La ricorrenza dei 39 anni dal terremoto che il 6 maggio 1976 devastò il Friuli spinge il poeta Pierluigi Cappello, premio Viareggio 2010, a incrociare il ricordo di quella tragedia con una riflessione sulla morte di Pasolini, avvenuta sette mesi prima. Il cantore di Casarsa aveva da tempo lamentato e denunciato la scomparsa del mondo popolare e contadino, di cui il terremoto, in Friuli, segnò lo strappo, come una data-spartiacque dopo la quale nulla fu più come prima. Una singolare coincidenza, dal valore simbolico, che Cappello evidenzia in una intervista rilasciata al giornalista Guido Surza.
Per il Friuli, una singolare coincidenza tra la morte di Pasolini e il terremoto del 1976
di Guido Surza
www. messaggeroveneto.gelocal.it – 5 maggio 2015
Non aveva ancora compiuto nove anni Pierluigi Cappello quando, a Villanova di Chiusaforte, la sua vita cambiò una prima volta, alle 21.02 del 6 maggio 1976.
Che cosa stava facendo in quell’istante?
Ero steso sul divano in cucina, leggevo un “Topolino”. Papà era già sulla porta con mio fratello più piccolo Stefano di 4 anni in braccio per portarlo su in camera. Una casa su due piani più solaio, se fosse salito sarebbero morti entrambi perché il solaio è crollato sulle camere. Al boato non ho subito realizzato il terremoto, mio padre sì e ha urlato a tutti di uscire, di scappare. Poi il finimondo, luci spente e sono fuggito verso nord, verso la parte delle montagne, in calzini e pigiama; papà con Stefano dall’altra parte verso l’aia per rifugiarsi negli orti, unico spazio aperto. Il boato è stato amplificato dalle montagne e dalle falde che sono molto vicine, hanno fatto da cassa di risonanza, tutto era amplificato. Altro ricordo forte la polvere e l’odore delle pietre macinate.
Poi la notte più lunga.
È stata da animali spaventati. Ci hanno raggiunto altre famiglie, avevamo salvato delle coperte sistemandoci nel prato. Nessuno dormiva.
Che notizie arrivavano?
Eravamo completamente isolati in cima al colle. Sapevamo da quelli del borgo di sotto che c’erano stati crolli. Al di là del microcosmo di Chiusaforte non sapevamo nulla, anche se immaginavamo che l’evento era stato terribile. Come bambino sembrava di essere al centro della fine del mondo, come fosse stato un annuncio. In un certo senso era vero perché il ’76 ha rappresentato la fine di una società che era ancora contadina e artigianale, e anche l’economia poggiava su una fortissima emigrazione.
Un cambiamento radicale. Uno sprone dopo il dolore?
Noi in Friuli abbiamo avuto la percezione di questo passaggio in maniera molto più nitida che nel resto d’Italia, con uno scossone violento. C’è una singolare coincidenza tra due date: la morte di Pasolini solo sette mesi prima e la data del terremoto. Lui aveva da anni prospettato la fine di un mondo e la perdita dell’innocenza degli italiani.
Quando ha letto Pasolini per la prima volta?
In prima superiore al Malignani (Istituto Tecnico Industriale di Udine, ndr), La meglio gioventù. Tornando a noi, il terremoto non ha fatto altro che essere una grossa sottolineatura in matita blu di questa profezia di Pasolini, l’epifania di questa profezia, il suo svolgersi concreto. Noi in Friuli abbiamo perso questa innocenza simbolicamente in soli 60 secondi. Se si pensa che il terremoto è del 6 maggio ’76 e nel ’78 già si cominciava a costruire l’autostrada verso l’Austria con tutte le implicazioni che questa comportò per la vallata e Chiusaforte. Per sintetizzare, nel resto d’Italia da contadini artigianali è avvenuto in uno sgocciolio, lentamente, per gradi, da noi è avvenuto in maniera rapida e violenta. Per questo motivo abbiamo una grande chiarezza di sguardo rispetto al passaggio che c’è stato.
Un passaggio epocale?
Abbiamo preso coscienza in modo più rapido. Prima eravamo dentro una comunità coesa, c’era l’individuo che però in qualche modo era inquadrato, messo a fuoco e in relazione con una comunità. Dopo il sisma, in virtù dei cambiamenti sociali in Italia, visto anche l’afflusso di denaro, queste comunità si sono polverizzate nell’individuo, diventando società pulviscolari, nel significato preciso dove il senso di comunità si è ritratto e si è affermato l’individualismo. Poi i cambiamenti sono stati evidenti rispetto alle abitudini quotidiane. Se oggi racconto alla mia nipotina di otto anni che ci lavavamo se andava bene una volta la settimana nella mastella di casa, lei si mette a ridere e non mi crede. C’è più prossimità tra me e un individuo di fine Ottocento che tra me e la mia nipotina. E anche il senso della morte è stato rimosso.
Cioè?
Noi bambini avevamo una prossimità con la morte, le nostre nonne ci portavano alle veglie funebri. Nella società di oggi morte, decadenza fisica, vecchiaia e tutto quello che attiene gli odori del corpo sono sistematicamente rimossi. Per convincersi di questo basta guardare un giro di spot in tv. La depilazione, per dire, era una cosa inaudita. Se avessi proposto a un muratore di Chiusaforte una depilazione del petto o della schiena mi avrebbe inseguito con la pala.
Lo diceva Pasolini?
Quel ’76 è da un lato uno spartiacque simbolico e da un altro lato la concretizzazione di quello che aveva intuito Pasolini: cioè che la civiltà, la cultura contadina erano scomparse e, in luogo di un’idea precisa di tempo, di uso del tempo, di senso della vita e della morte proprie di quella cultura, si sarebbe sostituita una cultura informale, mossa fondamentalmente dalla grande influenza che ormai la tv aveva sulle masse.
Senza casa, la tenda, poi l’esodo al mare. Ricordi?
Il 15 settembre fu vero e proprio esodo. Passavano le camionette degli alpini col megafono che ingiungevano alla popolazione di radunarsi in luoghi di raccolta prestabiliti perché sarebbe cominciata l’evacuazione. Noi a Bibione: arrivati col buio, una coperta, una scodella di caffelatte e pian piano assegnati agli appartamenti. Dormito niente. Quei muri davano l’impressione che il terremoto ci inseguisse.
Una generazione di bambini cresciuti in fretta.
Non è escluso che un giorno possa narrare la vita di questi bambini nei prefabbricati, che non è mai stata raccontata in maniera esaustiva. Il loro rapporto con i genitori, la loro libertà. Credo che ognuno di quei bambini abbia sviluppato un senso interiore di precarietà, inconscio, perché per un bambino il papà che torna dal lavoro per sempre è per sempre. C’è voluto un terremoto così per rovesciare questa sicurezza innata della casa, del nido che durerà per sempre. Noi bambini tra esodo, tendopoli e prefabbricati abbiamo trascorso infanzie precarie e avventurose come non mai, perché i genitori erano concentrati sulla ricostruzione. Siamo diventati grandi in fretta, se non altro per l’esperienza di questo grande salto.
Un altro ricordo preciso di quei momenti?
Improvvisamente Chiusaforte si animava di tre categorie di persone: i soldati, che ci sono sempre stati, ma nel ’76 si vedevano molto fuori della caserma, gli operai della ricostruzione e dell’autostrada, almeno 200, e molti emigranti che rientravano per verificare, controllare e sbrigare pratiche per ottenere i contributi. Chiusaforte trasformata in una specie di Far West, tutti da fuori, una specie di Klondike. Un’azione durata però poco, una manciata d’anni, finché è stata costruita l’autostrada; la fine di questa euforia è terminata nell’89 con la caduta del muro, con il reflusso definitivo, con i soldati andati via….
Quale insegnamento è rimasto nella mente?
Per me il post-terremoto, dirò un’eresia, è stata una dura lezione che mi ha fatto capire che niente è duraturo da un lato; dall’altro lato è stata un’opportunità seria di gioco, di libertà. Perché nelle catastrofi si scatenano forze interiori e d’azione che non sappiamo neanche di avere.