Aldo Colonna è critico cinematografico e scrittore. Ha collaborato e collabora con «Ciak», «Esquire», «la Repubblica», «Il Secolo XIX», «l’Unità» e «il manifesto». È autore del saggio critico biografico Luigi Tenco. Vita breve e morte di un genio musicale (Mondadori, 2002). Ha pubblicato poesie e racconti su «Nuovi Argomenti», «Alfabeta» e «Paragone». È stato assistente di Pupi Avati e di Mario Monicelli per il film Il male oscuro, tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto. Nel 2014, per le edizione Skira, è uscito il suo racconto lungo Borgata Gordiani, scritto in età post-adolescenziale, come il percorso di un apprendistato criminale laddove, in un meticciamento di culture, i protagonisti della narrazione risultano essere allo stesso tempo vittime e carnefici. Essi appartengono ad un’esperienza datata e quindi fissa nel tempo, quello delle borgate e della incursione pasoliniana nel tessuto degradato di una realtà geografica abitata dai senza legge di un immaginifico Far West.
Aldo Colonna firma ora per “il manifesto” un suo accorato e nuovo sondaggio nel mistero della morte di Pasolini, corredandolo con una intervista ad Antonio Mancini, uomo di spicco della Banda della Magliana.
di Aldo Colonna
www.ilmanifesto.info – 15 marzo 2015
«’Na foto è come ‘na pizza/ ‘a sparmi, l’allunghi,‘a poi fa’ rotonna o tutta quadra/e ce metti l’ingredienti che voi te./ Si te posso da’ ‘n conzijo te direi de falla quadra/all’angoli ce metti un po’ de robba che t’eri creso nun c’entrasse più./ Io sto a parla’ de quella pizza quadra cor fagotto ‘n basso,/ la madama colla cicca ‘n bocca che cerca quarche cosa ner taschino e/, indietro,‘n zacco de pischelli a curiosa’./ Allunga ‘a pasta allora nell’angolo de destra, quello in arto, e me pijasse ‘n corpo/poi vede’ ‘na ‘pparizione, come la Madonna der Divino Amore, solo che cià le vesti de un monello / co’ li capelli lunghi lunghi che sembrano appicicati colla còlla/ e le basette che oggi nun se lasseno più cresce’ ./»
Questa ballatetta plana nella cassetta delle lettere e mi impone la risoluzione di una specie di sciarada. È anonima, ça va sans dire, ma è scritta in un romanesco ‘acculturato’, proprio non solo di chi è romano ma che presuppone, anche, una certa proprietà di linguaggio. La prima persona che m’è venuta in mente è Renato Danesi proprio per la padronanza che ha della lingua italiana, ancorché modulata dalla cadenza romanesca, dal giusto uso della consecutio temporis, da quelle pause brevissime che usa nel linguaggio parlato tipiche di chi non vuole sbagliare e di chi, mentalmente, sta assemblando un periodo e voglia che sia consequenziale e privo di incespicature grammaticali e lessicali. Epperò è solo un’associazione di idee prive di sostrato documentale e anzi vorrà scusarci il Danesi per averlo scomodato senza costrutto.
Qual è l’analogia tra una pizza e una foto? E perché entrambe possono essere ‘spalmate’? Alla fine l’analogia è chiara: ‘spalmare’, nel caso di una fotografia, vuol dire ‘ingrandire’. Gli elementi per cercare la foto sono meno criptici. È una di quelle scattate il giorno dopo il delitto. Il corpo di Pasolini giace in terra coperto da un lenzuolo sporco di sangue in tutta la sua lunghezza e ancorato alla terra da due mattoni. In secondo piano, sulla destra, compaiono due poliziotti in divisa e, avanzato, uno in borghese, giubbetto nero di pelle, calzoni a zampa di elefante, con una sigaretta al centro della bocca intento a cercare qualcosa –verosimilmente un accendino– nella tasca sinistra dei pantaloni. Fa da fondale una teoria di pischelli (in età compare solo un uomo, sulla sinistra, coi baffi) tenuti a bada dal filo spinato. Fatto l’ingrandimento, l’attenzione è monopolizzata dall’angolo destro superiore e –aveva ragione l’estensore della poesiola– per poco non mi prende un colpo. L’ingrandimento fa emergere –è quello immediatamente a destra del poliziotto– una figura dalle caratteristiche somatiche molto prossime a quelle di Maurizio Abbatino. In rete circola una sua foto di quell’epoca, quando aveva 21 anni. Al netto da eventuali smentite –anzi, vorremmo nei limiti dell’umano che l’interessato entrasse nella discussione– la domanda che nasce spontanea è che cosa ci facesse proprio in quel posto Maurizio Abbatino. Saremmo meravigliati se Abbatino si stesse recando a pescare cefali e si fosse fermato lì per caso, attirato dal chiacchiericcio indistinto della canea di pischelli attirati morbosamente dal mort’ammazzato. Se realmente si trattasse di Abbatino si aprirebbe uno scenario completamente nuovo nell’affaire Pasolini; vorrebbe dire che la Banda della Magliana, incontrastata agenzia del crimine, sarebbe stata l’affidabile longa manus del regime per togliere di mezzo lo scomodo polemista.
Neofascismo, P2 e mafia possono essere senza tema di smentita definite la «polizia ausiliaria del regime» (la definizione è di Vincenzo Vinciguerra). E la banda della Magliana ha avuto con questi poteri criminali –e spesso occulti– più di un addentellato. Basterebbe ricordare la Orlandi, della cui sparizione fu scomodata senza smentite proprio la banda. O l’omicidio Pecorelli. Ci sarebbe, nel caso, da far conciliare la presenza dei siciliani quella orrenda notte.
Presenza testimoniata da soli due elementi: una Fiat 1300/1500 targata ‘Ct ’ e il termine ‘jarrusu’ sentito pronunciare da Pelosi. Il discorso della targa può essere spiegato in maniera molto semplice. È verosimile cioè che fosse una targa farlocca, tipica dei servizi deviati se nessuno volle fare un’operazione semplicissima, quella di effettuare una visura al PRA. E delle due l’una: se la macchina era regolare, sicuramente era stata rubata a ridosso dell’operazione e una verifica lo avrebbe certificato: si sarebbe scoperto che apparteneva ad un ignaro proprietario. Vogliamo dire che non è certo una targa a determinare l’appartenenza geografica del proprietario. E se una verifica non fu effettuata, fu perché si trattava di una targa di ‘cartone’. Quanto al termine ‘jarrusu’ (un termine dispregiativo, desueto persino in Sicilia, che indica un omosessuale), si dimenticano sempre due cose affrontando ab initio la faccenda: 1° che Pelosi era, soprattutto in quel frangente, una tabula rasa e che avrebbe detto TUTTO ciò che gli fosse stato comandato di ‘ricordare’, 2° che Pelosi è persona intelligente, furba, dalla memoria mnemonica e visiva eccellente e, sostanzialmente, tendente alla menzogna. Spingendoci oltre, potremmo azzardare che fu proprio questo castelletto l’ennesimo depistaggio per sviare i sospetti, quali che fossero.
Ma c’è ancora una ridda di elementi che ci insospettisce. Ancora non è stato spiegato perché nelle tasche di un boss assoluto come Danilo Abbruciati ancora caldo (era in trasferta a Milano per uccidere Roberto Rosone, vice presidente del Banco Ambrosiano che aveva negato ulteriori prestiti del Banco a società riconducibili a Flavio Carboni, e invece fu ucciso da una guardia giurata) venga rinvenuta un’agendina telefonica con il numero privato del Procuratore Guido Guasco (Guasco aveva scartato alcune delle verifiche sul caso Pasolini:ispezione della scocca dell’AlfA, rilievi sulle tracce degli pneumatici). Gli omicidi prelevarono dalle tasche di Pasolini le chiavi del suo appartamento. O ne fecero rapidamente un calco o le sostituirono con uno ‘generico’. Fatto sta che il report della Polizia non stabilisce che il mazzo di chiavi inventariato tra gli oggetti rinvenuti nell’area siano correlati o correlabili all’appartamento di via Eufrate. Le chiavi sarebbero servite agli omicidi per introdursi in casa sua in assenza di Graziella Chiarcossi e della madre Susanna in quei giorni a Casarsa per il funerale. I criminali sottrassero il capitolo «Lampi sull’Eni» con un lavoretto che non era mai stato così agevole. Nessuna dietrologia quindi dietro l’invito alla Chiarcossi a ritirare la denuncia per furto: in assenza di effrazione nessuna denuncia può essere accettata. Rimarrebbe un tassello tutt’altro che insignificante.
Di Dell’Utri si può dire tutto ed il contrario di tutto, ma non che sia uno stupido. Stupidi dovette pensare lui che fossero gli interlocutori quando annunciò di aver trovato il capitolo di Petrolio, essenziale per capire la motivazione dell’assassinio, promessogli da un fantomatico corriere, e quando tornò sui suoi passi asserendo che lo stesso si era rimangiato la parola. Per parafrasare le parole di Pasolini potremmo dire che Dell’Utri ‘sa’. Questi movimenti sono propri del ‘consigliori’: io butto l’amo sperando che qualcuno abbocchi, poi non c’è da meravigliarsi se, dietro pressione o su consiglio motivato di qualcuno, io quell’amo lo tolga dall’acqua. La verità è un esercizio complicato e si guadagna per ‘tessere’, proprio come quelle di un mosaico. Ma l’arma più micidiale del Potere è l’oblio. Tende a sviare, per rimandi, con equivoci creati a bella posta, in un gioco di specchi a tratti ustori a tratti labirintici, tali da far perdere agli inquirenti la strada maestra. Si avvicenderanno le generazioni e Pasolini rimarrà, cristallizzato, nei libri di testo. Già oggi, per le giovani generazioni, il suo è un nome sbiadito; solo un ventenne con un buon grado di acculturazione saprà parlarvene. Solo oggi noi sappiamo che il DC 9 dell’ Itavia fu abbattuto da un missile. Francese, americano? Quando la risposta giusta verrà ufficializzata, l’Italia sarà alle prese con altre problematiche e l’indignazione sarà stemperata da altre indignazioni. D’altronde, se fu commissionato l’omicidio di Rosone per un diniego opposto ai potentati, è così peregrino pensare che Pasolini venisse trucidato per un segreto che avrebbe messo in ginocchio la Repubblica? D’altronde, un target si elimina in modo ‘silenzioso’, lontano da occhi indiscreti. Per Pier Paolo sarebbe bastato un cecchino, ma questo avrebbe ingenerato immediatamente una ridda di congetture. Molto meglio il massacro per mano di omofobi che riscattassero così l’italica virilità. Noi continuiamo la lotta.
Il film
E’ strabiliante il divario tra il potere delle major e la produzione indipendente e vogliamo riferirci proprio al livello qualitativo che non è sempre proporzionale e proporzionato alle forze economiche in campo, e che non sempre sono ‘propulsive’ del prodotto. Abel Ferrara ha confezionato, ad esempio, un Pasolini con accenti accorati, dove è assente però un minimo di ricerca storiografica, con quel finale assolutamente prevedibile e buono solo per la buona coscienza dei benpensanti: Pasolini vittima del suo ‘vizietto’.
Vogliamo parlarvi di Pasolini, la verità nascosta del regista Federico Bruno, filmaker con alle spalle diversi corto e lungometraggi, già assistente di Vittorio Storaro, che ha venduto il suo appartamento per confezionare il suo lungometraggio: 350.000 euro ricavati dalla vendita dell’immobile, 350.000 euro il costo della pellicola.
Girato in un b&n d’antan, sugli stilemi propri del cinema vérité, il film, della durata di poco superiore alle due ore che scivolano via con la leggerezza di un corto, ha alle spalle mesi di preparazione e di ricerca investigativa. Bruno ricostruisce per intero, con l’ausilio del suo falegname di fiducia, tutta la mobilia di tutti gli interni delle case di Pasolini: via Eufrate all’Eur, Chia nel viterbese, ecc. L’appartamento all’Eur, oggi passato ad altri proprietari, è risultato tabù, al punto di minacciare il regista del ricorso alla Polizia; era stata rivolta una semplice domanda sulle reali possibilità di visionare le antiche stanze. Gli eredi non hanno accordato permessi di sorta, tanto meno l’ingresso alla torre di Chia.
L’epilogo descritto da Bruno è speculare a quello del giornalismo d’assalto: fu un delitto su commissione delegato alla manovalanza criminale portata sul posto dal giovane Pelosi convinto di un semplice furto ai danni dello scrittore e, al limite, di una ‘lisciatina’ ma ignaro del sabba di sangue. Il film ripercorre gli ultimi 10 mesi di vita di Pier Paolo in modo cadenzato, per stanze. Gli incontri, il montaggio di Salò, le amicizie, le frequenti partenze, l’idea, ottima, dell’intervista continua condotta da Gideon Bachman come un leit-motiv, l’intervista rilasciata a Furio Colombo, la quotidianità con i suoi angeli custodi,la cugina Graziella e la madre Susanna , i continui dilemmi da cui era vissuto, la ‘contaminatio’ con elementi della mala usati come testimoni del tempo e della banlieu da cui si potessero trarre nuovi spunti per una letteratura tutta da scrivere, una volta accantonata la sua funzione di aedo delle borgate, dove si viveva ancora con regole elementari ma rispettate dai nativi.
L’appunto che potremmo muovere a Bruno è questo: una volta abbracciata la chiave espressionista e abiurato alla cifra simbolista, avrebbe dovuto essere conseguente. Furio Colombo appare troppo grasso, Ninetto Davoli risulta caricaturale, Pelosi è un angelo dai capelli biondi, Antonio Pinna troppo letterario (nella realtà è un uomo di statura inferiore alla media e di corporatura robusta; si è ventilato che fosse lui alla guida dell’Alfa che sormontò il corpo di Pasolini, uccidendolo; è lo stesso che comparve in compagnia dello scrittore al Pincio per l’incontro con i giovani comunisti e che Borgna, presente, si sarebbe chiesto successivamente chi fosse, subodorando che l’uomo potesse essere coinvolto nell’omicidio). Giganteggia però Alberto Testone, odontotecnico della Borgata Fidene, che impersona un Pasolini credibile e convincente. Ne
ripercorre le movenze, ne imita in modo naturalistico la voce e la postura.
Il film è, per molti versi, naȉf e usiamo il termine, in questo contesto, nella sua accezione migliore e artisticamente più rilevante. È la prima volta che l’Italia produce un film su Pasolini ed è sconcertante che sia autoprodotto. L’ANICA rifiutò di vederlo, come pure Barbera a Venezia e Mȕller a Roma. Roberto Ciccutto, allora all’Istituto Luce, tentò con Bruno una sorta di gioco delle tre carte, proponendogli di accantonare il progetto e di lavorare a un documentario con il materiale presente negli archivi del Luce; Borgna non lo volle nell’ambito della mostra sull’artista. Vincenzo Cerami e Dacia Maraini non presenziarono all’anteprima organizzata alla Casa della Cultura in largo Mastroianni. Pasolini, la verità nascosta dovrebbe non solo essere acquisito da un distributore ma, anche, veicolato nelle scuole, nelle Università, negli Istituti di Cultura stante la sua forza dirompente, la sua plasticità, la sua volontà di denuncia, il suo continuo rifuggire da approssimazioni hollywoodiane, la sua necessità di testimonianza.
Intervista a Antonio Mancini
Antonio Mancini è stato elemento di spicco della cosiddetta Banda della Magliana. Personaggio atipico nel panorama della banlieu, Mancini è stato da sempre un attento lettore dell’opera letteraria di Pasolini e studioso,nei limiti dell’affanno di una vita criminale, del marxismo. Dopo gli anni del carcere, esaurita la forza propulsiva di una ribellione quasi terzomondista, Mancini vive ora nelle Marche in una casa che ha il sembiante di un ambiente monastico e che ricorda molto da vicino la casa dove abitava da adolescente nella borgata di San Basilio a Roma. Quasi una sorta di nemesi che gli impone una riflessione quotidiana e senza infingimenti. Nella sua breve biblioteca spiccano varie opere di Marx ed Engels, altre di Trockij, una Cronaca della rivoluzione russa di Sukhanov. Non fa mistero della sua predilezione per due miti contemporanei, Che Guevara e Don Gallo. Da anni si dedica all’accompagno di disabili,che lui chiama i ‘dolenti’, e al soccorso di anziani bisognosi e in difficoltà, mettendosi al loro servizio. Gira per le scuole perché i giovani non facciano le stesse ‘fregnacce’. Non ha perso l’allure di una volta; è solare, comunicativo e, a tratti, un po’ guascone. È palpabile la sua voglia di compenetrarsi in una normalità troppo a lungo fuggita e oggi, forse, unica salvezza. Lavora alla riedizione, per i tipi della Rizzoli, della storia della Banda intitolata Con il sangue negli occhi che uscirà in estate. Il libro si arricchirà di un’appendice su fatti e misfatti di Mafia Capitale.
Hai sempre dichiarato di essere comunista. Come si concilia questo con la tua scelta di vita?
Perché ho capito che i problemi nostri, i problemi delle masse, nessuno li risolveva. E allora dovevamo risolverceli da soli. Chiaramente non sto indicando la mia come una strada da seguire, voglio dire che avrei potuto tranquillamente imbracciare il mitra e fare il brigatista. C’era in me, ma anche in giro, una rabbia e un malcontento che dovevano incanalarsi in una direzione quale che fosse. Noi vivevamo in otto in una casa piccola, mangiavamo tutti i giorni minestrone, mio padre era un brav’uomo, comunista, che cercava di darci una vita migliore anche umiliandosi. E ricordo come fosse adesso la ‘rivoluzione delle case occupate’ a San Basilio, nel ’74, e l’uccisione di un ragazzetto innocente come noi, Fabrizio Ceruso. Mi ricordo che nel servizio d’ordine c’era Erri De Luca. Lui è rimasto incazzato, ma Liguori che fine ha fatto? Io vivevo in una favela, mio padre aspettava la rivoluzione.
Possiamo chiamarlo, tanto per intenderci, destino: ci si trova in un posto piuttosto che in un altro. Potrei citare Pavese: «Ogni uomo ha un destino» o, per volare basso, fare riferimento a un film come Sliding doors.
Esattamente, io lo chiamo viaggio sciamanico. In un altro contesto sarei diventato un brigatista rosso, sarei comunque ‘esploso’. Sono stato in carcere con più di un brigatista, ragazzi in gamba, preparati, spesso acculturati e, ciò che più mi colpiva, dei duri. Noi criminali comuni capitava che ce le dessimo con le guardie carcerarie ma poi capivamo che era meglio lasciar stare; loro no, loro cercavano sempre lo scontro. Conobbi da vicino Ferrari, Naria, tutta gente di cui avevo sentito parlare quando, da libero, mi capitava in mano un ciclostilato intitolato «Mai più senza fucile». Era questa l’atmosfera.
Le guardie usavano disparità di trattamento con le varie tipologie di detenuti?
No, è un luogo comune pensarlo. Le guardie o menavano a tutti, senza guardare in faccia nessuno, o si genuflettevano davanti a tutti. Ho usato il plurale ma la mia considerazione riguarda quelle pagate. Ai brigatisti menavano di meno. Il discorso cambia nei carceri speciali: lì, quando arrivi alla matricola, ti danno subito il benvenuto, indipendentemente da chi sei.
Romanzo criminale ⌊serial Tv, 2008, tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo, ndr⌋ è fedele?
Ci sono molte situazioni costruite, altre completamente romanzate.
Vi è capitato di incontravi ancora, dopo, con gli altri della Banda?
No, non ci siamo più visti. Se hai deciso di metterti alle spalle il passato, ti devi mettere alle spalle tutto ciò che lo riguarda e lo racchiude.
Rimorso, pentimento, redenzione.
Io sono ateo e queste le considero categorie cattoliche. Ero io che uccidevo, io che facevo rapine, non incolpo nessuno, me ne sono assunto la responsabilità. Mi domandi se rifarei le stesse cose? La risposta è NO.
Un desiderio, un rimpianto.
Un desiderio, impossibile: mi piacerebbe ricominciare tutto da capo, magari fermandomi alle rapine ai furgoni blindati. Al limite. Il rimpianto è aver visto morire gente come Eduardo Toscano, Nicolino Selis, Renatino De Pedis, il «Guancialotto», «Er Catena», tutta gente con la quale ero cresciuto. La cosa peggiore è che cominciammo a sbranarci tra noi, una lotta fratricida. Oggi penso: per che cosa sono morti? Per il denaro, per un effimero potere, perché qualcuno di noi voleva diventare come quelli che combattevamo! Non ti fissare con Romanzo criminale, solo Pasolini era riuscito a descrivere bene, in modo compiuto, gli ambienti che ci avevano espresso. La banda è finita in una pozza di sangue e di fango. E io penso a Carminati che, ricco com’è, a sessant’anni si mette a parlare del mondo di sopra e del mondo di sotto.
E allora perché lo faceva?
Per il potere, sempre per il maledetto potere.
Com’è la libertà?
È bellissima, ma quando abbracci una scelta lo metti nel conto che, prima o poi, la puoi perdere. Ho voluto che una mia nipote si chiamasse Cheyenne. Tu dirai «bello, magari un po’ orecchiato», ma sai perché ho voluto che avesse quel nome? Perché viviamo tutti in una riserva.
Che rimane di quella stagione?
Ascolta quello che ti dico. Si spara di meno, molti meno morti sull’asfalto e sai perché? Perché il tempo della semina è terminato, chi è rimasto raccoglie.
Oggi Berlusconi è stato assolto.
Sai quante volte sono stato assolto io? Eppure… anche Carminati fu assolto per l’omicidio Pecorelli! L’assoluzione non conta niente, i conti si fanno con la Storia. Se fosse vivo De Pedis, oggi sarebbe come minimo sottosegretario e Berlusconi è solo un De Pedis in sedicesimo. Io ho smesso di arrossire quando ho scoperto con chi avevo a che fare.
Perché ti sei prodigato nell’assistenza ai disabili?
Un giorno ho visto un ragazzetto dentro uno di quei pulmini che portano in giro le persone con handicap e ho avuto come una specie di folgorazione. Ho chiesto a un mio amico commissario se poteva inserirmi e mi ha accontentato, ha garantito per me. Dovevo in qualche modo ridare indietro qualcosa, sempre niente rispetto a quello che avevo preso. E poi mi hanno insegnato una verità incontrovertibile: siamo noi i disabili.
Ti capita di uscire fuori del seminato qualche volta?
Direi che, cambiando vita, ho acquistato più controllo su me stesso. Eppure una volta ho visto un uomo che picchiava la sua donna e allora ho preso da casa una bottiglia e mi sono avventato su di lui. «Perché le metti le mani addosso?» Lui ha avuto paura e se ne è andato, la donna mi ha ringraziato. È stato un bene per tutti e due, per me e per lui.
Ti mostro questa foto (gli mostro la foto con il corpo di Pasolini coperto da un lenzuolo), questo potrebbe essere Abbatino?
No, non credo, piuttosto questo biondino al centro mi ricorda Johnny Lo Zingaro e questo dietro la scaletta ha i tratti del marchettaro: non mi convince.
Di quella notte che riflessioni puoi fare?
Su due piedi io non avrei lasciato vivo Pelosi, troppo scomodo lasciare in giro un testimone di 17 anni. E poi, se sono un professionista e non mi faccio prendere dall’ansia, io smonto la macchina per prendere i soldi, che dovrebbe essere il motivo dell’imboscata. Ma fu questo il motivo?
Come quella pantomima di Dell’Utri e del capitolo mancante.
Bravo, hai centrato il problema. Prima dice che uno sconosciuto gli ha promesso uno scritto di Pasolini, poi si rimangia la parola e dice che quello gli ha rifilato una sola. È evidente che ha lanciato dei messaggi, bisognerebbe capire che cosa volesse dire con quei messaggi. E a chi parlasse. Di Dell’Utri si può dire tutto, ma non che fosse uno stupido.