www.ilmanifesto.info – 14 marzo 2015
di Karen Pinkus
Il 6 e 7 marzo si è tenuta all’università di Yale la conferenza The Legacy of Pier Paolo Pasolini, organizzata da Luca Peretti e Karen Raizen per il quarantennale della morte di Pasolini. All’evento hanno partecipato studiosi, soprattutto giovani, europei e americani, mantenendo un approccio fortemente interdisciplinare e non agiografico, volto soprattutto a recuperare il Pasolini meno studiato e a problematizzarlo all’interno dei processi culturali italiani di allora e di oggi (per maggiori informazioni, http://www.thelegacyofpasolini.net).
Quello che pubblichiamo è parte del keynote speech di Karen Pinkus, professoressa a Cornell University, autrice di diversi testi, sulla cultura italiana e non solo, e in passato anche collaboratrice del “manifesto”.
Da quando, nel 2000, il termine antropocene è stato ufficialmente introdotto dal fisico Paul Crutzen per descrivere la nostra nuova epoca geologica, come sottocategoria dell’olocene e del quaternario, esso è diventato moneta sonante per gli studi umanistici, forse usato anche per rivedere vecchie idee incartate in carta nuova, ma anche per provare a pensare ad una storia al di là della nostra comprensione, per negoziare, in qualche modo lontanamente, con il potere umano di intervenire nel tempo geologico. Negli ultimi tempi sono apparsi, anche in Italia, diversi lavori di un nuovo genere che potremmo chiamare «narrativa sul cambiamento climatico». La maggior parte di questi testi usano tecniche linguistiche e narrative convenzionali, anche quando sono ambientate in un futuro distopico. Pasolini anticipa profondamente l’antropocene nel suo lavoro non finito Petrolio, che deriva il titolo precisamente da uno dei due principali combustibili fossili.
Pasolini per l’antropocene, dunque: avant la lettre, dato che l’idea di cambiamento climatico non era in circolazione quarant’anni fa, assumendo, come voglio fare, che vada fatta una chiara distinzione tra le particolarità della velocità in cui si stanno concentrando i gas serra e le questioni più generali sul degrado ambientale che, per quanto possa essere malvagio, manca di quell’insondabile temporalità e globalità con cui abbiamo a che fare adesso.
Pasolini per l’antropocene, malgré lui, date le sue critiche al conformismo delle mode, accademiche e non; e con l’idea che un certo tipo di ecologismo possa essere soggetto a falsa tolleranza o reso sinonimo di «vita» (si pensi alla sua “Abiura” pubblicata alcuni mesi prima della morte).
Pasolini per l’antropocene, infine, nella misura in cui include e disfa le proprie limitazioni narrative. Riferimenti mitologici e narrazioni realistiche si mescolano fluidamente nelle Note sugli Argonauti del Petrolio di Pasolini. La nota 54 si intitola infatti «Il viaggio reale nel Medio Oriente» e racconta i dettagli degli investimenti falliti in Marocco di una delle sussidiarie dell’Eni. La prosa è un mix di poetiche orfiche, sogni, descrizioni erotiche-esotiche del deserto e linguaggio burocratico. Sarebbe impossibile provare a separare questi diversi tipi di registri: vanno visti tutti insieme perché la ricerca del petrolio, nell’opera di Pasolini, è tanto poetica quanto geofisica o geopolitica. Nelle Note sugli Argonauti di Petrolio alcuni passaggi, corti e frammentati, del testo italiano sono seguiti da parentesi che contengono le parole: «testo greco». Pasolini avrebbe certamente potuto scrivere egli stesso un testo in greco, se non da solo, con l’aiuto di qualche amico classicista. Ma è precisamente perché il testo non è (ancora) leggibile, che è realmente simbolico del suo intero lavoro. Come quando scrive: «La mia decisione: che è quella non di scrivere una storia, ma di costruire una forma (…), forma consistente semplicemente in ‘qualcosa di scritto’. Non nego che certamente la cosa migliore sarebbe stata inventare addirittura un alfabeto, magari di carattere ideografico e geroglifico, e stampare l’intero libro così» (appunto 37).
La lingua, illeggibile a tutti a parte che al suo autore, si sarebbe avvicinata il più rigorosamente possibile ad una forma senza contenuto, ma, come egli stesso spiega, il suo carattere (o potremmo dire il suo umanesimo) l’ha costretto ad evitare tali misure estreme. Tuttavia Petrolio, con le note in greco che appaiono come una presenza, deve per ora rimanere una forma di discorso. Come l’autore lamenta, non è neppure un oggetto di transizione. Il deserto siriano e le colline libiche sembrano l’Italia centrale (neanche Napoli o la Sicilia). E poi, appena Pasolini descrive la primavera mediorientale, Carlo (il protagonista o, meglio, uno dei protagonisti di Petrolio) arriva in una gelida Malpensa. Il lettore è costretto a fare una transizione, dalle ripetute sodomie, dai demoni e dal deserto ricco di demoni alle lotte politiche di Milano.
Mi pare sia diventato necessario leggere questi dislocamenti geografici e tonali non come schizzi che in futuro diverranno logici attraverso una prosa transizionale, ma piuttosto come vertiginosi movimenti che ci forzano ad abbandonare i confini stabili degli stati-nazione, produttori d’energia, in favore di una vita sotterranea sensuale e sciamante. I combustibili che circolano sottoterra in Petrolio sono vivi, nel passato e nel presente, come divinità primordiali. Il petrolio è il moderno vello d’oro, non soltanto nel più ovvio senso metaforico, ma molto più profondamente, dato che Pasolini non può (ancora) farne il solo soggetto del libro, come sembrerebbe impegnato nel titolo e nell’eliminare tutta la prosa e la poesia, tutto il testo che verrà e che potrebbe dare una specifica traiettoria narrativa.
Non può finire il suo lavoro, perché Petrolio non è semplicemente un altro dei suoi lavori. È la (sua) vita. Se lo avesse finito, sarebbe stato consumato, come i combustibili. Ciò che rende Petrolio così tempestivo, oggi, nell’antropocene, è precisamente il suo essere così profondamente legato all’idea di scrittura come potenzialità. Le scelte, ancora da fare, o i testi potenzialmente successivi non sapremo mai se Pasolini li avrebbe lasciati nel testo o eliminati o se avrebbe tolto qualche ambiguità: questo è ciò che rende il testo vivo e aperto a diversi futuri a cui un romanzo convenzionale, messo al mondo dal suo autore, non potrebbe mai avvicinarsi.
Petrolio incarna un’idea di futuro, non un futuro riproduttivo e etero-normativo, ma un’altra temporalità, un messianismo queer forse, precisamente nella sua resistenza, o dovremmo dire fallimento, a fissare sulla pagina un tipo di scelte narrative omnicomprensive che non permettono ripensamenti. Pasolini scriveva prima di una generale consapevolezza del cambiamento climatico in tutta la sua specificità, cioè, non solo di una crisi di inquinamento, di spazzatura, di cicatrici sulla superficie della terra o di rifiuti nucleari, insomma prima di un tempo come il nostro in cui l’emissione di gas, perfettamente naturali e invisibili, da sotto la superficie fin nell’atmosfera si verifica ad un ritmo molto più veloce di quella naturale, in un certo senso, quindi, prima di una crisi di temporalità più che di sostanza. Eppure, in questo strano lavoro, letto in tutti i suoi disordini, che mettono insieme alchimia, petrolio, lascivi spiriti femminili che eruttano dai sotterranei popolati da demoni, solo così cominciamo ad avvicinarci, senza mai raggiungerla, ad una lingua adeguata ai nostri tempi.
(Traduzione di Luca Peretti)
*Foto in copertina: © Vittorio La Verde