Il passato che non passa, ovvero il mito della “pasolinità”
e le “armi barbariche” di un poeta immolatosi sulle barricate del suo tempo
di Stefano Docimo
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Che cos’è oggettivamente il destino?
È l’oscuro senso di dover pagare un debito contratto.
Paolo Volponi
Abbandonati oramai a se stessi, gli artisti e gli scrittori contemporanei
devono creare nello stesso tempo il testo ed il contesto,
il mito e la sua critica, l’utopia e la sua sconfitta,
la storia e l’uscita da essa, l’oggetto artistico e il suo commento.
Boris Groys
Ma è poi vero che si deve a tutti i costi somigliare agli altri, che si deve diventare normali, cioè come gli altri e non diversi? Qui sussistono troppe confuse categorie, mi sembra. La mise en prose delle quali rischia en effet di apparentarsi, anche se in modo assai goliardico, ad una mise en abîme. Dell’imbecillità, del resto, aveva scritto Flaubert, ancor prima di Pasolini. E qui casca l’asino, cioè il bue, dentro cui l’asino si trova. Se è vero, infatti, che l’esperienza che ci troviamo a vivere è quella del silenzio, che è ciò che sostiene Vittorio Foa ne Il silenzio dei comunisti, è vero anche a riprova del fatto che il clangore assordante del mercato non suona per tutti allo stesso modo; ma a quale mercato ci riferiamo, quando parliamo o scriviamo di mercato? Dunque, ognuno per la propria strada, o per il suo rivolo [1], anche se – ed è questo il grottesco – non ci sono più rivoli, né strade praticabili, umanamente e animalescamente parlando. Ma solo autostrade virtuali, splendidi rifacimenti di giacimenti petroliferi, offshore e oltremodo smerdicchianti.
Ma vi rendete conto, scrive – o forse dice soltanto – Foa “che egli [2] ha capito per primo che si doveva diventare normali, si doveva essere come gli altri e non diversi?”. O più sopra: “Vi sono momenti in cui si avverte che la storia sta cambiando (…) e allora avvertiamo che le parole usate normalmente [3] sono prive di senso. E arriva il silenzio”.
E più avanti: “Come mai si imputa la fine del compromesso storico alla morte di Moro?”. Altra nobile domanda. Ognuno per la propria strada, si diceva – o forse scriveva – là dove sono le radici di ognuno a scandire come pietre miliari il secolo breve. Così, anche Pasolini era disperatamente legato alle proprie. Perché è da quel momento, cioè da sempre, che il tempo ha cessato di svilupparsi secondo una linea progressiva.
Già Nietzsche lo ricordava, riconducendosi al dionisiaco delle origini, alla storia come eterno circolo, eterno ritorno del rimosso, ricordando in ciò anche un Vico. Anche il comunismo, agli albori del secolo scorso, ha percorso l’utopia della fine della storia, in modo consapevole e tragico: “Se il mito però, contrariamente all’idea di Barthes, ha a che fare con la creazione e la trasformazione del mondo, allora saranno mitologiche innanzitutto l’avanguardia e la politica di sinistra, che assegnando all’artista, al proletariato, al partito, al leader politico il ruolo del demiurgo, li inseriscono naturalmente nella mitologia universale” [4]. Per il marxismo “il fatto di venire inserito nell’unico racconto mitologico della creazione del mondo degli oggetti per mezzo dell’attività lavorativa permette all’uomo di uscire dai limiti dei suoi condizionamenti terreni e di mutare se stesso, diventare ‘uomo nuovo’, cambiando le condizioni della sua esistenza” [5]. Questa mancanza di memoria, non solo storica, fa sì che ricerchiamo nel mito ciò che non ritroviamo più nella storia.
Nel saggio commemorativo del ’78, Pasolini maestro e amico [6], Paolo Volponi, nel tentativo di trascinarlo fuori dal mito e ricondurlo nei più civili e articolati percorsi poetico-letterari, formula “un alto giudizio di valore sull’eredità poetica, culturale e politica pasoliniana, fondato su rilievi originali: la triangolazione Leopardi-Gramsci-Pasolini, l’interpretazione psicanalitica di Musatti, l’incontro-scontro con la neo-avanguardia, il profetico giudizio sul ’68” [7]. In apertura, l’enunciato, o dichiarazione tematica, per cui Pasolini sarebbe stato “un grande poeta civile; un intellettuale che nella sua poesia ha affrontato i temi della nostra società e che ha capito, come poeta, come il nostro popolo fosse estraneo ad ogni possibilità reale di partecipare e di scegliere, come fosse costretto – nei suoi dialetti, nelle sue piazze, nei suoi gruppi – a vivere una vita per certi aspetti ricca di rapporti, ma alla fine deprivata della cittadinanza, della possibilità di decidere” [8].
O incivile, direi piuttosto, nel senso oggi più rimarchevole d’un’arte che quando fa politica “è come se uscisse da se stessa. E del resto, quando lo fa, vuol dire che proprio non ne può più, vuol dire che è già fuori di sé” [9], o in quello indicato da Pasolini stesso [10]: “Sono infiniti i dialetti, i gerghi, / le pronunce, perché è infinita / la forma della vita”, nel suo congedarsi da quel “poemetto in terzine a rime incatenate (di matrice pascoliana)” come emblema d’una scrittura in cui “s’incarna al massimo grado quella perenne tensione fra norma e libertà, ordine e disordine, mimesi e invenzione”[11], che S. Agostino titola, significativamente, La parola fuori di sè [12], o che Brevini associa all’autore dei Poemetti, delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio [13], come componente antagonistica che il dialetto conserverebbe nei confronti della lingua. [14]
Perciò, scrive Volponi “Ecco che Pasolini, capite queste cose, fin da giovanissimo fa una scelta e si iscrive al Pci. Era nella sua piccola Casarsa, il paese friulano della madre, che lui ha amato e sentito profondamente. Lì aveva organizzato una piccola accademia dialettale di poeti, contadini, artigiani, studenti, avviato delle ricerche sui costumi, sulla lingua, sulle tradizioni, sulla miseria di quella gente, all’interno della stessa comunità, cioè con il contributo vivo di tutti”. Ma il bello deve ancora venire. Già in quella “storica” raccolta di documenti intitolata Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, apparsa nel novembre del ’77 [15] viene riportata l’intervista ad Aldo Semerari [16], in cui lo psichiatra dichiarava che Pasolini poteva essere salvato da se stesso, se solo avesse accettato di curarsi per quella che, in termini tecnici, è stata definita una “psicopatia dell’istinto”, ma che in volgare suona come “omosessualità”.
Dunque una “devianza”, una diversità. Lo stesso Volponi annota: “Era amato da tutto il paese, considerato veramente un piccolo profeta. Ma improvvisamente è esploso quello che poi è stato il dramma della sua vita. Allora tutto il paese, che lo aveva amato moltissimo, insorse sconvolto e furente contro di lui” [17]. Sempre Volponi, citando Musatti: “…in lui (come in molti altri) l’omosessualità non era né costituzione né vizio, né men che mai mancanza di coscienza morale. Anzi, era l’effetto di una impostazione ipermoralistica. In base alla quale, il gioco dell’amore poteva esser fatto solo fra ragazzi (e Pasolini si sentiva ancora ragazzo adesso). Anche il ceto in cui ricercava i suoi compagni doveva essere non maturato, quale appunto è (o era nelle sue nostalgie) il mondo delle borgate. Non per esercitare il potere dell’uomo colto e munito di denaro sui poveri e gli sprovveduti, ma nel desiderio di essere con loro in condizioni di parità, senza far valere né cultura né denaro, ma soltanto una forma di affettuosità quasi materna (…) Pasolini avrebbe dovuto temere i giovani borgatari incattiviti (…) ma quando partiva la sera, alla ricerca dei suoi incontri, quella stessa istanza pseudomorale che gli impediva il contatto fisico con la donna, lo induceva a rinunciare ad ogni cautela per la propria incolumità” [18].
Ma qui si confonde l’arte con la vita, la poesia con la sessualità, la psicanalisi col mondo arcaico, diranno i critici. Ed ecco allora l’incontro con l’ideologia, che fa da correttivo, tentando di tamponare la ferita. Scrivere vuol dire, allora, mantenere acceso il conflitto, aumentare il senso di colpa verso la natura. E se questa scrittura si allarga colludendo in molteplici registri, in una moltitudine di linguaggi, corrompendosi in nuovi schemi, in materiali sempre distanti e diversi, in un meticciato senza più scampo, diventa allora impossibile invocare coperture “borghesi”: l’uguaglianza, la solidarietà non paternalistica, un senso più profondo della vita come miscidazione, come voglia di fraternizzare coi più deboli, cogli emarginati, tutto ciò ed altro ancora pone allo scoperto la ferita, impedendone in modo allarmante la rimarginazione. Il lavoro diviene frenetico, fuoriesce dai margini dell’organismo sociale, non sta più nei limiti, invade l’orizzonte del politico, si fa portatore d’istanze che lo pervadono di sempre nuovi orizzonti e, per di più, come conciliarlo con una costante opera di desublimazione notturna? Qui l’ideologia, come rimedio al disordine della vita, viene messa a dura prova. “La morte non è ordine, superbi / monopolisti della morte, / il suo silenzio è una lingua troppo diversa / perché voi possiate farvene forti [19]”.
La mediazione razionale diviene impalpabile: solo un’intelligenza critica, veloce e agguerrita, spesso contraddittoria. Un’intellettualità diffusa, acuta e a tratti dolente, contro il nulla della sintesi tra opposti. La ragione, come luogo della pacificazione dei contrasti, diviene impraticabile. Scoppia il mito. In una citazione forse un po’ troppo agiografica [20], del curatore dell’edizione delle opere complete di Pier Paolo Pasolini [21], il mito viene riportato alla definizione che ne dà Roland Barthes in Mythologies [22]. Barthes inizia la propria analisi con una asserzione che dovrebbe rispondere alla domanda Che cos’è un mito, oggi? La risposta è del tipo etimologico: Il mito è una parola. Non un concetto, terminologia secondo Antonio Negri troppo abusata da troppe lunghe guerre e da troppe diverse tradizioni interpretative [23]. Ma neanche un oggetto, un’idea; bensì un modo di significare, una forma; può essere mito tutto ciò che subisce le leggi di un discorso.
Dal modo, dunque, in cui il messaggio viene profferto, dacché “Ogni oggetto del mondo può passare da un’esistenza chiusa, muta, a uno stato orale, aperto all’approvazione (o disapprovazione [24]) della società”, secondo un valore d’uso sociale che si aggiunge alla pura materia. Il mito, cioè, non è un qualcosa di naturale, non può sorgere dalla natura delle cose. In quanto al concetto, “il sapere contenuto nel concetto mitico è un sapere confuso, formato da associazioni incerte, indefinite” [25]. Il mito, secondo Barthes, risponde ad una concettualità aperta e funzionale, ad una tendenza in cui confluiscono molteplici significanti, in un insieme dove a dominare è la sproporzione tra il significante ed il significato che lo trascende. La sua funzione è di deformarne [26] il senso, alienandolo in un metalinguaggio immaginante, in un alibi perpetuo [27] che scarica su ogni soggetto la sua provocazione a nominarlo, un invito imperioso [28], personale: “viene a cercarmi per obbligarmi a riconoscere l’insieme di intenzioni che lo hanno motivato, messo lì come segnale di una storia individuale, come una confidenza e una complicità (…) sembra sia stato creato sul momento, per me, come un oggetto magico sorto nel mio presente senza alcuna traccia della storia che lo ha prodotto (…) Perché questa parola interpellativa è contemporaneamente una parola congelata: al momento di raggiungermi, si ferma, gira su se stessa e ricupera una generalità: s’irrigidisce, si discolpa, è innocente (…) alla superficie del linguaggio qualcosa non si muove più [29] (…) Perché il mito è una parola rubata e restituita. Solo che la parola riportataci non è più interamente quella sottratta: nel riportarla, non la si è esattamente rimessa al suo posto. Questo rapido furto, questo breve momento di una falsificazione costituisce l’aspetto congelato della parola mitica (…) mai completamente arbitraria (…) sempre in parte motivata” contenente “fatalmente una parte di analogia [30] (…)” giocata “sull’analogia del senso e della forma” [31]. Principio stesso del mito sarebbe quello di trasformare la storia in natura “corrompendo tutto, fino al movimento stesso che gli si rifiuta [32]”.
Ma, a ben vedere, tutto il discorso e la conseguente analisi a cui Barthes sottopone il mito, nasce da un sotteso punto di vista teorico, oggi tendente allo sgretolamento, che è rappresentato dall’ideologia come metalinguaggio. “Ma il mito, di fatto, se proprio ha rapporto con la teoria, lo ha solo in quanto narra della sua creazione e dunque la legittima; e soprattutto nel nostro tempo, quando descrivere il mondo in modo nuovo equivale praticamente a crearlo, si iscrive a sua volta nella mitologia tradizionale” [33]. Un cane che si morde la coda, dunque.
Alla colonizzazione del linguaggio operata dal mito, alla sua stessa prostituzione, per cui, seguendo di pari passo l’angolazione critica della parafrasi barthesiana, ben si potrebbe titolare il presente pezzo “Pasolini, un linguaggio che si prostituisce al mito”, manca quella che un tempo veniva chiamata la ragione di fondo. In tal senso, alla dimostrazione barthesiana forse non sempre si affianca un’analisi del soggetto, rappresentato, in questo caso, dal mondo esterno dell’editoria, dei media e dello spettacolo, in altre parole da ciò che produce il mito, che lo trasforma in un valore commerciale, imponendo al tempo stesso un modo di produzione che, a sua volta condiziona la fruizione del mito e dunque crea consenso: il mercato. Chi ci guadagna è l’industria del libro e dello spettacolo nel suo insieme, in altre parole l’attività autocelebrativa del soggetto e, insieme, l’altra pur sempre autocelebrativa, dell’esistente.
Quella di Pasolini sarebbe, dunque, la parabola tragicomica e autopunitiva d’un poeta, d’un intellettuale, d’uno scrittore di teatro e d’un cineasta alla ricerca spasmodica del successo. Ma allora perché, ancora oggi, se ne continua a parlare? Cos’è che rimane incompiuto e irrisolto in questa vicenda? Scrive infatti Volponi: “Pasolini ha avuto un decennio di tranquillità e anche di felicità negli anni di maggior successo: era ambizioso in modo un poco infantile: gli piaceva molto di essere riconosciuto per la strada, essere salutato dalla gente, avere numerosissimi lettori, ricevere lettere di complimento. Gli piaceva molto il successo. E questo ha finito in qualche modo per limitarne le possibilità, specialmente in campo letterario.
Allora in quegli anni, i suoi libri ottenevano un grosso successo: Ragazzi di vita è uno dei primi libri italiani che si è venduto a decine di migliaia di copie in pochi mesi, suscitando discussioni e ottenendo traduzioni in tutto il mondo. E’ forse il primo libro che ha rotto la tradizionale composizione sociologica dei lettori del nostro Paese, per arrivare davvero a tutti” [34]. Non era ancora la tiratura di un best-seller quale sarà quella degli anni sessanta-settanta e ancor meno di oggi, ma considerando che alla fine degli anni cinquanta l’Italia vive il difficile trapasso da civiltà contadina a civiltà industriale, conservando vecchi retaggi della prima, non conoscendo pienamente le trasformazioni della seconda, la figura di Pasolini, contraddittoria e polemica nel porsi al tempo stesso come personaggio e antipersonaggio, “provocatoria e antistituzionale, libera da pregiudizi sessuali e da opportunismi politici” [35] nel suo esporsi in prima persona come interlocutore dell’Italia del suo tempo, odiato sia da fascisti che da democristiani, faceva notizia.
Basta rileggere la Sentenza del tribunale di Milano pronunciata il 4 luglio 1956 nella causa penale contro Ragazzi di vita [36], così come viene riportata da Walter Siti in Il romanzo sotto accusa [37] – posta a seguito di quella del 1933 con cui il giudice distrettuale degli Stati Uniti John M. Woolsey consente all’Ulisse di Joyce di entrare negli Stati Uniti – nella quale viene sottolineato l’impegno dello stesso imputato Pasolini “di giustificare la sua opera sul piano morale, di porne in luce il significato artistico, letterario, di palesarne, per così dire, la chiave ed il motivo conduttore” [38], senza contare le successive querele per aggressione (1961), per diffamazione (1962), per oscenità a proposito di Mamma Roma (1963), per vilipendio alla religione ecc., a mettere in moto la nuova macchina da guerra della critica antipasoliniana più sofisticata, quella dell’Extratesto.
Ed è sull’analisi di ciò che Barthes definirebbe forse con il termine astratto di pasolinità, cioè sul suo mitologizzarsi, che si sofferma nel suo intervento sul n. 6 del 2005 di Micromega, dedicato alla scrittura e l’impegno, ancora Siti [39] che applica la semiologia barthesiana all’immagine di Pasolini, prendendone come “significante” l’intera opera, “ma anche le fotografie che lo ritraggono, o gli spezzoni di video in cui compare”, e come “significato” quello di uno degli intellettuali “più intelligenti e coraggiosi della seconda metà del Novecento in Italia, le tesi che ha sostenuto, la bellezza che è riuscito a creare, ma anche un uomo nevrotico e contraddittorio, e un artista che ha spesso sprecato il suo talento in testi ridondanti e non esenti dal kitsch”. Insieme, significante e significato diverrebbero una coppia per il significante del mito Pasolini, senza che per far ciò si debba necessariamente attraversarne l’opera. In esso s’individuano alcune componenti : a) la poesia assassinata dalla società; b) esistono i profeti, che intuiscono e vedono per noi; c) il coraggio delle proprie idee, fino alla morte; d) basta la passione per capire; e) l’omosessualità esemplare. Per concludere, dopo aver constatato come il mito Pasolini sia “politicamente, un mito trasversale”, con il dubbio circa la legittimità d’un’operazione che tenda a scindere l’opera dal mito.
È il mito della poeticità contrapposto al lavoro poetico, alla produzione come alla fruizione d’una poesia che, come ogni altro lavoro, alterna fasi di entusiastica adesione a tempi di noia mortali, che spinge l’intervento dell’esegeta pasoliniano alla radicalità d’una esclamazione che ha il sapore d’una provocazione estetica.
Nel commentare la poesia assassinata dalla società si afferma: “Pasolini ha disseminato la poesia anche fuori dei suoi versi, aveva il ‘fisico’ del Poeta [40]. Non importa quello che ha scritto. Pasolini ci regala la soddisfazione di amare la poesia senza la noia di leggerla” [41]. È evidente qui uno iato profondo, tra il mondo del lavoro (ma non soffre anche il Lavoro d’una sua originaria mitologia?) e una nebulosa quanto violenta colonizzazione del linguaggio, operata attraverso l’insinuazione d’una forma parassitaria – il mito – che inevitabilmente, quanto cruentemente, lo adopera e lo stravolge. Mentre nel concludere sul Che fare?, coniugando esibizionismo e santità, lo si accosta ad Artaud, Karol Wojtyla e Marilyn. [42]
Insomma, qui si pone il rapporto tra ciò che uno scrittore scrive e la sua maggiore o minore capacità di divulgazione con altri mezzi della propria scrittura. Forse basta meno, o ci vuole di più? È un problema di dosaggio e di autoironia, credo, ma la società dello spettacolo ci abitua oggi a ben altro. Paradossalmente, l’opera di Pasolini, soprattutto quella scritta, è la più nascosta, rispetto alla visibilità del personaggio che se ne fa d’altro canto veicolo. Ma forse questo – c’è da dire purtroppo? – non riguarda solo Pasolini: si legge poco e si mitizza molto: si vive troppo d’immagini, di mitologia e di rituali collettivi. Ma perché “troppo”? O forse “troppo poco”?
Viene in mente, ad esempio, un altro esibizionista delle lettere, di cui si lamenta la poca frequentazione delle opere e che pagò con il carcere i suoi scandali, un certo Oscar Wilde [43], dacché non ogni artista, ma ogni parola è a rischio di mito [44], dal momento che la forma mitica dell’immaginario umano è il modo più economico di raggiungere quei saperi che altrimenti rimarrebbero sepolti per sempre nel tempo. Il simbolo è la maniera più facile per accostarsi ad un sapere che altrimenti permarrebbe occulto. E di questo Pasolini era cosciente. Il progresso dei media non ha fatto altro che aggiungere tecnologia ad un’operazione dell’intelletto umano, già presente e operativa ancor prima del lungo lavoro di simbolizzazione dei linguaggi. Solo che in tempi recenti si è giunti ad una fase di maggior consapevolezza ed allora è iniziato nella modernità il pensiero critico volto alla demistificazione della società e della cultura.
Come il suicidio di Catone, la morte annunciata di Pasolini è un atto simbolico. Innanzi tutto l’espressione d’un grande carattere che, al pari di Catone rappresenta l’ultima protesta contro un nuovo ordine di cose. La successiva elaborazione del lutto, fa parte del vuoto che i simboli, più sono forti, lasciano nel vissuto collettivo. Pasolini ha lasciato un gran vuoto, perché? “In realtà Pasolini non ha previsto praticamente niente del futuro italiano e mondiale” continua Siti, e “là dove ha azzardato delle profezie (…) le ha generalmente sbagliate, com’è giusto e umano. Lui, certo, ha visto con straordinaria precocità cose che stavano già accadendo, e le ha viste con quella chiarezza e quella prontezza perché per lui non erano solo dati sociologici, erano questioni di vita o di morte. Ma il mito di massa preferisce pensare che in lui fosse all’opera, invece che un’ossessione dolorosa, una misteriosa capacità di veggente (forse da relazionare, ancora una volta, con la Poesia Mitica). Se ci sono i Profeti, noi possiamo smettere di sforzarci” [45].
Ma forse Pasolini aveva anche più di una ragione. La sua insofferenza, la sua critica, la sua lingua minore e, in ultimo, la sua disperata vitalità erano povere armi barbariche [46] aizzate contro il Potere, [47] contro la nascente americanizzazione dello stile di vita, e non solo di quello. Ma c’era in lui anche un senso diverso della storia, del tempo che non traccia una linea progressiva coincidente con lo sviluppo reale dell’animale-uomo, c’era un senso panico della corruzione che lo faceva somigliare a un povero cristo crocifisso lungo la via del progresso: in questo senso vanno letti i suoi interventi polemici e provocatori contro l’aborto, contro l’omologazione, contro le neo-avanguardie e, da ultimo, contro i capelloni e gli studenti contestatori.
Si ha in lui uno spaccato della vita del suo tempo, della religione del suo tempo, ma non solo: c’è anche qualcosa che lo travalica, che lo trascende, che lo fa pervenire a tratti ad una visione, forse ad una illuminazione di tipo antropologico e atemporale, di cui restano emblematici, al fine di trovare quel suo personale inferno, alcuni passaggi del romanzo incompiuto La Mortaccia [48], dove la morte, per essere allontanata, viene rincorsa ancora una volta: “Arrivarono davanti a una porta, piccola, in tutta quella parete, gialla e nuda, dove stava scritto: ‘Carcere Penitenziario’. Teresa si fermò, leggendo e rileggendo quelle parole: e subito le prese il mammatrone, tanto che cominciò a tremare tutta, a non tenersi più, finchéle vennero le convulsioni, e si buttò per terra, strappandosi le vesti, piangendo, come una ragazzina, perché sentiva come nel cuore che, da quella prigione, non sarebbe risortita mai più” [49].
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[1] riverrun
[2] Achille Occhetto (sic)
[3] Corsivo nostro
[4] Boris Groys, Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti ed. p.146.
[5] Op.cit. p.146.
[6] Pubblicato in AA.VV., Perché Pasolini, Guaraldi, Firenze 1978. Ora in Paolo Volponi Romanzi e prose, vol. II, Einaudi ed., Torino 2002. p. 649 e sgg.
[7] Op.cit. p.773, Commenti e apparati, a cura di Emanuele Zinato.
[8] Op.cit.
[9] Almanacco Odradek 2006.
[10] V. Poesie incivili (Aprile 1960), in Pier Paolo Pasolini, Le poesie, Garzanti, novembre 1975, p. 295. Ora in Tutte le poesie, tomo I, a cura di Walter Sini, per la collana i Meridiani, Mondadori 2003.
[11] Cfr. Furio Brugnolo, Il sogno di una forma. Metrica e poetica del Pasolini friulano, in Pier Paolo Pasolini, La Nuova gioventù, poesie friulane 1941-1974, Torinio 2002, p.271 e nota.
[12] In ID., Cinque analisi. Il testo della poesia, Milano 1982, pp. 127-54.
[13] v. Franco Brevini, Le parole perdute. Dialetti e poesia del nostro secolo, Einaudi 1990, p. 199 e sgg.
[14] Op.cit. p.205.
[15] Aldo Garzanti Editore
[16] Su Gente, nel marzo del ’76.
[17] Op.cit.
[18] Op. cit. p. 652
[19] Id.
[20] Walter Siti, Il mito Pasolini, in MicroMega n.6 / 2005 novembre, p.135 e sgg.
[21] Id.
[22] Roland Barthes, trad. it. Miti d’oggi, Giulio Einaudi ed. 1974, p. 191 e sgg.
[23] Antonio Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo. Nove lezioni impartite a me stesso, manifestolibri, Nuova edizione 2006, p. 19.
[24] Aggiunta del sottoscritto
[25] R. Barthes, p.201
[26] Id. p.203
[27] Id. p.205
[28] Id. p.206
[29] Id. p.207
[30] Corsivi nostri
[31] Nota Barthes: “Dal punto di vista etico ciò che disturba nel mito è appunto il fatto che la forma sia motivata. Perché se c’è una salute del linguaggio, a fondarla è l’arbitrarietà del segno. Ciò che disgusta nel mito è il ricorso a una falsa natura (…) La volontà di appesantire la significazione di tutte le cauzioni della natura provoca una specie di nausea: il mito è troppo ricco, è di troppo ha appunto la sua motivazione (…). Eticamente, c’è una specie di bassezza a giocare su due tavoli” (Corsivi nostri)
[32] Id. p. 213
[33] Groys, op.cit. pp.145-46
[34] P. Volponi, op.cit. p.652
[35] v. A.Cadiolo, L’industria del romanzo, Editori Riuniti 1981
[36] Dattiloscritto presso il Fondo Pasolini di Roma
[37] v. Il romanzo, a cura di Franco Moretti, Volume primo. La cultura del romanzo, Giulio Einaudi editore, 2001.
[38] Id. p.182
[39] v.sopra
[40] con la “P” maiuscola
[41] Sic.
[42] v.sopra, p.139, Non per niente si tratta di personaggi che con lo spettacolo intrattengono rapporti drammaticamente proficui.
[43] v. Masolino d’Amico, in Oscar Wilde, Opere, Arnoldo Mondadori editore, “Wilde era per molti storici della cultura solo un minore, un caso singolare, significativo soprattutto per il costume, uno scrittore sopravvalutato dagli stranieri, che confondono volentieri la persona con l’opera”, pp.XIX-XX.
[44] v. R.Barthes, Il mito come linguaggio rubato, in op.cit, p.212.
[45] Op.cit. p.136
[46] Con il termine barbaro viene definito in questi giorni il leader libico Muhammar Gheddafi, il cane pazzo di Tripoli.
[47] v. Siti, op.cit., p.137: “Pasolini ha dato spesso l’impressione di combattere a mani nude contro il Potere”.
[48] La Mortaccia (frammenti) (1959), in Alì dagli occhi azzurri, Aldo Garzanti Editore, 1965
[49] Ivi pp.247-248