Il cinema italiano, PPP e le forbici della censura

Il 29 gennaio 1976 una sentenza della Cassazione ordinava la distruzione di tutte le copie, compresi i negativi, del film Ultimo tango a Parigi di Bernando Bertolucci Solo tre esemplari si sarebbero potuti conservare presso la Cineteca di Bologna, a mo’ di “corpo del reato” e di esempio esecrabile. 
Il film, con la fotografia di Vittorio Storaro e le musiche di Gato Barbieri, era già uscito  nelle sale nazionali il 15 dicembre 1972. Protagonisti Marlon Brando, che risorgeva dopo anni di declino, complice anche Il Padrino; e una giovanissima Maria Schneider. Una storia sull’incontro fatale tra un americano trapiantato a Parigi e una ventenne figlia di un colonnello. Un appartamento sfitto; un pied-à-terre universale dove allestire un gioco fuori dalla Storia. E mentre il “New Yorker”  glorificava la pellicola, in Italia la macchina della censura si era subito messa in moto: e così, appena sei giorni dopo la prima, Ultimo Tango era stato sequestrato perché “osceno e privo di contenuto artistico”.
Poco dopo però il Tribunale di Bologna ne prescriveva il dissequestro, e nelle sale il successo di pubblico diventò travolgente. Un nuovo processo d’appello riaprì il balletto dell’oscuramento e Ultimo Tango fu giudicato meritevole di condanna in quanto “fumettone spettacolare… in cui prevale la tesi della distruzione dei valori morali, intenzione evidente del creatore del film” (su Bertolucci si abbatté la sospensione dei diritti civili per cinque anni). Una sentenza a morte confermata appunto dalla Cassazione il 29 gennaio 1976. Bisognò attendere il 1987 per la riabilitazione definitiva, su impulso di un giudice istruttore di Roma che riaprì il caso nominando un pool di periti competenti in fatto di cinema. Il paradosso è che oggi il film è al secondo posto tra i più visti di ogni tempo in Italia, con 15 milioni e mezzo di spettatori, secondo recenti calcoli della Siae.
A quarant’anni di distanza, questa tormentata vicenda censoria ha indotto Maurizio Di Fazio a rispolverare in un documentato articolo uscito su “Repubblica” i tanti casi di condanna o di aperto boicottaggio che la cinematografia italiana ha conosciuto, se si pensa che dei 35 mila film sottoposti al controllo ministeriale dal 1944 a oggi ben 274 non hanno ottenuto il visto di censura. Nel conteggio dei reprobi vanno calcolati anche i casi delle pellicole sforbiciate da tagli arbitrari, come avvenne per Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960), oscurato di 15 minuti. Né vanno dimenticati gli autosacrifici o le autocensure degli stessi autori, costretti al compromesso nella stesura delle sceneggiature, perché non vi gravasse il marchio del V.M.14 o, peggio ancora, del  V.M.18, che significava rinunciare al passaggio televisivo.

"Rocco e i suoi fratelli" (1968) di Luchino Visconti. Manifesto
“Rocco e i suoi fratelli” (1960) di Luchino Visconti. Manifesto

«Le “ragioni” della scure censoria, della caccia alle streghe –commenta Di Fazio-  erano sempre quelle: l’adocchiamento di scene sexy, reali ma il più delle volte soltanto presumibili; qualche sequenza violenta o irrispettosa di un’autorità costituita; sberleffi al potere di turno e posizioni dissacranti (o “blasfeme”) in materia di costume e cultura. E i  volenterosi commissari della revisione cinematografica, insieme ai pretori alle crociate per il “comune senso del pudore”, hanno continuato a brandire le forbici fino a tempi recenti. Anche perché nel nostro Paese il “visto di censura” cinematografico è regolato tuttora da una legge del 1962, e da un regolamento normativo dell’anno successivo».
Sul fenomeno intervenne a suo tempo anche Fellini, con parole illuminanti circa la necessità della distinzione tra pratica della censura e diritto di critica e circa lo scavo nella mentalità conformista dell’italiano medio.  «La censura – disse, come riporta Di Fazio- è sempre uno strumento politico, non è certo uno strumento intellettuale. Strumento intellettuale è la critica, che presuppone la conoscenza di ciò che si giudica e combatte. Criticare non è distruggere, ma ricondurre un oggetto al giusto posto nel processo degli oggetti. Censurare è distruggere, o almeno opporsi al processo del reale. C’è una censura italiana che non è invenzione di un partito politico ma che è naturale al costume stesso italiano. C’è il timore dell’autorità e del dogma, la sottomissione al canone e alla formula, che ci hanno fatto molto ossequienti. Tutto questo conduce dritti alla censura. Se non ci fosse la censura gli italiani se la farebbero da soli».
Nell’odissea dei conti con la legge un posto di speciale accanimento riguarda l’opera cinematografica di Pasolini, con particolare riferimento al suo ultimo lavoro Salò o le 120 giornate di Sodoma, che di recente è stato premiato a Venezia con il Leone per il miglior restauro nella sua versione integrale ( a cura di Cineteca di Bologna e CSC – Cineteca Nazionale) ed è  approdato il 2 novembre 2015 in 65 cinema italiani con il divieto dei 18 anni.
Riprendiamo dall’articolo di Di Fazio la descrizione della complessa crociata che colpì in vita il regista di Accattone, tanto per il suo ultimo  film “crudele”, come lui stesso lo definì, quanto in generale per la sua filmografia. (af) 

Fellini e Pasolini si tempi di "Accattone" (1961)
Fellini e Pasolini al tempo di “Accattone” (1961)

P.P.P., bersaglio mobile della censura tricolore
di Maurizio Di Fazio

www.repubblica.it – 29 gennaio 2016

Un altro bersaglio mobile della censura tricolore è sempre stato Pier Paolo Pasolini. Fin dal suo debutto sul grande schermo, con Accattone: il ministro del turismo e dello spettacolo lo vietò ai minori di 18 anni. L’anno seguente toccò a Mamma Roma: un tenente-colonnello sporse denuncia alla Procura della Repubblica di Venezia per “offesa al comune senso della morale e per contenuto osceno”. Nel marzo del 1963 una proiezione de La ricotta (con Orson Welles) venne interrotta dai Carabinieri; P.P.P. fu condannato a quattro mesi di reclusione con la condizionale per “vilipendio alla religione”, e alla rimozione di alcune scene. Il 13 settembre del 1968 la Procura della Repubblica di Roma dispose la messa al bando di Teorema per oscenità, ma il Tribunale di Venezia discolpò il grande intellettuale “perché il fatto non costituisce reato”. Anche Il Decameron, da Boccaccio, esacerbò gli animi: denunce da ogni angolo dello Stivale. Lo stesso avvenne con I racconti di CanterburyIl fiore delle Mille e una notte. I tribunali archiviarono.
Dannato e farsesco finale, fate voi, con Salò o le 120 giornate di Sodoma, sulle prime bocciato con questa motivazione: “Nella sua tragicità porta sullo schermo immagini così aberranti e ripugnanti di perversione sessuale che offendono sicuramente il buon costume, e come tali sopraffanno la tematica ispiratrice del film sull’anarchia di ogni potere”. Seguirono il via libera in sala, ma solo per gli adulti; il sequestro per mano di forbice del procuratore generale della Repubblica di Milano; la condanna del produttore del film a due mesi di reclusione (finirà assolto); l’azione legale dell’associazione nazionale per il buon costume; il blitz di un giudice di Grottaglie (Taranto) che tornò a invocarne la radiazione dall’intero territorio patrio; le sforbiciate dalla versione originale, per un totale di cinque minuti.