Dal mensile online “Diari di Cineclub” (dicembre 2015, n. 34), diretto da Angelo Tantaro, riprendiamo l’interessante intervento di Franco La Magna, impegnato a descrivere e interpretare la suggestione che l’Etna, metafora ambivalente di inferno e di assoluto, esercitò sull’immaginario cinematografico di Pasolini, facendosi scenario per alcuni quadri di quattro pellicole (Il Vangelo secondo Matteo, Teorema, Porcile, I racconti di Canterbury).
Il mensile “Diari di Cineclub”, premio 2015 quale migliore rivista di cinema in rete, uscirà a gennaio con un nuovo numero, il 35, in cui sono preannunciati ulteriori approfondimenti di ambito pasoliniano, anche a bilancio del 2015 che ha conosciuto il vistoso fenomeno di una diffusa commemorazione a 40 anni dalla morte del grande poeta-cineasta.
L’ Etna infernale e angosciante di Pier Paolo Pasolini
di Franco La Magna
www.cineclubromafedic.it/diari-di-cineclub.html – dicembre 2015, n. 34
Più volte ciclicamente apparso, fin dall’epoca pionieristica del muto, per la straordinaria composizione morfologica del terreno – le sbalorditive sculture laviche, il paesaggio selvaggio e primitivo delle alte quote, la religiosa e solenne solitudine dei luoghi -, il poderoso massiccio dell’Etna (la “montagna” dei catanesi) si offre a grandi e piccole produzioni cinematografiche come location selvaggia e spettacolosa per decine di opere girate tra la provincia etnea e quella messinese.
Stregato e abbagliato dalla bellezza del vulcano, anche Pier Paolo Pasolini (che nel 1961 aveva già esordito del tutto privo di conoscenze tecniche alla regia cinematografica con Accattone, ispirato ai personaggi di Ragazzi di vita e dei suoi primi romanzi, con cui annuncia la disperata e poetica visione d’una umanità reietta e violenta, percorsa da magnaccia e prostitute), da sempre innamorato del crudo paesaggio etneo, gira sugli angoscianti deserti lavici del vulcano, tre anni dopo l’inizio del suo singolare percorso artistico cinematografico, le scene della tentazione del “religioso” e anticonformista Il Vangelo secondo Matteo (1964).
Rinunciando ad ogni retorica iconografia classica, lui laico dedica “alla cara, lieta, familiare, memoria di papa Giovanni XXIII” un film pervaso ancora una volta da chiari riferimenti alla pittura quattrocentesca. In scena una figura di Cristo dalla dirompente carica quasi libertaria contro il potere costituito; uno scandaloso Cristo con cui il poeta-scrittore-regista s’identifica, in un film nel quale appare una nutrita pattuglia di scrittori amici e la stessa madre di Pasolini nei panni di Maria anziana. Nei solitari deserti lavici delle alte quote dell’Etna gira tutte le sequenze della tentazione (gli incontri di Cristo con il diavolo), utilizzando il vulcano come “tremendo paesaggio lunare” (parole sue) e i Sassi di Matera come principale location. Gran Premio della giuria a Venezia, il film è disprezzato dalla destra postasi in prima fila in quella “strategia del linciaggio” (iniziata anni prima con l’espulsione del poeta-scrittore dal PCI colpito da anatema a causa della sua omosessualità,a seguito della quale perde anche il lavoro d’insegnante), quand’egli ancora in vita e intellettuale solitario aveva già dato alle stampe la sua “poetica” dell’annientamento della diversità del sottoproletariato a favore di una omologazione voluta dal potere, mentre contestualmente elaborava la disperata coscienza della inconsistenza sociale del letterato-umanista, da cui appunto partire per costruire diverse forme di comunicazione.
L’innamoramento per l’Etna del regista- scrittore- saggista- poeta prosegue e s’intensifica negli anni successivi e con il difficile Teorema (1968), accompagnato da una citazione del libro dell’Esodo, girato in piena contestazione studentesca, che apre ancora una volta al deserto lavico dell’Etna (esteriorizzazione dell’angoscia e dell’irredimibile solitudine del protagonista, ma anche luogo d’espiazione e di ritorno al primigenio soffio vitale), radicalizza l’avversione verso una borghesia alla quale non resta che autodistruggersi. Impressionante la sequenza conclusiva, che passa da un campo lunghissimo ad un primissimo piano, in cui Massimo Girotti corre nudo urlando sulla nera sabbia vulcanica, dopo aver abbandonato la fabbrica agli operai. Film estremo (attaccato dall’ “Osservatore Romano”) dove si accentua il rifiuto d’un presente inaccettabile e irrazionale, attribuendo all’eros una forza dirompente e salvifica.
Ancora nel successivo, disturbante e provocatorio, Porcile (1969), come a suggello di tutta un’opera attraversata da insanabili ossimori, sarà l’establischment a divorare i propri figli ribelli. Qui l’Etna e il Castello di Aci (scelto come sede del tribunale che condanna a morte il parricida-cannibale) tornano a campeggiare in tutta la prima parte del film creando scenari di grande suggestione. Ultimo set pasoliniano siciliano, poco prima della cruenta morte avvenuta (…) nella notte tra l’1 e il 2 novembre di 40 anni fa all’Idroscalo di Ostia, il beffardo e blasfemo I racconti di Canterbury (1972), secondo film della cosiddetta Trilogia della vita tratto da Canterbury Tales capolavoro della letteratura medioevale di Chaucer, dove il tormentato regista appare nei panni dello stesso Geoffrey Chaucer.
Gli altri, Il Decameron (1971) da Boccaccio e Il fiore delle Mille e una notte (1974) da racconti (…) nati da una tradizione orale e scritti tra il X e il XVII, completano un ciclo di “… tre film, che sono un omaggio al trionfo della natura e delle sue leggi, un inno di beatificazione e glorificazione della carne, un itinerario di ascesi e di liberazione dai condizionamenti religiosi attraverso il sesso – scrive Brunetta in Cento anni di cinema italiano; i personaggi si spingono al di fuori della loro dimensione di inferno terreno per raggiungere gli spazi edenici della beatitudine sessuale delle Mille e una notte”. Un inno alla vita ma dove la presenza della morte non è meno incombente e sinistra, con tutti i suoi presagi linguisticamente disseminati nel corso della rappresentazione e infine con la sua diretta “mostrazione”: nel Decameron con il racconto di Lisetta (che sotterra la testa dell’amante ucciso dai fratelli); o nel Racconto dell’Indulgenziere nel secondo film della trilogia I Racconti di Canterbury dove tre giovani si uccidono tra di loro per non spartire un piccolo tesoro.
Premiato a Berlino con l’Orso d’oro, ma incappato in disavventure giudiziarie per la solita accusa di oscenità, I racconti di Canterbury ingloba alla fine del film la memorabile e spaventosa sequenza finale dell’Inferno interamente girata sull’Etna, percorsa da orribili mostri, diavoli e monaci dannati, che insieme alle prove precedenti esprime il radicale rifiuto d’un presente inaccettabile e irrazionale. Una curiosità: tutti i diavoli (nudi dipinti di blu o di giallo) furono scelti da Pasolini tra gli arbitri della Federazione di Calcio catanese, tra cui l’attore etneo Enrico Pappalardo che veste i panni del signore delle tenebre Satana.
Quando Pasolini tornerà nel presente lo farà per intonare un vero e proprio inno alla morte. girando lo spaventoso Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), ispirato a Sade, uscito nelle sale dopo la morte violenta del regista, una discesa agli inferi che avrebbe dovuto iniziare la Trilogia della morte in contrapposizione alla precedente della vita.
Una specie di sigillo testamentario della “maledizione” pasoliniana. Nell’ultima intervista rilasciata, a profetico preludio della propria fine, aveva dichiarato: «Io scendo all’inferno (…). Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi» (da Siamo tutti in pericolo, ultima intervista rilasciata a Furio Colombo il 1^ novembre 1975, in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano 1999, p. 1728, ndr.).