Pubblichiamo la nuova versione, con aggiornamenti, di una ricerca sul film Decameron di Pasolini che il suo autore, Giampiero Monetti, aveva inviato a suo tempo a Angela Molteni e che ora ringraziamo per la concessione alla riedizione. Il contributo si segnala per le lettura dell’ambientazione napoletana scelta dal regista per il fondale della pellicola e per l’individuazione delle citazioni pittoriche che ne supportano l’iconografia.
Mentre scorrono i titoli di apertura, e poi subito ripresa in una delle prime sequenze, si ascolta la Canzone di Zeza, una cantata carnevalesca della tradizione irpina; più di una volta ricorre il motivo di Fenesta ca lucive, canzone popolare napoletana musicata nell’Ottocento; fu proprio il regista, con la consulenza del compositore Ennio Morricone, a ripescare questi brani dal repertorio popolare campano, per il commento musicale del film in questione, il Decameron di Pier Paolo Pasolini, Orso d’argento al XXI Festival di Berlino del 1971.
Perché trapiantare la Firenze di Boccaccio, capitale linguistica d’Italia, a Napoli? Nelle numerose interviste che accompagnano la lavorazione e l’uscita del film, il regista ribadisce la sua volontà di realizzare un cinema gaio e vitalistico, allegro e solare, capace di “esprimere l’esistenza senza decifrarla” e di operare una negazione del presente grigio e vuoto della contemporanea società dei consumi, che rimuove, nella sua corsa, i legami con le radici culturali.
“(…) purtroppo tutto il mondo intorno a me, e lo vedo senza polemica, sia dalla parte della borghesia, sia dalla parte dei rivoluzionari, cioè quelli che contestano la borghesia a tutti i livelli, scivola spaventosamente verso forme irreali, verso modi di essere completamente irreali. Finiscono per lasciare spazio a mostruosità linguistiche ed espressive, che hanno come ultimo risultato di eliminare quella che effettivamente è la realtà in pratica: i corpi non ci sono mai. (…) A Napoli no, questo non avviene, e per una ragione così fondamentale sono andato a girare a Napoli il Decameron. Nel cuore di Napoli, ancora il povero è quello che è, ma, a livello borghese, a livello della nostra vita culturale, tutti i corpi sono mascherati.” (“Giorni – Vie nuove”, n. 26, 19 luglio 1972).
Nell’intervista rilasciata ad Antonio Ghirelli e pubblicata postuma, Pasolini dichiarava:
“Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Boja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità.”
In questo senso si può intendere il forte movente ideologico che spinge Pasolini verso il passato, per parlare però dei problemi del presente; leggiamo in una sua intervista (“Sipario”, n. 300, maggio 1970):
“Boccaccio fa finta di polemizzare col suo tempo, ma la sua non è polemica, egli è in piena simbiosi con la società in cui aleggiavano il clericalismo e i residui medievali. In fondo la mia, ora, è un’opera di rimpianto del passato, rimpianto di una società ingiusta ma a suo modo reale: oggi le ingiustizie ci sono ancora, anche se c’è più benessere, ma quel che è più atroce si è perduto un rapporto reale con la realtà”.
E ancora:
“Sì, in un certo senso rimpiango ciò che nel Boccaccio rappresenta un passato contadino e artigianale rispetto a un presente che tutto questo ha distrutto: ma rimpiangendolo non posso rifarlo, non posso sostenere quel mondo oggi superato, anche perché, se per ipotesi lo facessi, tradirei lo spirito vero del Boccaccio. E anche per questo ho ricostruito quel mondo come un mondo di classi popolari e sono andato a Napoli per ritrovare (…) un rapporto autentico del popolo con la realtà, un rapporto che il popolo, quale che sia la sua ideologia, riesce a stabilire senza le distorsioni ideologiche del piccolo borghese”.
Questo esame del film si concentra sul rapporto con la matrice letteraria di Boccaccio: nella produzione di Pasolini non è nuova l’operazione di traslare un testo narrativo nel linguaggio dell’opera cinematografica, con ricostruzioni storiche e filologiche più o meno libere, e soprattutto con originali soluzioni nelle ambientazioni, nei costumi, nelle atmosfere evocate dalla musica.
La struttura del Decameron con la sua organizzazione narrativa nasce da un espediente letterario che dà ordine al vasto ed eterogeneo materiale delle 100 novelle, alle diverse unità spazio-temporali; il racconto cornice, ambientato nella cruda realtà della peste, fornisce il criterio di classificazione tematica delle storie: le dieci giornate del 1348 sono animate dai racconti di dieci giovani, fluttuando nel passato più o meno lontano, più o meno fantastico, delle cento storie.
Nella riduzione cinematografica il cambiamento più significativo è l’eliminazione di questo iniziale racconto: non troviamo nel film alcun riferimento alla peste né alla riunione dei dieci giovani narratori. Scompare dunque la voce fuori campo di un narratore estraneo all’azione; scompare l’elemento di fantasia delle vicende tramandate o raccontate, per fare spazio all’immediatezza della vicenda messa in scena. Solo in un caso Pasolini rielabora la finzione di Boccaccio in chiave cinematografica: la novella della giovane Isabetta e della badessa Usimbalda (IX, 2) non è filmata; la ascoltiamo dalla voce di un attore: un vecchio cantastorie, attorniato dalla folla di passanti, offre una vivace versione napoletana, supportata da una forte gestualità, la storia “avvenuta” in un lontano convento femminile.
L’unità degli episodi filmati è affidata ad un nuovo intreccio: nell’unica ambientazione spazio-temporale della Napoli angioina, la capitale in cui lo stesso Boccaccio aveva vissuto, Pasolini inscena la sua scelta di dieci novelle. Il regista lega a due racconti, uno per ogni tempo, lo sviluppo narrativo: Ser Ciappelletto e “l’allievo” di Giotto – interpretato nel film dallo stesso Pasolini – sono protagonisti che assistono anche, in qualità di comparse, come casuali testimoni, alle storie che si svolgono intorno a loro.
Il primitivo progetto, esposto in una lettera al produttore, prevedeva una struttura tripartita del film, con una scelta di quindici novelle; questo programma ambizioso sarà poi ridotto nel passaggio dal trattamento alla sceneggiatura, durante la lavorazione, fino alla riduzione ad uno schema bipartito, in cui si articolano le dieci novelle scelte. In un’altra lettera il regista parla di un’elaborazione che “sostituisca il meccanismo narrativo adottato dal Boccaccio, e rappresenti il mio libero intervento di autore”, giustificando così le eventuali infedeltà filologiche, in nome di una libera interpretazione del modello.
La scelta antologica definitiva cade sulle seguenti dieci novelle; nel primo tempo: Andreuccio da Perugia (II,5), Isabetta e la badessa Usimbalda (IX, 2), Masetto da Lamporecchio (III, 1), Peronella (VII, 2), Ser Cepparello, San Ciappelletto (I, 1), e nel secondo tempo: Giotto e Forese (VI, 5), Caterina di Valbona (V, 4), Lisabetta da Messina (IV, 5), Gemmata (IX, 10), Tingoccio e Meuccio (VII; 10).
Il racconto filmico si offre al pubblico come un flusso unico, dove gli episodi si susseguono e s’intersecano: nel breve e crudele proemio, il ribaldo Cepparello è intento a massacrare un malcapitato, chiuso in un sacco, e poi a buttarlo da una scarpata.
La prima novella che riconosciamo è quella di Andreuccio da Perugia (II,5), venuto a Napoli a comprar cavalli: in un rione malfamato viene derubato da una giovane intraprendente che lo attira con l’inganno. Poi il forestiero è indotto da ladri sacrileghi a spogliare il cadavere dell’arcivescovo nella Cattedrale della città: l’avventura si chiude con il furto di un rubino che lo risarcisce in abbondanza del danno precedentemente subito.
Ricompare la figura di Cepparello: nella folla è un abile ladro che approfitta della confusione della gente, attenta nell’ascolto di un vecchio cantastorie: come detto, il suo racconto (che corrisponde alla novella IX,2), ambientato in un convento femminile, introduce l’avventura di Masetto (III,1). Questi è un giovane ortolano che si finge sordomuto per disporsi al servizio delle monache, distratte così dai voti e dalla vita contemplativa. Segue l’episodio del tradimento di Peronella (VII,2) ai danni del marito ingenuo. Protagonista della novella di chiusura del primo tempo è ser Cepparello, che dimostra come si possa diventare “San Ciappelletto” con una semplice falsa confessione in punto di morte (I,1).
Il secondo tempo si apre con “l’allievo di Giotto” (Boccaccio faceva riferimento proprio al grande maestro toscano) di passaggio a Napoli per dipingere le pareti di S. Chiara: la parte è recitata dal regista: il pittore osserva, con la curiosità del forestiero la gente del posto e diventa testimone delle altre cinque novelle. La prima vede proprio lui protagonista (VI, 5); segue l’audace storia d’amore di due adolescenti (V, 4), poi l’episodio tragico e lirico della dolce Lisabetta (IV, 5): i fratelli gelosi del suo giovane amante lo uccidono. Costui appare in sogno alla fanciulla e le indica il terreno dov’è sepolto: lei ritrova il corpo e fa in modo di non separarsene più per dare eternità al loro amore.
Due storie erotiche chiudono il film: la fraudolenta promessa di una magica metamorfosi della contadina Gemmata (IX,10) col consenso del maturo quanto credulone consorte, ad opera del furbo don Gianni, e, infine, quella di Tingoccio (VII,10) che torna dall’aldilà, secondo il patto con l’amico Meuccio, per garantirgli che l’amore carnale non è peccato come avevano sempre temuto. Ritorna l’allievo di Giotto/Pasolini per il congedo; con i suoi collaboratori festeggia la conclusione dei lavori, ma poi scrollando il capo riguarda il suo affresco/il suo film ed esclama: “Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?”.
Solo in due casi il regista è fedele agli scenari di sfondo del libro: l’avventura di Andreuccio (II,5) e la beffa di Peronella (VII,2), infatti, sono ambientate nei vicoli della città partenopea; mentre dall’area toscana vengono trapiantate a Napoli le storie di Masetto (III,1), di Cepparello (I,1), di Giotto (VI,5) e di Tingoccio (VII,10); dalla Romagna quella di Caterina di Valbona (V,4); da Messina quella di Lisabetta (IV,5) e dalla Puglia quella di Gemmata (IX,10).
Altro argomento significativo è costituito dai riferimenti iconografici, le fonti, i modelli figurativi; in realtà, la prima operazione di visualizzazione del Decameron risale allo stesso autore: Boccaccio sperimenta di sua mano, nel manoscritto autografo (Berlino, Staatsbibliothek, Hamilton 90), il rapporto parola-figura con 16 miniature, raffiguranti i ritratti di altrettanti personaggi. Le novelle del Decameron costituirono, tra la fine del Trecento e il primo scorcio del secolo successivo, tema ricorrente in una vasta produzione figurativa, tipicamente borghese, di deschi da parto, di cassoni nuziali, ma anche di tavole, che impegnarono autori della portata di Botticelli, di Ercole de’ Roberti, di Signorelli; invece si può parlare proprio di un completo ciclo iconografico, in riferimento a diversi codici miniati, fino alle xilografie con l’avvento del libro stampato.
Se, come detto, fare del Decameron un film in costume, con il relativo sforzo di ricostruzione filologica, non rientrava negli intenti dichiarati dal regista, tuttavia espliciti e ricorrenti sono i colti rinvii all’arte figurativa medievale. Il discorso si concentra soprattutto sulle suggestioni della pittura sulle immagini elaborate da Pasolini, anche se non si possono tacere le scelte accurate degli esterni, in cui sono state girate le scene del film: innanzitutto il borgo di Casertavecchia; a Napoli, la chiesa trecentesca di S. Chiara ed il palazzo Penna; nella costiera amalfitana, si riconoscono le forme bizantine di alcune chiese ed il chiostro del Paradiso, oltre ai borghi medievali del Trentino e ai castelli della Loira.
Pasolini era stato allievo all’Università di Bologna di Roberto Longhi, e costruisce il suo cinema da “dilettante”, sulle basi di un grande bagaglio figurativo, trasmesso, insieme ad una forte passione, dall’insegnamento del maestro. Ricche di citazioni pittoriche, le opere del regista sono state oggetto di diversi studi, che hanno messo in luce l’importanza fondamentale della giovanile formazione storico-artistica, non solo per il patrimonio figurativo trasposto sullo schermo, ma anche nello stile delle inquadrature, sempre frontali, come se l’obiettivo percorresse la superficie di un quadro.
In due momenti del film traspare l’eccezionale attaccamento del regista per la cultura pittorica: si tratta di due parentesi visionarie, che, con una serie di piani sospesi tra sogno e realtà, intervengono per ricostruire l’immaginario collettivo dell’uomo del Medioevo, parte integrante di una cultura, indagato con la stessa dignità della realtà materiale, della quotidianità, degli usi e costumi. Nel primo caso Pasolini fa riferimento ad una serie di opere del Cinquecento fiammingo di Bruegel il vecchio; la seconda citazione, più precisa in termini storici, è un omaggio alla pittura di Giotto e consiste in una apparizione onirica, ispirata al Giudizio universale della Cappella Scrovegni di Padova; al centro della visione si noterà soprattutto la sostituzione significativa della figura di una Madonna a quella del Cristo Giudice dell’affresco originale. In un’intervista rilasciata durante la lavorazione, Pasolini spiega il motivo di questa variazione sul set di Napoli: le comparse “non riuscivano a pronunciare la parola Dio e insistevano nel sostituirla con Madonna”. (“l’Unità”, 7 novembre 1970).
Nella conclusione di questa analisi, si può allargare il discorso su altre due opere di Pasolini: I Racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974), che, insieme al Decameron (1971), formano la Trilogia della vita. Unità d’intenti e unità formali legano queste tre opere cinematografiche che hanno in comune, come matrice letteraria, delle raccolte di racconti di età medievale. Il progetto della Trilogia si può leggere come un lavoro unico, dai presupposti poetici e ideologici comuni, così individuati da Gianni Canova: “Pasolini intende contrapporre alla dilagante omologazione del presente consumistico l’utopia di un’alterità, arcaica ma autentica, che trovi nella gioia dei corpi e del sesso la sua prima e unica ragione di vita.”
La storia della Trilogia è segnata, oltre che da riconoscimenti internazionali, dall’incomprensione di una parte della critica, da numerose denunce e conseguenti tagli o sequestri delle pellicole. In uno scritto datato 15 giugno 1975 e pubblicato postumo sul “Corriere della Sera”, Pasolini pronuncia la sua Abiura alla trilogia della vita; le amare riflessioni e i dubbi del regista si spingono verso una forte autocritica, ma, alla sua sconfitta di artista frainteso, si affianca la ben più grave condanna al potere consumistico del presente, dei suoi disvalori, della sua “falsa tolleranza”.
[Riduzione della tesina discussa a conclusione del Corso di perfezionamento per l’insegnamento: Istituto Universitario “S. O. Benincasa” di Napoli – Anno accademico 1998 – 1999]
[idea]Bibliografia essenziale[/idea]
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