Era «il nostro Decamerone o, più concretamente, il temporalizzarsi di quell’eremo interiore dove sapevamo rifugiarci, e dove non giungeva neppure l’eco di quei tremendi scoppi che notte e giorno scuotevano la terra». Era una «specie di Arcadia o, con più gioia, […] una specie, molto rustica invero, di salotto letterario». Nelle pagine di diario dei Quaderni Rossi [P.P.Pasolini, Romanzi e racconti (1946-1961), a cura di W. Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano 1998, pp.151-152], Pasolini descrive così l’atmosfera dell’”Academiuta di lenga furlana”, il cenacolo letterario fondato dal giovane poeta il 18 febbraio 1945 a Versuta, il piccolo borgo contadino a un passo da Casarsa dove aveva trovato rifugio nell’autunno del 1944 con la madre Susanna, in fuga dai bombardamenti alleati e dall’incrudelirsi della guerra nel suo atto finale. Era un modo per “resistere” alla violenza della storia con gli strumenti disarmati della cultura e della parola da esaltare in poesia. Ne facevano parte alcuni giovani amici artisti e soprattutto gli adolescenti allievi della scuola privata che il maestro Pier Paolo, quasi un Socrate di campagna, aveva organizzato nel villaggio. Tra questi anche il cugino Nico Naldini, che poi sarebbe diventato a sua volta poeta e scrittore, oltre che collaboratore per il cinema di Pier Paolo. A settanta anni da quella esperienza il giornalista Mario Brandolin ne ha raccolto i ricordi in una bella intervista apparsa sul “Messaggero Veneto” del 14 febbraio 2015.
di Mario Brandolin
www.messaggeroveneto.it – 14 febbraio 2015
«Era un pomeriggio di domenica, quel 18 febbraio del 1945, e come al solito noi ragazzi sfollati a Versuta ci incontravamo per stare insieme, leggere quello che avevamo scritto durante la settimana, ascoltare musica… erano incontri extrascolastici. Pasolini allora aveva 23 anni e noi eravamo suoi allievi, quindici-sedicenni, facevamo parte della scuoletta che Pasolini aveva messo in piedi per farci studiare e prepararci agli esami. Ebbene – ricorda lo scrittore Nico Naldini che faceva parte di quel gruppetto di ragazzi –, quella domenica Pasolini se ne venne fuori con l’idea di un’Academiuta di lenga furlana. Stese l’atto fondativo e io venni nominato segretario per la mia bella calligrafia».
Quali ragioni addusse Pasolini in quell’occasione?
Bisognava rendere concreti nel modo di un’associazione culturale i punti di vista da lui propugnati e da noi assimilati senza discutere. E cioè che il friulano è una lingua che va trattata a livello di nobiltà delle lingue neolatine; che esiste una poesia dialettale che per forza di cose è minore in quanto riflette un piccolo mondo provinciale, mentre noi eravamo già proiettati nell’assimilazione della grande poesia europea… Eliot, Pound, Machado, Garcia Lorca erano i nostri testi e su questa scia componevamo, ognuno dando un’interpretazione propria al mondo che ci circondava.
Che era poi il mondo contadino.
Sì, il vecchissimo mondo dalla usanze antichissime che risuonava in noi in modo molto affascinante, al punto che, quando ad esempio leggevamo di un tramonto in Virgilio, quello era rappresentato dai tramonti del piccolo villaggio di Versuta. Noi ponevamo la realtà su un piano estremamente estetico, sofisticato.
L’Academiuta era qualcosa di simile a un’isola felice, mentre intorno imperversava la guerra?
No, la guerra influiva, eccome: nel senso che la guerra è pura alienazione, paura, pericolo, contingenza di fatti spaventosi, negativi, in cui uno può perdersi in un terrore costante, visti i bombardamenti continui, i rastrellamenti, le incursioni notturne di Pippo che sganciava bombe; ma tutto questo veniva in qualche modo sublimato. Era la presenza del terrore che creava in noi l’esigenza di un mondo che era l’esatto contrario, il mondo della bellezza, della libertà e del sogno.
Che succedeva duranti gli incontri?
Ognuno di noi leggeva le sue poesie, c’era un rapido giudizio di Pasolini – mai troppo severo, ma neanche mai troppo compiacente – che ci faceva capire dove erano riuscite o meno e poi si raccoglieva il materiale per le rivistine, lo “Stroligut”.
Anche Pasolini faceva sentire le sue cose?
Sì, anche lui si metteva in gioco. La regola non scritta, ma assimilata da tutti, era che non c’era un maestro superiore e un allievo inferiore: il maestro imparava dall’allievo e viceversa.
Qualche aneddoto, qualche episodio?
No, niente di aneddotico: per noi era naturale, ritrovarsi lì la domenica, in quella stanzetta piccola dove vivevano Pasolini e sua madre, con i due letti, un tavolo al muro dove lui lavorava e un tavolinetto centrale attorno al quale ci radunavamo, con Susanna che ci preparava qualcosa da bere o da mangiare.
Cosa rappresentavano per lei quei pomeriggi dell’Academiuta?
La possibilità di essere poeta e di vivere la libertà, il sogno, la possibilità non di evadere dalla realtà, ma di comprenderla negli aspetti in cui il mondo di allora si rivelava meglio: la fatica dei lavori nei campi, gli odori delle stalle … era tutto un mondo molto sentito, molto amato.
Quanto le è servito?
Tantissimo. Un apprendistato alla poesia sfociato in un primo volumetto nel 1948, Seris par un frut, ripubblicato da Einaudi col titolo La Curva di San Floreano. (E, aggiungiamo prossimamente nella raccolta dell’opera omnia poetica che uscirà per Guanda, ndr).
Come è finita l’Academiuta?
Non sarà mai finita, finché, come diceva Pasolini, ci sarà qualcuno di noi che possiamo scrivere poesia in una lingua diversa dall’italiano.
Che cosa le è rimasto nel cuore di quell’esperienza?
La felicità dell’amicizia e l’intensità dei ricordi. Anche quelli politici, legati agli ideali di giustizia, che in Pasolini divennero impegno concreto, in me molto meno, perché non ho la tendenza a riconoscermi nella politica. Negli ideali sì, nelle Lettere di Gramsci mi riconosco, nel partito comunista no.
Questo allora; figurarsi oggi?
Meno male che ho il telecomando e quando incappo in qualche politico cambio canale e cerco disperatamente Stanlio e Ollio.