni, anche in rete sul blog “Pagine Corsare”.
[12] P.P. Pasolini, Lo specchio insistente, op. cit., p. 1299.
[13] Ivi, p. 1300.
[14] P.P. Pasolini, Lo Specchio insistente, op. cit., p. 1301.
[15] Ibidem. (Il corsivo è dell’autore).
[16] P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa (1964), in Id. Tutte le poesie, a cura di W. Siti, «I meridiani», Mondadori, Milano 2003, p. 1206.
[17] Ivi, p. 1157.
[18] Per un approfondimento di tali tematiche si veda A. Barbato, L’alternativa fantasma. Pasolini e Leiris: percorsi antropologici, Libreriauniversitaria.it, Padova 2010, pp. 196-270.
[19] In P.P. Pasolini, Medea, ora in Id., Pasolini per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, «I meridiani», Mondadori, Milano 2001, vol. I, p.1250.
SI VEDA ANCHE L’ombra dell’Altro: un itinerario nel cinema di Pier Paolo Pasolini, di Alessandro Barbato