Riprendiamo dal sito dell’Università Bicocca di Milano un’ interessante intervista rilasciata a Alberto Ghidini da Raffaele Mantegazza, professore associato di Pedagogia Interculturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione e, tra tante pubblicazioni, autore anche del saggio Con pura passione. L’eros pedagogico di Pier Paolo Pasolini (ed. La Battaglia, Palermo 1996). Di quel lavoro, oggi introvabile, sono riprese e aggiornate molte riflessioni sulla mutazione del nuovo sistema di potere “diffuso”, con riflessi anche in campo pedagogico, di cui Pasolini aveva presagito i caratteri inediti e insieme le possibili vie di resistenza.
Intervista a Raffaele Mantegazza
a cura di Alberto Ghidini
www.formazione.unimib.it
Dipartimento di Scienze umane per la formazione “Riccardo Massa”
«Il potere è un sistema di educazione (…) uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano allo stesso modo». Così si pronuncia Pier Paolo Pasolini in un’intervista rilasciata poche ore prima del suo assassinio. Da qualche tempo, sembrava essersi spostato nel campo dell’educazione in senso lato per cercare di capire meglio la nuova forma del potere, una forma totale e totalitaristica, che non lascia più un “fuori”.
Dunque, Pasolini era innanzitutto un sismografo. Come sempre, con la sua grandissima sensibilità politica, aveva colto, già a partire dai primi anni Settanta, alcune tendenze emergenti nella realtà oggettiva. Perciò, a dire il vero, non è Pasolini che si sposta, ma il potere, questo nuovo tipo di potere che lui stava cercando di tracciare e comprendere. Per capire questo spostamento del potere nel vasto campo del pedagogico disperso nella società, bisogna fare un passo indietro. Nel Sessantotto, la scuola e l’università, massime istituzioni educative del capitalismo, vengono attaccate dall’interno, in tutte le loro componenti. Da qui in poi, perdono la loro funzione ideologica, di ottundimento delle coscienze, di perpetuazione di certe categorie politiche. La protesta di studenti e studentesse, lavoratrici e lavoratori, porta il potere a ripensare i luoghi in cui si esercita il dominio sui soggetti. Non più soltanto la scuola, l’università. Il nuovo progetto è quello di pedagogizzare tutto. Paradossalmente, il potere si descolarizza: ovviamente, non in senso illiciano .
L’università e la scuola sono ambiti troppo ristretti per la costituzione di una soggettività funzionale al sistema, perciò ad essi bisogna affiancare dei dispositivi pedagogici esterni. In qualche modo, il potere, deistituzionalizzandosi, fa perdere i riferimenti tradizionali della contestazione. In fin dei conti, il barone accademico, fino alla fine degli anni Sessanta, era un riferimento molto chiaro per il ribelle, così come erano dei riferimenti precisi i programmi accademici e anche una certa vecchiezza dell’università e dell’istruzione.
Con l’arrivo della comunicazione di massa le cose cambiano in maniera drastica. Pasolini se ne rende conto e identifica nella televisione un nuovo e potente strumento pedagogico. Non è il primo, già Marcuse e la Scuola di Francoforte, in particolare Adorno, se ne erano accorti. In Italia, però, a differenza degli Stati Uniti o di altri paesi europei, era più difficile capirlo, soprattutto per una certa difficoltà di lettura e analisi da parte della sinistra. Ciò nonostante, Pasolini, da comunista e da un punto di osservazione volutamente interno ai fenomeni sociali, intuisce che c’è un potere pedagogico non più giocato solo ed esclusivamente dentro le istituzioni. Giustamente, come dicevi tu, si tratta di un potere che sta diventando totale, completo, perché non più arginato dalle istituzioni, che, comunque, garantiscono diritti e che, loro malgrado, permettono la ribellione.
Per questo ho l’impressione che Pasolini, nel constatare la smaterializzazione del potere nel suo stesso essere onnipresente, abbia anticipato i tempi. All’epoca c’era chi faceva le stesse analisi sul piano economico, prendendo in esame il potere delle multinazionali. Lui, invece, lavorava più sul piano sociale, politico e, in questo caso, pedagogico. La cosa interessante è che non era un pedagogista e nemmeno un educatore. Aveva fatto l’insegnante, ma non era il suo mestiere. Molto spesso, quando i non pedagogisti si occupano di educazione riescono a far luce su quelle zone d’ombra e su quei dispositivi latenti che la pedagogia ufficiale, accademica o non, fa fatica a vedere. Pasolini ne è un esempio: proprio in virtù della sua provenienza politica riesce a leggere dall’esterno lo straordinario portato politico dell’educazione.
Qualche tempo fa, in un breve articolo apparso su “Il Sole 24ore”, Goffredo Fofi ha tristemente constatato che Pasolini può essere considerato, a buon diritto, insieme a don Lorenzo Milani, come l’ultimo vero pedagogista italiano. Alfonso Berardinelli scrive che il Pasolini luterano e corsaro ebbe la spinta ideale più forte a scrivere i suoi ultimi interventi da alcuni autori italiani suoi contemporanei, tra i quali spicca il nome del priore di Barbiana . Anche don Milani, che non era propriamente un pedagogista – o, comunque, se pure lo si vuole ritenere tale, può senza meno essere considerato un “pedagogista fuori dal coro” – credeva, come Pasolini, nel potenziale rivoluzionario dell’educazione.
Sì, effettivamente penso che entrambi, in fondo, credessero nella possibilità concreta di modificare radicalmente lo stato di cose esistente attraverso l’educazione. Tuttavia, non credo che abbiano moltissimo in comune, se non il fatto di essere moralisti, nel senso montaignano e, per certi versi, adorniano, del termine. Stiamo parlando di due autori che riportano in auge il grande moralismo del Cinquecento. Oggi il termine “moralismo” viene usato in senso squalificante. Spesso si confonde il moralismo con la morale. Pasolini, come don Milani, in virtù di un’appartenenza, può permettersi di essere moralista. Stiamo parlando di un’appartenenza che, per Pasolini, non è ideologica stricto sensu, così come non è di fede in senso strettissimo per don Milani. È, piuttosto, un modo di abitare l’ideologia, per Pasolini, e la fede, per don Milani, in maniera molto anarchica e personale, un modo in virtù del quale entrambi possono permettersi di essere moralisti. Ecco, il coraggio di essere moralisti, questo sì può essere considerato il principale elemento in comune tra i due. Un coraggio che, certamente, oggi, di fronte al grado zero della vivibilità di questo mondo, andrebbe ripreso in mano.
C’è un motto degli intellettuali neri americani degli anni Sessanta, secondo cui bisogna «gettare il proprio corpo nella lotta», al quale sembra, a un certo punto, ispirarsi Pasolini. Mi riferisco, in particolare, al Pasolini degli anni Settanta, anche se è un’idea che si ritrova già nei versi e sullo sfondo di Poeta delle ceneri, scritto, non a caso, tra il 1966 e il 1967, a cavallo di due viaggi negli Stati Uniti in cui l’intellettuale friulano entra in contatto con i movimenti neri più radicali.
Sì, però è evidente che, se Pasolini butta il corpo nella lotta, lo butta come corpo portatore di desiderio. Io ritengo che questo sia un elemento di novità rispetto ad altre esperienze di lotta e di radicalità di quegli anni. Il corpo di Pasolini non è lo strumento, bensì, in quanto corpo desiderante, sulla scia dell’ Anti-Edipo di Deleuze e Guattari , la posta in gioco della lotta. Pasolini getta il corpo perché il suo corpo porta in sé un desiderio erotico che lo spinge a lottare affinché questo stesso desiderio sia legittimato. Per le Black Panthers, invece, ho l’impressione che nella maggior parte dei casi il corpo sia portatore di una differenza data come tale e, senz’altro, come tale, portatrice di una identità sì oppositiva, ma, quasi sempre, debole sul piano del desiderio. Non credo che Pasolini, come i giovani del Black Panther Party, utilizzi il proprio corpo per opporsi.
D’altra parte, per lui, il corpo non andrebbe mai ridotto a strumento. Il corpo è sempre un corpo portatore di eros. Un eros che è mezzo, ma anche fine della lotta. Mi sembra, questo, un ulteriore elemento di novità. In ciò Pasolini è eretico. Eretico rispetto alla tradizione, per così dire, “bacchettona”, del partito comunista di quegli anni, che ha una visione del corpo e della lotta del tutto simile a quella cattolica. Anche su questo Pasolini è dirompente e ancora molto attuale: il corpo desiderante come qualcosa da gettare nella lotta e, al tempo stesso, da recuperare, alla fine della lotta, come risultato.
Che cosa vide Pasolini di tanto spaventoso per arrivare ad alzare la voce così forte e con l’obiettivo esplicito di far sentire a largo raggio l’urgenza di continuare, sì, a combattere, ma educando, quasi che ritenesse l’educazione il capolinea e, al tempo stesso, l’ultima speranza di fronte al fascismo “morbido” del conformismo? Una speranza data solo per i disperati, del tutto simile alla speranza benjaminiana all’inizio dell’era fascista evocata da Marcuse in conclusione del capitolo finale dell’ Uomo a una dimensione , intitolato – come non tenerne conto? – Le possibilità delle alternative.
Pasolini aveva visto arrivare la cosiddetta “pedagogia diffusa”. Il mio maestro e amico Riccardo Massa era solito ripetere che oggi il pedagogico è in ogni dove, persino là dove non ce lo si aspetta. Dispositivi pedagogici disseminati un po’ ovunque, quindi, in particolare nella comunicazione massmediatica e nella pubblicità commerciale. Pasolini l’aveva intuito chiaramente. Si prenda, per esempio, la sua raffinatissima analisi dei jeans Jesus, che puntualmente propongo agli studenti dei miei corsi. Qui, partendo da uno slogan – «Non avrai altri jeans all’infuori di me!», al quale si accompagna una foto di Oliviero Toscani – e da un paio di jeans, due “oggetti” apparentemente innocui, Pasolini riesce a ricostruire le tecniche del potere che presiedono alla formazione del soggetto-consumatore.
Applicata al linguaggio pubblicitario di oggi, la sua analisi è ancora attualissima. Credo che Pasolini, come Adorno o, per certi versi, Marcuse, fosse consapevole del fatto che non esiste più nulla di innocuo. Se ci pensiamo, ciò è veramente spaventoso. Ecco perché è necessario esercitare la cultura del sospetto riguardo a tutto. Ciò significa essere capaci di vedere che nulla è per caso. Non si tratta di fare i dietrologi, ma di ricostruire in maniera specifica il processo, la dinamica storica. Lo si può fare solo se si è esperti dell’oggetto. Bisogna, con Marx, conoscere «la logica specifica dell’oggetto specifico». Pasolini, che non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani con le questioni più tecniche degli argomenti che trattava, aveva fatto suo questo precetto.
A proposito del processo, della dinamica storica e degli oggetti di interesse della sua analisi: Pasolini ha sempre cercato di leggere le cose dall’interno, e cioè dentro la storia, nel vivo delle sue dinamiche e dei suoi processi, pur senza accettare in maniera passiva il suo potere di trasformare le realtà e gli uomini.
Il problema è sempre l’origine delle cose. Ad esempio, per capire come si è affermato il neocapitalismo televisivo in Italia è necessario, per prima cosa, capire come il servizio televisivo italiano nasca con un intento pedagogico: si vuole creare un popolo, il popolo che manca. Per quel tipo di televisione si poteva ancora concepire un uso pedagogico: si pensi, ad esempio alla TV del maestro Alberto Manzi. Lo stesso non può valere per la televisione di oggi e per le nuove tecnologie che, invece, nascono con intenti di controllo. Nondimeno, se non si considerano i processi e le condizioni storiche che hanno consentito alle nuove tecnologie e alla televisione di penetrare così profondamente nella vita e nel costume degli italiani, non si può comprendere a pieno il fenomeno.
In Gennariello, nel primo capitolo dedicato alle fonti educative più immediate, Pasolini scrive: «L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito» . Pasolini vuole dirci: prestate attenzione al «sistema degli oggetti», inteso, alla Baudrillard, come la casa e le cose in cui e di cui viviamo, che ci parlano, da cui siamo parlati e determinati, che ci rendono corporeamente quello che siamo .
Direi, non tanto prestare attenzione agli oggetti e alle cose, ma all’articolazione degli oggetti e delle cose sui corpi. La pedagogia dovrebbe occuparsi del rapporto tra i corpi e le cose, di come questi si intersecano gli uni con gli altri e viceversa. Forse, a causa di una metafisica dualista, siamo abituati a vedere le cose e gli oggetti come separati da noi. Li usiamo, ma non capiamo quanto loro ci usino, quanto ci parlino, come del resto dicevi tu. Nel Gennariello Pasolini ragiona sugli effetti antropogenetici dell’articolazione corpi-oggetti e di quella corpi-corpi, e sul fatto che la pedagogia dovrebbe occuparsi di queste articolazioni. Riguardo all’antropogenesi ambientale, che avviene, cioè, nelle strutture fisiche ed architettoniche dell’ambiente in cui si vive, direi che il caso di Bologna è emblematico. Pasolini se ne occupa, nel Gennariello, nel capitolo Bologna, città consumista e comunista , mostrando come la città comunista, l’icona comunista per eccellenza, sia, in realtà, una città comunista e consumista allo stesso tempo. Ideologicamente comunista, ma disseminata di dispositivi consumistici, proprio come le nostre odierne città consumistiche, pullulanti di centri commerciali, negozi, fast food, ristoranti, banche, schermi, insegne e cartellonistica pubblicitaria. In fondo, Pasolini, pone una questione cruciale, e lo fa avvertendo: se non modificate l’ambiente non potete dichiararvi comunisti. Una città comunista disseminata di dispositivi consumisti educa al comunismo o all’omologazione? A quale tipo di educazione è sottoposto il corpo di un ragazzo nella Bologna di quegli anni e, attualizzando, nelle nostre città, oggi? Anche questa è una riflessione interessante sulla corporeità su cui, forse, vale la pena tornare.
Tornare al corpo, quindi, con Pasolini, passando da Foucault…
D’accordo, anche se a dire il vero mi sono un po’ stufato dell’uso che oggi si fa di Foucault. La sua pars destruens, però, rimane insuperata e, perciò, ancora molto interessante. In ogni modo, la cosa che è bene tenere in mente è questa: il potere non lavora sul corpo in maniera diretta, se non quando tortura, impicca, fucila ecc., ma lavora su tutto ciò che sta intorno ad esso, dissemina il corpo di oggetti, lo circonda di situazioni, spazi, tempi, simboli, lo determina geograficamente, socialmente, economicamente, temporalmente. Non più disciplina del corpo, ma potere coercitivo .
Deleuze, in uno scritto tanto enigmatico quanto potente per comprendere il nuovo regime di dominazione, sostiene che nelle società di controllo c’è questa tendenza, soprattutto da parte dei giovani, a voler essere “motivati”, a farsi dire quali sono le proprie passioni, i propri bisogni e desideri.
In effetti, Deleuze, anche insieme a Guattari, riuscì a cogliere meglio il nuovo potere e la nuova società. In ogni modo, vorrei aggiungere che già in conclusione della sua Storia della follia Foucault afferma che anche il desiderio è parte di un progetto di potere. Molto suggestivo. Purtroppo, però, Foucault sembra rimanere così affascinato da questo concetto di potere onnicomprensivo da voler far rientrare tutto e ad ogni costo come dinamica di potere. Così facendo, perde di vista il punto dal quale scardinare il dominio. Credo che Pasolini, Deleuze, Guattari e altri, invece, abbiano ben chiaro il punto di rottura, vale a dire il desiderio, e lo mantengano ben vivo.
Dal punto di vista di una «pedagogia della resistenza» nei confronti del dominio, quali categorie pasoliniane possono essere utilizzate oggi per resistere al potere e ai suoi apparati pedagogici?
Direi che sono almeno tre. In primo luogo, il sacro. La riscoperta della parola sacra in un’epoca di idolatrie come forma di resistenza al dominio e alle sue mostruosità linguistiche. Pasolini era consapevole della possibilità di smascherare, attraverso il sacro, la precarietà, la provvisorietà e, quindi, in sostanza, la banalità di tutto ciò che idolatricamente viene spacciato per eterno, come, ad esempio, il capitalismo.
Poi, secondo elemento, la sottrazione del corpo, intesa come sottrazione dal dominio. Abbiamo detto che il potere, oggi, sembra essere ovunque. Penetra nei corpi, negli spazi, nei tempi, nei rituali della vita quotidiana. Bene, allora, con Pasolini, è necessario sottrarsi e sottrarre il proprio corpo per non permettere a nessuno di dirlo, di descrivere il nostro desiderio. Sottrarsi, dunque, a qualunque eterodeterminazione. Come? Senza fare nulla, semplicemente sottraendosi. È quel che sostiene anche Slavoj Zizek nella sua analisi della violenza invisibile. Ci si ostina a dire, fare, giudicare, agire.Zizek è convinto che sia molto meglio un’analisi critica distaccata, una giusta indifferenza, nel segno della sottrazione. Di fronte alla violenza “simbolica” del linguaggio e delle forme e alla violenza “sistemica” dell’economia e della politica, chiunque si muova, indipendentemente da come lo faccia, fa persistere uno stato di cose di cui è un pezzo di struttura. Perciò, l’atto di resistenza diventa la sottrazione di quel terreno non ancora colonizzato dal potere, per dirla con Pasolini, che è il corpo.
Infine, l’eros pedagogico. Qui dobbiamo guardare al rapporto impervio e tormentato di Pasolini con i ragazzi. Pasolini era omosessuale e innamorato della gioventù. Il suo sguardo sui ragazzi non è mai neutro. È, appunto, uno sguardo innamorato. La dimensione erotica costituisce la forza del suo rapporto educativo con i giovani. Mi preme sottolineare una cosa, però, per cautelarci da ogni eventuale accusa moralistica: che in pedagogia si torni a pensare e a praticare uno sguardo innamorato, corporeo, fisico sui ragazzi, come già accadeva nell’età greca, non significa che lo si faccia in funzione del soddisfacimento di una passione carnale. Al contrario, come ho avuto modo di scrivere in un saggio ormai introvabile pubblicato alla fine degli anni Novanta, si tratta di un innamoramento ascetico, che torna ad animare la pura passione della pedagogia, che trasforma in eros pedagogico la passione carnale . Vale a dire: che l’eros torni ad affermarsi, quindi, e che chi educa possa nutrirsi di amore e fare di questo amore l’anima profonda della sua osservazione fenomenologica e del suo agire pedagogico. Non vi è ascesi più profonda. Attraverso il suo sguardo innamorato, nella distanza, come verso la Terra lo sguardo dei cosmonauti, Pasolini, in un gioco di sguardi, ci porta a gettare il nostro sguardo su un potere che non si accontenta più di agire dall’esterno direttamente sul corpo dell’individuo lasciandone intatta la coscienza, ma, come dicevamo prima, penetra nel mentale, aggirando la possibilità di resistenza individuale.
Un potere latente e pedagogico. Pasolinianamente, un potere che si presenta come, appunto, «sistema di educazione». Una nuova dimensione del potere di fronte alla quale recuperare l’unico tipo di rapporto non previsto, anzi, osteggiato: il rapporto personale, frontale, fisico, corporeo.