da Antonio Tricomi, In corso d’opera. Scritti su Pasolini, edito da Transeuropa Edizioni, 2011
Amarlo, con generosità, e insieme contraddirlo, con forza. Affrancarsi dal suo mito per riscoprire la reale sostanza della sua opera di geniale bricoleur e inesausto pedagogo. Nel modo in cui tenne la scena pubblica, riconoscere un disperato tentativo di riaffermare il valore civile dell’arte, e della letteratura in specie, ma anche una forma di equivoca, e ancora eversiva, complicità con quel sistema dell’industria culturale che ormai non sembra più permettere a un intellettuale, a uno scrittore, margine di autonomia alcuno. Usarlo, e infine superarlo. A distanza di decenni dalla sua morte, è sempre questo che, con Pasolini, siamo chiamati ambiguamente a fare.
Quanti sono i volti che lo sfaccettato prisma intellettuale di un autore inconcluso come Pasolini rimanda al lettore e, di converso, alla nostra epoca? Davvero tanti. Tanti quanti le controverse interpretazioni di un autore complesso e sfuggente hanno reso possibili sia tra gli irriducibili detrattori, sempre pronti a scovare nelle manie dell’uomo e dello scrittore, o nel suo ostentato ribellismo sociale, un facile appiglio per le teorie complottiste che si sono succedute nel tempo, sia tra i serafici sostenitori che, per pura agiografia, finiscono immancabilmente per rilevarne gli indiscussi meriti di polemista, pedagogo, sismologo dei propri tempi senza metterne sufficientemente in luce alcune contraddizioni, o quanto meno aporie, legate alla figura di intellettuale.
Finalmente un giovane studioso, Antonio Tricomi, che da un decennio conduce ricerche approfondite sul Pasolini attraverso una fedeltà che si estende dal 2002 al 2010 ed ingloba saggi, note, appunti, contributi accademici continuamente rivisiti e corretti per assecondare “i rovelli interpretativi” ed i “risorgenti dubbi esegetici” legati alla produzione pasoliana, dà alle stampe un volume collettaneo dal titolo In corso d’opera. Scritti su Pasolini, edito da Transeuropa Edizioni, che scatta una fotografia il più possibile distaccata e turgida del magma in continua evoluzione dell’opera dell’autore bolognese.
Con una scrittura saggistica ficcante e densa, precisa e rigorosa, ricca di spunti e suggestioni, dotata di una sorprendente acutezza di analisi e prospettive, il prof. Tricomi non si accontenta di fermarsi alla convenzionalità dei dati biografici ed anedottici, ma penetra decisamente, come ogni buon ricercatore, nel tessuto intimo della rete di rapporti formali ed estetici che regge un qualsiasi testo.
Pasolini è stata una figura controversa e del tutto particolare perché ha voluto fare del suo corpo e del suo stesso agire letterario una metafora volutamente deforme ed ingrossata del disfacimento culturale e morale che vide palesarsi e prendere lentamente forma nel nostro Paese. E’ stato, cioè, un autore importante per capire uno spaccato di storia italiana, tra gli anni ‘60 e ‘70, eppure non lo scrittore fondamentale, direbbe Tricomi, in grado di regalarci l’opera perfetta o decisiva nelle sorti delle nostre patrie lettere. Ha voluto spiegare il degrado della nostra convivenza sociale, la massa di congiure, ignominie, ricatti, perversioni e complicità che si celavano dietro al cosiddetto Potere (identificato in massima parte con la nascente borghesia edonistica e consumistica, falsamente tollerante e perbenista) passando attraverso il sotterramento inesorabile di ogni funzione di riscatto etico e formazione civile del letterato, ricollegandolo all’avvilente quanto progressiva emarginazione del suo ruolo ed assumendone su di sé, senza alcuna indulgenza, le stigmate e il durevole ribrezzo.
Sporcandosi le mani e facendo del proprio corpo “martoriato” la fonte prima delle contraddizioni del suo tempo, assumendo l’intera sua opera a misura di paragone dell’intellettuale incompreso, Pasolini cercò, come poté e d’altronde senza alcuna speranza di successo, di entrare nei meccanismi di funzionamento dell’industria culturale italiana, ormai ridotta ad una massificata proliferazione di oggetti di pura distrazione e rapida fruizione, in scrupoloso ossequio alla logica dominante di un’acritica uniformità di pensiero, per scardinare dal di dentro i gangli di un processo di omologazione avviato a inesorabile compimento.
Le sue scelte non furono mai lineari bensì sofferte e restarono segnate da contraddizioni proprio perché fluttuante dovette ben presto rivelarsi il terreno sociale e intellettuale da cui presero le mosse e in cui vennero pensate con tanta lucida, rabbiosa determinazione. Dice bene Tricomi quando rimarca che le conflittualità ideologiche in cui Pasolini si dimenò possono considerarsi “il cardine del suo pensiero, il punto forte della sua arte”. In effetti, dopo aver fatto propria una certa militanza politica a sinistra non mancò di far sentire le sue critiche alle omissioni ed ai colpevoli silenzi del partito «al punto da guadagnarsi, per così dire, il tacito appoggio di una borghesia ostinatamente conservatrice e dunque disposta ad aprirgli le porte del “Corriere della Sera” così da assecondare il disegno strategico di indebolimento e demonizzazione della proposta politica e della cultura comuniste» (pag. 20).
Apertamente schierato contro ogni forma di oscurantismo religioso si disse favorevole ad un “arcaico cattolicesimo” fatto di adesioni ad una certa purezza e semplicità evangelica, fedele ai punti fermi della dottrina sociale della Chiesa che rintracciava nella tradizione culturale preindustriale della civiltà contadina. Pur dichiarando apertamente la propria condizione di omosessuale non ebbe a cuore i movimenti gay ed un certo femminismo militante ritenuti funzionali ad una concezione edonistica del “nuovo potere totalitario borghese” (pag. 21). Sebbene si imponesse per il carattere innovativo e rivoluzionario della sua pedagogia “luterana”, mossa da un intransigente bisogno di liberazione etica dei costumi, contestò aspramente il Sessantotto per il suo carattere irriducibilmente ideologico, in cui percepì, acutamente ed in anticipo sugli altri, nel roboante conflitto generazionale, la strisciante lotta per il passaggio di privilegi e posizioni acquisite di dominio tra padri e figli.
I laceranti strappi al tessuto sociale vennero insomma sedimentati così in profondità da Pasolini da esserne restituiti con palpitante drammaticità. Allo scrittore i semplici mezzi di raffigurazione di un mondo desolato e stravolto non bastavano più e fu per questo che, dagli anni Sessanta in avanti e più precisamente a partire dal 1961, anno dell’ingresso di Pasolini nel cinema, i sui orizzonti artistici, lo statuto estetico stesso dei testi che licenziò, cambiarono totalmente. Lasciato un filone tradizionalista di perfettismo formale e didascalico (Le Ceneri di Gramsci, La Religione del mio Temp”, le poesie in dialetto friulano, ad esempio), Pasolini cedette a una scrittura manierista e fortemente viscerale, labirintica, improntata a un incessante sperimentalismo linguistico e un altrettanto fibrillante multiformità stilistica così “da stravolgere e riformulare le tecniche delle più svariate forme di discorso per realizzare opere inclassificabili in base a comode partizioni di ambiti estetici o generi espressivi e quindi tali da smentire l’esistenza stessa di competenze, saperi, settori disciplinari distinti e rigidamente fissati” (pag. 95).
Da quel momento, ad essere messi in scena furono degli organismi tentacolari e costantemente manipolabili di cui Tricomi è particolarmente attento a cogliere le sfumature e la drammatica intensità, mettendo intelligentemente in risalto il passaggio a un corpus letterario, intenzionalmente involuto ed irrisolto, in grado di sedimentare schemi e forme della traduzione letteraria in maniera “alterata e straniante”, non tanto e non solo per “abiurare” o a prendere le distanze dai maestri, quanto piuttosto, come direbbe Alessandra Ottieri, per riportare alla luce un passato che potesse “tradurre nel linguaggio dell’oggi i valori anzitutto etici dell’umanesimo” (pag. 11).
Sentì di farlo in maniera plateale ed emblematica servendosi della lingua per rimodulare, ritracciandoli e rendendoli disponibili ad una pluralità di sensi, i significati fissati dal Potere che, dirà Roland Barthes dopo la morte di Pasolini, “fascisteggiava” anche attraverso “l’autorità dell’asserzione” e “la gregarietà della ripetizione”, intese come subdole e inconsce modalità di coercizione.
Tricomi ci suggerisce che la fede riposta di Pasolini nasceva da un’imprescindibile adesione ad una società patriarcale e premodernista, schiettamente popolare, dove il rispetto dei valori umani ed etici veniva prima di ogni commercio e compromesso. Anche nell’antifascismo vedeva una resistenza spirituale, prima ancora che politica, contro ogni forma di barbarie e riconosceva a quel genere di comunità una dignità che il suo mondo, indiscriminatamente divorato dagli istinti predatori di cinici potentati affaristici ed economici e da un disperato, qualunquistico egoismo, non aveva più ritrovato. Anche il suo estremo tentativo di creare pastiche linguistici o di percorrere possibilità artistiche diverse (dalla narrativa alla poesia, dal saggio al teatro e poi al cinema) dovette essere un ultimo disperato omaggio alla gloriosa, purtroppo irrimediabilmente perduta, tradizione culturale ed umanistica italiana.
Senza cedere in nulla ad una perfetta coerenza di visione ed omogeneità dell’impianto esegetico, Tricomi ci ha restituito, sulla scia di altri grandi critici, come Gianfranco Contini e Walter Siti, un’immagine meno edulcorata, bistrattata o travisata e, per questo più vera, di Pasolini, appunto perché letta con le corrette lenti di un discorso interpretativo equilibrato, in grado di ristabilire le giuste distanze e le adeguate proporzioni di fondate messe a fuoco, prima di chiudere, con il dossier Pasolini, un importante capitolo della sua recente storia di valente accademico. (*)
(*) I corsivi sono miei (A.M.)