“L’inferno di Salò”, di Massimo Recalcati

L’inferno di Salò
(da Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, 2013)

Attractor Factor Cultura
http://fattorediattrazione.blogspot.it/ – 18 aprile 2013
un sentito ringraziamento a Manolo Trinci

Un ultimo riferimento cinematografico può sintetizzare ancora più radicalmente il fenomeno dell’evaporazione del padre e i suoi effetti nel nostro tempo. Penso all’ultimo film-testamento di Pier Paolo Pasolini: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Pasolini lo concepisce volutamente come un film impossibile da vedere. Accade in gran parte dell’arte contemporanea più estrema: il reale senza veli del Terrificante costringe lo spettatore a indietreggiare nell’angoscia; l’orrore della scena fa abbassare gli occhi, rende impossibile lo sguardo, come in una delle ultime scene, dove una vittima viene sodomizzata e, nello stesso tempo, prima di essere uccisa senza pietà, scalpata brutalmente con un coltello. L’ultimo racconto di Pasolini vuole esibire il reale del godimento senza filtri simbolici: supplizi sadici, coprofagia, umiliazioni, sevizie, assassinii gratuiti.
“Tutto è buono quando è eccessivo,” afferma bataillianamente uno dei quattro libertini sadici nella prima scena del film. Le vittime appaiono come puri strumenti al servizio della sola Legge del godimento: corpi straziati, sgozzati, martoriati, bruciati, torturati, ammazzati cinicamente. In questo universo senza Dio, non c’è salvezza, non c’è orizzonte, non c’è desiderio. Tutto si consuma nel chiuso claustrofobico della volontà di godimento.
Mentre per un lungo tempo della propria opera Pasolini aveva fatto valere una versione rousseauiana e batailliana del corpo sessuale come potenza trasgressiva che sfida la dimensione repressiva e coercitiva della legge nel nome di un ritorno (impossibile) alla Natura, in Salò egli sembra prendere congedo da questa rappresentazione del conflitto tra la Legge e il desiderio riconoscendo il culto del godimento e la logica del suo puro dispendio – presente in Sade e teorizzata da Bataille – sono divenuti un regime di amministrazione e manipolazione biopolitica dei corpi sotto la nuova Legge dettata dal discorso del capitalista: il sesso compulsivo, l’affermazione di una libertà senza Legge, la ripetizione eternizzante di tutti gli scenari sadiani mostrano che il nostro tempo ha fatto del godimento un imperativo che anziché liberare la vita la opprime rendendola schiava. (1)
In questo risiede la denuncia politica radicale che attraversa Salò. Non si tratta affatto come aveva pensato Cesare Musatti di un rigurgito della sessualità perversa-polimorfa di fronte al fallimento di un accesso normativo a una sessualità pienamente genitale che rivelerebbe il fantasma inconscio del suo autore, (2) ma del tentativo, assai più “alto”, di descrivere l’inconscio del discorso capitalista come radicale distruzione dell’Eros del desiderio (3). Non si tratta affatto della messa in scena del teatrino privato che caratterizzerebbe il fantasma perverso di Pasolini – secondo una applicazione meramente patografica della psicoanalisi all’opera d’arte -, ma dell’esibizione dell'”eccesso” come affermazione di una Legge che rifiuta ogni limite e che qualifica la degradazione neocapitalista del corpo erotico e mero strumento di godimento. Non si tratta di una rappresentazione provocatoria della sessualità polimorfa dell’infanzia, ma di un godimento disperato e totalmente anti-erotico che senza rispetto alcuno nei confronti della Legge della castrazione simbolica si impasta rovinosamente con la pulsione di morte. Non è questa una delle cifre fondamentali del nostro tempo, del tempo in cui sembra trionfare l’imperativo a godere come unica forma della Legge?
Avendo visto Salò una sola volta da giovane, nel 1976, avevo memorizzato erroneamente una scena in cui una ragazza e un ragazzo, mentre venivano fatti affogare in un mastello di merda, reagivano alla loro morte imminente l’una con il segno della croce e l’altro alzando il pugno chiuso. Dopo aver recentemente rivisto il film di Pasolini mi sono reso conto che questa scena non esiste, ma era solo il frutto di una mia combinazione inconscia di altre due presenti nel film. In una di queste una ragazza si trova immersa nella merda e invoca il Dio cristiano – “Dio, Dio, perché ci hai abbandonati?” -, mentre in un’altra un milite di Salò viene scoperto mentre fa l’amore con una serva – ovvero trasgredisce la Legge che imponendo che vi sia solo godimento vieta paradossalmente la possibilità dell’amore – e viene crivellato brutalmente di colpi di pistola. Prima di morire egli ha il tempo di alzare fieramente il pugno chiuso. Questo “errore della memoria” contiene in realtà un’interpretazione soggettiva che mi pari resti fedelissima alla narrazione pasoliniana: il discorso capitalista affoga nella merda e nel sangue gli ideali (cristiani e comunisti) in nome del godimento come unica forma paradossalmente possibile dell’Ideale e della Legge.
Più precisamente, Pasolini raggiunge Lacan quando mostra come nella perversione il soggetto viene eletto alla dignità di un nuovo Dio, di un Dio che ha un potere assoluto sull’Altro, di un Dio del godimento che annulla ogni senso del limite. Non è forse questa l’ambizione suprema che abita il terribile quartetto di Salò? Lo dichiara espressamente Pasolini stesso in una intervista sul marchese de Sade, rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo, quando afferma che “i libertini, nell’adoperare i corpi delle loro vittime come cose, non sono altro che dei in terra, cioè il loro modello è sempre Dio”. (4)
Come in Moretti (5), anche nell’ultimo film di Pasolini i simboli del cristianesimo e del comunismo naufragano miseramente. Mentre però Moretti evidenzia i sintomi mentali del nostro tempo (afasia, amnesia), Pasolini illustra focaultianamente l’ontologia del corpo che sottende questi sintomi, ovvero la riduzione perversa del corpo stesso a pura macchina sadiana di godimento. Per questo il nostro tempo – così come viene anticipato profeticamente da Salò – è il tempo in cui gli ideali si rivelano inconsistenti, salvo quello del godimento (di morte) come fine ultimo della vita. “Non sai che noi vorremmo ucciderti mille volte?” grida uno dei torturatori in faccia a una vittima terrorizzata. La macchina del discorso capitalista consuma infinitamente se stessa così come accade negli scenari eternamente ripetitivi e claustrofobici del marchese de Sade: la loro serialità anonima mostra come il godimento debba ritornare sempre allo stesso posto per scongiurare l’evento della morte. (6) Si tratta di mostrare che la sola cosa per cui vale la pena vivere è il proprio godimento, che non esiste altra Legge al di fuori di quella imposta dall’imperativo del godimento. Questo è il contenuto profondamente perverso di Salò e questa è la posta in gioco decisiva del nostro tempo.
Per cosa vale la pena vivere? Esiste una risposta convincente a questa domanda, alternativa a quella sadiana? Voglio dire: esiste una alternativa etica a questa logica che non sia il ricorso moralista al “buon-senso” o all’universalità astratta di una ragion pratica di matrice kantiana? Esiste, intendo, una alternativa etica che può opporsi con forza all’affermazione del godimento cinico come unico valore della vita? Non è questa una domanda decisiva per il nostro tempo che promuove il godimento dell’Uno come beatificazione terrena della vita? E’ possibile un altro avvenire rispetto a quello previsto dalla macchina del discorso del capitalista, dalla macchina impazzita del godimento? Non è questa la risposta che si attendono da noi le nuove generazioni? Esiste un Altro godimento, rispetto a quello libertino rappresentato da Pasolini in Salò, che possa rendere la vita degna di essere vissuta?
L’indebolimento e la crisi generalizzata del discorso educativo fanno emergere la dimensione traumatica del godimento sganciato dalla Legge della castrazione. E’ il tema clinico che ho sviluppato ampiamente ne L’uomo senza inconscio: nel tempo del declino dell’Altro simbolico, del naufragio dell’Ideale, del suo smerdamento senza ritorno, il godimento mortale sembra non trovare più argini simbolici adeguati. Se l’Ideale aveva la funzione di orientare il godimento differendone il soddisfacimento, canalizzando positivamente la sua forza pulsionale, il suo tramonto sembra lasciare l’esistenza sprovvista di bussola. Nondimeno la pratica della psicoanalisi non può fomentare il recupero nostalgico dell’Ideale. Essa punta piuttosto sul desiderio come possibilità di realizzare  – grazie all’apporto della Legge della parola e al rifiuto del godimento mortale – un godimento nuovo, supplementare, un godimento Altro, un Altro godimento rispetto a quello mortale che Lacan nomina col termine plusgodere.
Quello che dobbiamo notare oggi è che l’indebolimento dell’azione normativa del Simbolo ha reso la stessa trasgressione un abito conformista della pulsione. Il godimento fine a se stesso è una forma radicale dello spirito più reazionario. E’ molto più trasgressivo giurare amore eterno che passare da un corpo all’altro senza alcun vincolo amoroso. E’ molto più trasgressiva l’esperienza della fedeltà allo Stesso che non il culto aleatorio del Nuovo. E’ molto più trasgressiva l’apparizione del senso del pudore che non la sua estinzione. Niente, infatti, sembra più degno di risultare osceno! Il proliferare del godimento sganciato dalla Legge della parola mostra che l’azione del simbolico non è più in grado di temperare il reale del godimento che invece prolifera illimitatamente. Il sentimento dell’osceno implica, infatti, una credenza nel limite, nel valore etico del pudore, mentre nell’epoca del trionfo del disincanto cinico e narcisista, provocato dall’affermazione del discorso del capitalista, questa credenza è destinata a eclissarsi e la nostra epoca diviene quella del godimento in eccesso, l’epoca dei traumi.

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Note:
1 – E’ quello che nota puntualmente Antonio Tricomi nel suo eccellente lavoro sull’opera di Pasolini: “La logica del dispendio non è più una alternativa praticabile in età di neocapitalismo trionfante. Se, per esempio, Bataille aveva potuto credere di dover riconoscere alla lordura un incredibile valore trasgressivo, ora Pasolini è costretto ad accorgersi che anche questa è strumento del potere: i produttori costringono i consumatori a mangiare merda”. A. Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma 2005, p. 421.
2 – C. Musatti, Il Salò di Pasolini regno della perversione, in “Cinema Nuovo”, n. 239, gennaio-febbraio 1976.
3 – Tentativo la cui importanza cruciale non sfugge invece a G.C. Ferretti, Pasolini. L’universo orrendo,
Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 106 – 110. Sul concetto lacaniano di “discorso del capitalista”, rinvio a M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., in particolare parte prima.
4 – Citazione tratta da A. Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini, cit., pag. 417.
A proposito di Lacan, si veda, J. Lacan, Kant con Sade, in Scritti, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1976, pp. 764-791.
5 – Si fa riferimento al film “Habemus Papam”.
6 – In questo senso la villa di Salò ricorda quella – assai più farsesca non meno tragica – di Arcore nei suoi anni più “gloriosi”; in entrambi i casi sulla scena non è tanto la fantasia pervertita dei suoi attori (quale fantasia sessuale non lo è?), né la dimensione erotica del desiderio, ma il terrore del “padrone” di fronte alla verifica dei propri limiti, al crollo dell’illusione del proprio fantasma di autogenerazione, alla imminenza sovrastante della propria morte. Si tratta allora di mostrare lo smerdamento dell’Ideale, la riduzione di ogni Ideale a puro sembiante, per affermare che la sola cosa eterna, la Cosa che conta, la sola Legge capace di scongiurare l’inevitabilità della morte, è la “volontà di godimento”.