Interviste celebri: Pasolini incontra Pound, di Marco Marchi

Interviste celebri. Pasolini incontra Pound
di Marco Marchi

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– 10 luglio 2013
Firenze, 10 luglio 2013 – È stato Enzo Siciliano, in quello che resta con tutta probabilità il suo libro più bello, la Vita di Pasolini, a testimoniare della iniziale indisponibilità di Pasolini a riconoscere la grandezza di Pound: diciamo pure della sua insofferenza sub specie ideologica ad affrontare il caso, ad accedervi veramente tramite quella costituitasi chiave preferenziale deliberatamente bilanciata tra ‘passione e ideologia’ e così, in tali termini, efficiente. Una chiave d’accesso soggetta tuttavia ai mutamenti del tempo, sensibile e storicizzabile anch’essa, disposta ad assestamenti, perfino in balia di stati d’animo.
L’episodio narrato da Siciliano è rivelatore: «Quando lo conobbi, ed era il 1956, avevo appena scritto un articolo su Le ceneri di Gramsci,  il singolo poemetto stampato nella serie di “Nuovi Argomenti“ di Alberto Carocci e Moravia. Lo incontrai nella sua casa romana di via Donna Olimpia. Mi chiese cosa leggessi, e gli parlai di Ezra Pound. Avevo letto e riletto i Pisan Cantos. Mi accanivo a tradurre qualche stralcio da Rock-Drill 85-95 de los cantares. Ebbe una reazione furiosa: Pound razzista, fascista eccetera». «Quel primo incontro fra noi – continua Siciliano – andò male. Quanto a me, militavo a sinistra: ma perché avrei dovuto negare che Pound fosse un grande poeta? In lui leggevo la tragedia della storia e dell’umanesimo vissuta dentro la barbarie della guerra dei nazisti e dei fascisti, Pound era il barbaro penitente, messo tangibilmente a nudo nella gabbia di Pisa, un Whitman redivivo che ha perso e lasciato sfumare in nero la panica bellezza del vivere».
E il problema fondamentale, l’interrogativo più inquietante e più bisognoso di risposte è proprio quello proposto dal giovane Siciliano: l’impossibilità di sacrificare sull’altare dell’ideologia l’autoevidente, luminosa e incontrovertibile grandezza di un autore. Siamo, si ricordi, a metà degli anni Cinquanta: gli anni in cui Pasolini è un autore letterario, meglio un poeta, un poeta che a varie forme della poesia si affida, ma non ancora un regista; un poeta impegnato, un poeta ideologizzato e già sufficientemente eretico e imbarazzante per i suoi, per la sua parte. Le ceneri di Gramsci non sono ancora diventati la raccolta edita da Garzanti (lo sarà l’anno dopo), ma il tema della coniugazione storia-coscienza-poesia costituisce già per Pasolini un banco di prova ineludibile e prima ancora una base fondante.
C’era in Pasolini, detto in altro modo, nel Pasolini di quegli anni, la fiducia – sia pure drammaticamente contesta ed incrinata, dubitata e contraddetta – in una possibilità di incidere sull’evoluzione stessa di quella storia, di poter offrire un determinato contributo di collaborazione a un vero progresso umano, ad un progetto migliorativo gramscianamente societario nel cui cerchio includere, come sempre in Pasolini accade, le trame di una propria esistenza, di una propria visione in nero (come in Whitman, come in Pound, a ben vedere), infera e invece desiderosa di luci, di trasparenze e iridescenze del vivere, di riscatti umani e prima ancora di compartecipazioni, di vicende comuni (magari proprio quelle concesse dalla poesia, sconfinate e inclusive, senza distinzioni tra la vita e la morte).
«Passarono gli anni – prosegue la rievocazione di Siciliano –. Pasolini incontrò Pound: ne risultò una testimonianza, mai più replicata, d’ottima televisione, un’intervista. Nelle rughe, nelle sclere secche del vecchio Pound c’era lo sconvolgimento di un Occidente che si vedeva travolto dalle proprie stesse ragioni di vita, nella propria sapienza conoscitiva. E Pasolini gli stava di fronte: le sue domande specchiavano una medesima disperazione, la stessa apocalisse –, lontani entrambi da qualsiasi connotazione di ideologia e politica, entrambi vivi come esorbitanti poeti fuori norma, disobbedienti a qualsiasi galateo di sanità letteraria, fiduciosi che la Storia comunque andasse per i propri strani sentieri avanti».
Ancora «geni a confronto», forse, come Cavalcanti e Pound, o come Dante e Pasolini, con uno stesso desiderio di conoscersi e di conoscere, di essere vicendevolmente illuminati e rassicurati dalla propria genialità ‘singolare’, inevitabilmente separata e distante e insieme universale e rappresentativa proprio all’insegna della ispirazione, della chiamata della poesia, di una stessa ansia a quella vocazione umanamente incaricata ed essenziale collegata. «Era una duplice verità che veniva a galla – lo dice benissimo Siciliano –, due solitudini che si specchiavano e si cercavano, più moderni di ogni moderno, fratelli che non sono più». E se è vero – come Siciliano conclude – che la poesia di Pasolini rischia l’incomprensibilità «fuori dalla percezione della Storia del Novecento», è altrettanto vero che Pasolini non meno di Pound, effettuando la loro disobbedienza artistica, protestando, affermando con coraggio davvero intrepido disappartenenze a molte cose del mondo nel nome e attraverso la poesia, in realtà obbediscono a richiami cogenti, a ragioni profonde.
L’assenza nel poeta produce presenza: una sorta di «mysterium mortis», per citare un titolo di Ladislaus Boros, una «kenosi del poeta» confidente nella capacità di esprimere se stessi e il mondo morendo a se stessi e al mondo. Esiliato e morto al mondo Dante, esiliato e morto al mondo Cavalcanti, ma tutt’altro che scomparsi i frutti della loro applicazione, le cose viste dai loro strani, distanziati e implacabili sguardi. Il poeta conosce bene le condizioni notturne del suo operare; ha confidenza con questi stati della creazione in apparenza funerei, sommersi e nostalgicamente attratti, e invece produttivi, vitali, generatori di illuminazioni, avanzamenti e aperture: tali anche nella «disperazione» in atto, nell’«apocalisse» vissuta in corpo e anima, nell’intimo della loro paradossale e irrefutabile «esorbitanza» artistica, della loro solitudine imposta.

Ha scritto Pound di Cavalcanti nella sua antica Introduzione a tradotti Sonetti e ballate, coniugando vita ed esercizio della poesia: «Dino Compagni, che lo conobbe, ci ha lasciato forse la più accurata descrizione dicendo che Guido era “cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario”, io almeno me lo raffiguro così. E così lo ritroviamo nelle sue poesie». Ha scritto a sua volta Pasolini, riferendosi a Pound: «Pound chiacchiera nel cosmo. Ciò che lo spinge lassù con le sue incantevoli ecolalie è un trauma che lo ha reso perfettamente inadattabile a questo mondo. L’ulteriore scelta del fascismo è stata per Pound un modo sia per mascherare la sua inadattabilità, sia un alibi per farsi credere presente. In che cosa è consistito questo trauma? Nella scoperta di un mondo contadino all’interno di un mondo industrializzato, di molti decenni in anticipo sull’Europa. Pound ha capito, con abnorme precocità, che il mondo contadino e il mondo industriale sono due realtà inconciliabili: l’esistenza dell’una vuol dire la morte (la scomparsa) dell’altra». E si dica se dietro a queste analisi e a questi giudizi non si intravedano le filigrane dell’autobiografia, le consonanze della forse inevitabile personalizzazione di ogni giudizio.

Sconfinamenti, slittamenti, differimenti. Creature davvero strane, i poeti: creature tra fantasia e realtà, artificio e naturalezza, obbedienza a richiami cogenti e desiderio di libertà, infrazione delle regole e tensione a più ampie ed accettabili dimensioni dell’esistere; e ancora creature solitarie e con gli altri, tremendamente attaccate all’ombelico della loro anima e insieme smaniose di orizzonti, con lo sguardo concentrato su una carta piena di segni e nel contempo protesi sull’infinito…

«Lassù», come dice Pasolini, o «laggiù», come dirà in un’altra circostanza, poco importa. Di là, da quell’altrove, Pound e Pasolini ascoltano suoni, i suoni di ciò che Pindaro chiamava la «cetra d’oro» e li trasmettono ad altri, umanamente li partecipano, li perpetuano, modulando le loro forme e i loro ritmi su quella «cetra» che resiste, armonica e musicale, melodica e attraversata da mani, tutt’altro che da appendere ai rami, anche nella franta, disperata e apocalittica modernità.
Ha dichiarato Pound intervistato da Donald Hall a proposito della composizione dei Cantos: «Il problema era trovare la forma (…). Doveva essere una forma tale da non eludere qualcosa solo perché non vi si adattava». E ancora: «È difficile scrivere un paradiso quando è evidente che faresti bene a scrivere un’apocalisse»; e di nuovo, proprio in riferimento a Villon e a Cavalcanti, musica e temi musicali che davvero si ritrovano in spartiti: «Volevo la parola e la melodia. Volevo della grande poesia da cantare». Per mio conto vorrei solo aggiungere che mi è capitato una volta di intitolare uno dei miei saggi su Pasolini Moralità dell’indecenza, proprio a sottolineare, in totale sintonia con la figura e con l’opera di Ezra Pound, la sua totale obbedienza alle ragioni oscure, misteriose e incoercibili della poesia.
Sosteneva Heine, un poeta, che dove le parole finiscono inizia la musica: come in Pound esemplarmente, testualmente accade, con l’interruzione dei versi e con l’improvviso, inaspettato subentro di uno spartito. Heine affermava, volendo, una sorta di primato, ma per noi, soprattutto, sulla scia delle considerazioni sul ritmo di cui scrive Ezra Pound occupandosi di Cavalcanti, un possibile parallelismo, una  declinabilità di valore operativo: una verificabile, sinergica e determinante interazione in cui le note dell’invisibile spartito del testo non solo seguono e inseguono l’effetto poetico, tendendo a ineffabili, affatto musicali e del tutto scorporati traguardi della parola, ma agiscono nel corpo stesso di quella parola, nel suo farsi, nel suo costituirsi ed inverarsi, nel suo fisico incarnarsi come realtà.
Ed eccoci dove inizia la musica ma le parole non finiscono e anzi cominciano pure loro: in quei molto indagati e molto misteriosi spazi dell’avantesto, in cui un’ispirazione musicale, sonora, fonica o addirittura intonazionale, è in cerca dei suoi significati, o in quelli analogamente ispirativi e già concretamente generativi, in cui il processo in atto sembra ormai consistere: una sorta di danza e controdanza tra senso e suono, in un necessitato, instabile ed esigente messaggio in fieri che progressivamente si definisce, e una sua accettabile formalizzazione espressiva e comunicante, appunto, fino all’ispirazione che musicalmente non è affatto e per sempre un attimo, un momento raggiunto e subito imperituro, ma un continuo, inesorabile e insoddisfatto variantismo di essere mutante. Un essere mutante perennemente pregato, corteggiato, inseguito e cacciato, destinato – come anche i percorsi di due ulteriori «geni a confronto» certificano – a durare intere vite: intere vite di uomini-poeti.
E vengono  a questo punto urgentemente in mente alcuni versi di Pier Paolo Pasolini datati 1966, anteriori di un anno rispetto alla celebre intervista a Pound realizzata per la Rai nell’autunno del 1967 (il 23 ottobre) e dalla Rai trasmessa nel 1968 il 19 nell’ambito della rubrica Incontri: versi provenienti da un dibattuto secondo Novecento della crisi, della ridefinizione poetica dei ruoli e delle pertinenze, della caduta delle speranze e dell’accresciuta indecifrabilità moderna degli eventi. Pasolini si affida ancora all’io, a un io da autoritratto tragicamente storicizzato, avviato ai traguardi crudelmente sfregianti da «tetro entusiasmo» di chi alla musica e alla poesia come a speranze totali si era per destino rivolto: ai suoni del «celeste Bach», ma anche, con la musica di Bach promossa a esistenziale colonna sonora del reale, a quel fisico, anonimo e irresistibile «brusio della vita» che la sera molte volte, già negli anni giovanili e prepotentemente narcissici di Casarsa, gli recapitava; lui il poeta settentrional-regressivo, pascolian-friulano di «Sera imbarlumida tal fossàl / a cres l’aga…» e del «nini muàrt», lui partecipe e discusso testimone civile di eventi storici e intime eclissi ed apocalissi costantemente misurate tra corpo e musica, perso dietro all’apparizione cromatica di un glicine, di un semplice e sontuoso albero che profuma.
«Io vorrei – ecco la sua voce di poeta spoglia e pedagogicamente atteggiata, ma che pure così ritrova la sua musica – soltanto vivere / pur essendo poeta / perché la vita si esprime anche solo con se stessa. / Vorrei esprimermi con gli esempi. / Gettare il mio corpo nella lotta.  / Ma se le azioni della vita sono espressive, / anche l’espressione è azione. / Non questa mia espressione di poeta rinunciatario, / che dice solo cose, / e usa una lingua come te, povero diretto strumento; / ma l’espressione staccata dalle cose, / i segni fatti musica, / la poesia cantata e oscura, / che non esprime nulla se non se stessa».

 «Non farò questo con gioia – continua l’autore non delle Ceneri di Gramsci ma di Poeta delle Ceneri – Avrò sempre il rimpianto di quella poesia / che è azione essa stessa, nel distacco dalle cose, / nella sua musica che non esprime nulla / se non la propria calda e sublime passione per se stessa. / Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti, / che io vorrei essere scrittore di musica, / vivere con degli strumenti / dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare, / nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto / sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta / innocenza di querce, colli, acque e botri, / e lì comporre musica / l’unica azione espressiva / forse alta, e indefinibile come le azioni della realtà».

Un rimpianto, la musica, e un desiderio inestinguibile; un poeta in una torre e un poeta in fondo a un pozzo (secondo l’intervista di Pasolini  a Pound, probabilmente svolgendo in quella immagine isolante, in ascolto e operosa, una suggestione di Eliot: la dedica in calce a The Waste Land), per via di concentrate verticalità contrapposte a distese vastità, a «ricordare», a «macinare» come dice Pasolini a Pound, o a «rimasticare», come dice Pound replicando, il ricordo della propria vita.
Il giudizio di Pasolini su Pound è ormai chiaro, si è fatto adulto, trasparente, pronto sintonicamente e fraternamente a ridefinirsi a specchio di un già avvenuto, autorizzante confronto da «odi et amo» come quello intrattenuto da Pound con Whitman; pronto a credere scandalosamente, oltre ogni abiura e ancora nel nome della poesia, in agnizioni, trasformazioni, dialoghi: per «amore della vita» e nient’altro, se – come la poesia di Ezra Pound ci assicura – «Quello che veramente ami non ti sarà strappato».
Dal Canto LXXXI 
(Strappa da te la vanità…)
Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie
Quello che veramente ami non ti sarà strappato
Quello che veramente ami è la tua vera eredità
Il mondo a chi appartiene, a me, a loro, o a nessuno?
Prima venne il visibile, quindi il palpabile Elisio, sebbene fosse nelle dimore d’inferno,
Quello che veramente ami è la tua vera eredità
La formica è un centauro nel suo mondo di draghi.
Strappa da te la vanità, non fu l’uomo
A creare il coraggio, o l’ordine, o la grazia, Strappa da te la vanità, ti dico strappala
Impara dal mondo verde quale sia il tuo luogo
Nella misura dell’invenzione, o nella vera abilità dell’artefice.
Strappa da te la vanità, Paquin strappala!
Il casco verde ha vinto la tua eleganza.
«Dòminati, e gli altri ti sopporteranno» Strappa da te la vanità
Sei un cane bastonato sotto la grandine,
Una pica rigonfia in uno spasimo di sole,
Metà nero metà bianco
Né distingui un’ala da una coda
Strappa da te la vanità Come son meschini i tuoi rancori
Nutriti di falsità. Strappa da te la vanità,
Avido di distruggere, avaro di carità,
Strappa da te la vanità, Ti dico, strappala.
Ma avere fatto in luogo di non avere fatto questa non è vanità
Avere, con discrezione, bussato
Perché un Blunt aprisse Aver raccolto dal vento una tradizione viva
o da un bell’occhio antico la fiamma inviolata
Questa non è vanità. Qui l’errore è in ciò che non si è fatto,
nella diffidenza che fece esitare.
(traduzione di Alfredo Rizzardi)
 (Pull down thy vanity…)
What thou lovest well remains, the rest is dross
What thou lov’st well shall not be reft from thee
What thou lov’st well is thy true heritage
Whose world, or mine or theirs or is of none?
First came the seen, then thus the palpable Elysium, though it were in the halls of hell,
What thou lovest well is thy true heritage
The ant’s a centaur in his dragon world.
Pull down thy vanity, it is not man
Made courage, or made order, or made grace, Pull down thy vanity, I say pull down.
Learn of the green world what can be thy place
In scaled invention or true artistry,
Pull down thy vanity, Paquin pull down!
The green casque has outdone your elegance.
«Master thyself, then others shall thee beare» Pull down thy vanity
Thou art a beaten dog beneath the hail
A swollen magpie in a fitful sun,
Half black half white
Nor knowst’ou wing from tail
Pull down thy vanity How mean thy hates
Fostered in falsity, Pull down thy vanity,
Rathe to destroy, niggard in charity,
Pull down thy vanity, I say pull down.
But to have done instead of not doing this is not vanity
To have, with decency, knocked
That a Blunt should open To have gathered from the air a live tradition
or from a fine old eye the unconquered flame
This is not vanity. Here error is all in the not done,
all in the diffidence that faltered.

(da Canti Pisani, LXXXI, versi finali)