18 luglio 2013
Nel cinema, come in tutta la sua vita, Pier Paolo Pasolini fu un irregolare. Eppure egli stesso pensava che nei suoi film avesse dato il meglio di sé, poiché aveva potuto esprimere la sua “nota mozartiana”, ovvero l’aspetto giocoso della sua personalità. Col cinema aveva flirtato a lungo, lavorando come comparsa quando, costretto ad abbandonare Casarsa, si era trovato senza lavoro, scrivendo poi i dialoghi in romanesco de Le notti di Cabiria di Federico Fellini, poi soggetti per altri registi (il migliore La notte brava di Mauro Bolognini), fino al debutto folgorante con Accattone (1961), sponsorizzato da Fellini stesso, che poi abbandonò il progetto spaventato dalla manchevolezza tecnica di Pasolini. Fortuna volle che il produttore Alfredo Bini credesse nel film, dove l’autore, affiancato dallo straordinario operatore Tonino Delli Colli, riuscì a trasformare l’imperizia in originalità. Accattone, diretta continuazione dei suoi romanzi romani, è un eccezionale affresco popolare, interpretato dall’attore “preso dalla strada” Franco Citti, che riprende e supera l’ormai abbandonato neorealismo. Meno convincente il successivo Mamma Roma (1962), dove una Anna Magnani fin troppo in parte finisce per mangiarsi il film, pure nobilitato dai molti riferimenti alla pittura rinascimentale.
Nel 1964 Pasolini, ormai padrone del mestiere di regista, affronta la sua opera più ambiziosa, Il Vangelo secondo Matteo. Girato per lo più a Matera e interpretato da uno studente conosciuto casualmente, Enrique Irazoqui, nel ruolo di Gesù, e dalla madre Susanna, nel ruolo di Maria, Il Vangelo è il film pasoliniano più perfetto sul piano stilistico, debitore dei maestri Dreyer ed Eisenstein, e forse l’unico film sull’argomento degno di essere ricordato. Al festival di Venezia riceve il Gran premio della giuria e gli sputi dei militanti neofascisti. Resta però il rimpianto di non averlo visto interpretato da colui che era stato il primo interpellato per la parte di Gesù, ovvero Jack Kerouac.
Per il lungometraggio successivo, Uccellacci e uccellini (1966), Pasolini ha una nuova, geniale, idea di casting: affidare a Totò un ruolo drammatico, persino un po’ sgradevole, per cui fu poi premiato a Cannes. Questo film, sintesi di favola surreale, apologo marxista e fioretto francescano, è tratto da tre racconti precedentemente scritti e pubblicati in francese, e certamente è il più noto ed uno dei più riusciti. Divertenti anche i titoli di testa cantati da Domenico Modugno. Peccato che nel montaggio finale sia stato escluso l’episodio L’aquila, che alla lettura del soggetto appare molto bello e poetico. Aiuto regista di Pasolini in Uccellacci e Uccellini fu Vincenzo Cerami, suo allievo prediletto, non più con noi da pochi giorni al momento di questa pubblicazione.
In questo periodo Pasolini gira anche due documentari, Comizi d’amore, un’inchiesta sulla sessualità in Italia trasmessa dalla TV solo negli anni ’80, e La rabbia, una sorta di blob ante litteram che doveva essere commentato, oltre che da lui, da un intellettuale conservatore. La scelta del produttore Ferrante di un mediocre scrittore come Guareschi fece sì che Pasolini (che aveva proposto Montanelli o Barzini) disconoscesse l’opera, che, oggettivamente non riuscita, ebbe un esito disastroso nelle sale. Partecipa inoltre, secondo la moda dell’epoca, ad alcuni film ad episodi: a Ro.Go.Pa.G. Laviamoci il cervello (1963), con La ricotta, a Le streghe (1967), con La terra vista dalla luna e a Capriccio all’italiana (1968), con Che cosa sono le nuvole?.
Con la parziale eccezione del secondo, che presenta anche due buone prove di Visconti e De Sica, i tre corti Pasoliniani sono gioielli in una cornice mediocre, a parere di chi scrive tra i vertici assoluti della cinematografia italiana. Nel raccontare la tragicomica odissea del morto di fame Stracci, che paradossalmente muore quando finalmente riesce a mangiare, inframmezzate alle criptiche, ma lucidissime dichiarazioni di un regista genio incompreso (interpretato da Orson Welles!); la tenera favola dell’incontro tra la ciancicata famiglia Miao (di nuovo Totò e Ninetto Davoli) e la fata cieca Assurdina (Silvana Mangano); infine un Otello interpretato da marionette (ancora Totò e Davoli, Franchi e Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti, Capannelle, Modugno e il poeta Francesco Leonetti) che diventa rivoluzione proletaria, Pasolini fonde perfettamente atmosfera fiabesca, manifesto ideologico e spettacolo cinematografico puro, il tutto con quello humour che manca a tante operazioni simili intraprese all’epoca, per le quali il confronto con l’opera pasoliniana è impietoso.
E’ in questi tre episodi che l’autore ha davvero espresso la sua nota mozartiana. Nel 1969 partecipa ad un altro film ad episodi, l’ideologico Amore e rabbia, ma questa volta il suo corto La sequenza del fiore di carta, pur valido, è meno interessante dei precedenti. A questo punto l’approccio di Pasolini al cinema muta radicalmente. Afferma il regista:
da buon marxista intendevo fare film popolari. Poi ho scoperto che il popolo non solo non va a vedere i miei film, ma non va del tutto al cinema. Allora ho deciso di rivolgermi ad una ristretta élite d’intellettuali, compiendo così un gesto autenticamente rivoluzionario.
Nel 1967 Edipo Re, da Sofocle, inizia una trilogia dedicata al teatro greco. Con un cast ancora una volta composito e geniale (i non-attori Citti e Davoli con Massimo Girotti, Silvana Mangano, Alida Valli, Carmelo Bene e Julian Beck), fedele al testo originale, sebbene il prologo sia ambientato nel ventennio fascista (il momento storico in cui i padri hanno ucciso i figli?) e l’epilogo nella Bologna contemporanea, è un film perfetto sul piano stilistico, splendidamente recitato, pieno di rimandi psicoanalitici (e semi autobiografici), una delle opere più forti e originali del periodo. Non si può dire altrettanto del capitolo seguente della trilogia, Medea (1969).
Qui la perfezione formale è persino eccessiva e dà un alone di freddezza, e la scelta del cast (Maria Callas e l’atleta Giuseppe Gentile) non altrettanto felice. La Callas recita da cantante lirica, esagerando i toni, e Gentile non si rivela all’altezza. Penso sia una delle opere minori del repertorio pasoliniano, ma non è in assoluto un brutto film. Il terzo episodio, un’Orestiade ambientata in Africa, non sarà mai girato. Tra questi due film Pasolini gira le sue due opere più discusse, Teorema (1968) e Porcile (1969). Teorema è un film cerebrale, algido, impervio nel suo simbolismo, eppure affascinante e coinvolgente. Secondo noi la trama non dimostra affatto il teorema del titolo (un borghese anche se fa una cosa giusta la fa per i motivi sbagliati, perché non ha il senso del sacro), ma la prova dell’intero cast (tra gli altri nuovamente Girotti, la Mangano, la Betti, Anne Wiazemsky, ma su tutti Terence Stamp, che nei panni del misterioso “ospite” dà la sua interpretazione migliore) e la bellezza dello stile ne fanno un film imperdibile. A Venezia vince il premio dei critici cattolici, che per questo saranno severamente bastonati dall’”Osservatore Romano”. Denunciato per oltraggio al pudore, la sentenza di assoluzione recita: trattandosi incontestabilmente di un opera d’arte, non può essere accusato di oscenità.
Porcile è il film pasoliniano che risente di più del clima dell’epoca, da cui Pasolini peraltro prende le distanze, a cominciare dalla coppia di protagonisti, due feticci della Nouvelle Vague come Jean Pierre Léaud (l’alter ego di Truffaut) e Anne Wiazemsky (seconda moglie di Godard). Per certi vezzi autoriali può apparire invecchiato, il debito nei confronti di Godard e Buñuel è troppo forte, i due episodi che lo compongono non sono bene amalgamati; eppure la potenza della denuncia dello sfascio morale del nostro tempo, esplicita già dal titolo, eppure condotta con humour singolare, l’uso perfetto degli ambienti (l’Etna nell’episodio dei cannibali, le ville neoclassiche in quello tedesco), i dialoghi surreali di Léaud e Anne e la bravura del cast intero (citiamo ancora Pierre Clementi, Ugo Tognazzi, Alberto Lionello, Margarita Lozano e Marco Ferreri, improbabile detective) lo rendono un’opera imperfetta ma molto personale, senz’altro ostica per gran parte del pubblico, ma non per i veri cinefili. Teorema e Porcile sono i capitoli della filmografia pasoliniana che più dividono la critica, tra chi li considera troppo datati e chi li pone ai vertici della sua opera.
A questi segue una nuova trilogia, tratta da classici della letteratura con una forte componente erotica, detta Trilogia della vita, composta da Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974). Abbiamo visto questi film in un’ edizione televisiva realmente massacrata dalla censura e probabilmente questo influisce sul nostro giudizio, ma ci sembra che nei primi due di vita ce ne sia ben poca.
Il tentativo di mostrare la gioiosità e la spiritualità popolare attraverso il sesso (tradendo in questo senso Boccaccio e Chaucer, urbani e anticlericali) fallisce e i due film sono piuttosto mogi e noiosi. Non la pensò come noi la giuria del festival di Berlino, assegnando a Il fiore delle Mille e una Notte l’Orso d’oro. In questi due film, che originarono un ricchissimo filone divertente solo nei titoli, Pasolini è anche interprete (come curiosità ricordiamo che Pasolini ha anche doppiato un personaggio di Solaris di Andreij Tarkovskij, con risultati, onestamente, disastrosi). Al contrario, ne Il Fiore delle Mille e una notte Pasolini coglie perfettamente lo spirito fantastico e meraviglioso dell’opera, regalando un altro gioiello agli spettatori. Una terza trilogia, stavolta “della morte”, inizia con Salò, o le 120 giornate di Sodoma (1975), trasposizione dell’opera di de Sade nella repubblichetta mussoliniana. Film radicale, estremo e agghiacciante, che, visto da noi a venticinque anni dall’uscit,a conserva tutta la sua forza. Eppure, mentre oggi qualsiasi telegiornale è più violento e moltissime pubblicità sono più volgari, cosa lo rende così sconvolgente? La bellezza dello stile e l’intelligenza dei significati. Un film da vedere per capire cos’è veramente il potere.
Salò, come tutti i film pasoliniani da Teorema in poi, è sequestrato e poi assolto, ma l’autore non verrà a saperlo: durante il processo è barbaramente assassinato. È possibile che la copia in circolazione non sia stata montata da Pasolini in persona; esistono versioni straniere diverse e i motivi dei tagli non paiono comprensibili.
Era in procinto di iniziare un progetto a lungo meditato, intitolato Re magio randagio o Porno-teo-kolossal, in cui avrebbe diretto il grande Eduardo e che sarebbe stato il suo ultimo film prima del ritorno alla scrittura. Pasolini ha attraversato il cinema italiano nel suo periodo di maggior fulgore e ne è stato, insieme a Fellini e Antonioni, l’interprete più originale e inimitabile. Come molti suoi contemporanei può apparire datato, ma ciò dipende anche dalla mancanza di coraggio del cinema attuale. Alcuni critici considerano il regista Pasolini non al livello dello scrittore, se non episodicamente. Per noi è vero il contrario: Pasolini, uomo geniale, come scrittore è ostico (esclusi i potentissimi Scritti corsari), troppo legato ai contenuti che vuole argomentare, mentre nel cinema ha saputo esprimere tutte le sue capacità, non solo la “nota mozartiana”.