Fabiana Castellarin, giovane studiosa di Casarsa della Delizia, ha messo a confronto le tre redazioni del dramma I Turcs tal Friúl, scritto da Pasolini in Friuli a metà degli anni Quaranta, ricavando dalla sua indagine rigorose e originali considerazioni circa le congetture sulla problematica datazione del testo, le modalità della sua stesura, le intenzioni e le scelte linguistiche del poeta. Un complesso di fattori che possono spiegare anche le ragioni della mancata pubblicazione del dramma durante la vita del suo autore, come caso esemplare di “rimozione”. Un grazie all’autrice di questo studio, argomento della sua tesi di laurea (conseguita nel 2013 presso l’Università di Udine, relatore Renzo Rabboni), di cui qui pubblichiamo una efficace sintesi.
I Turcs tal Friúl. Uno studio
di Fabiana Castellarin
Tra i testi non pubblicati in vita dal poeta, il dramma I Turcs tal Friúl sembra rappresentare uno dei casi più palesi di “rimozione d’autore”: un’opera la cui lettura critica, compiuta senza soluzione di continuità dal 1976, data postuma di pubblicazione, si è arricchita e problematizzata nel tempo. L’azione drammaturgica e l’apparente polarità dei due personaggi principali, Pauli e Meni Colus, le cui fattezze psicologiche sembrano aderire fedelmente a quelle dei due fratelli Pasolini, hanno costituito un nodo sovente irrisolto della genesi dell’opera, sospesa tra il 1944 coralmente testimoniato dagli autografi e il 1945, anno della strage fratricida di Porzûs e terminus post quem di alcune ipotesi di datazione.
Il dramma è tradito da tre autografi distinti, una bella copia (C) e due stesure parziali (A e B): B e C sono conservati presso il Fondo Pasolini del Centro Studi di Casarsa, mentre A si trova presso l’omonimo Fondo dell’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze.
A è un fascicolo manoscritto di 36 carte, composto di fogli protocollo quadrettati da computisteria, inserito alla fine dello scartafaccio cartaceo di 123 carte denominato «Gennaio – maggio 1944», contenente prose e poesie in friulano e in italiano; la redazione è chiusa entro un foglio piegato con la funzione di custodia, una metodologia consueta delle carte di Pasolini. La numerazione a lapis non è originale, l’inchiostro usato è di tonalità blu, tranne alcuni interventi correttori a lapis di mano dell’autore; la prima carta reca il titolo ed un disegno a penna che ritrae il portico dei Colussi in cui è ambientato il dramma. Il ductus è secco e nervoso, indizio di una stesura di getto: l’ipotesi è corroborata dalla tipologia delle correzioni, esclusivamente currenti calamo ed effettuato con lo stesso inchiostro, tranne sporadici casi a lapis. L’esemplare si chiude con un suggestivo colophon che limita i tempi di composizione dei Turcs ai giorni 14/15-22 maggio, senza ulteriore precisazione dell’anno. B consta di un plico di 20 carte: fogli protocollo da computisteria identici, per quadrettatura e tipo di inchiostro usato, a quelli che raccolgono la redazione A; la numerazione, plausibilmente di mano di Luigi Ciceri – presso il cui Fondo le carte si trovavano prima del lascito in favore del Centro Studi di Casarsa – è irregolare, in parte legata all’ordine delle carte ed in parte alle battute dei personaggi, in corrispondenza dei quali sono apposte cifre diverse, spesso ripetute. Si tratta di un plico il cui stato di conservazione è quanto mai precario: al suo interno si trovano fogli volanti, talvolta in ordine errato rispetto alla trama del dramma, e ciò permette di ipotizzare – sulla base del confronto con l’edizione postuma a stampa – la caduta di un’intera carta, contenente le battute mancanti. C è un fascicolo di 65 carte, composto di fogli identici a quelli delle redazioni precedenti, ma differente a causa di uno spiccato aspetto calligrafico, tipico di una stesura in pulito. A c. 2, sotto l’elenco delle “Personis”, è riportata la data «maggio 1944», che verrebbe così a coincidere con le informazioni contenute nella nota finale della redazione A. L’inchiostro usato è blu, tendente al nero, ma sono riconoscibili, grazie alla diversità di strumenti scrittori – lapis, lapis copiativo viola, inchiostro marrone – successive stratigrafie correttorie, riconducibili ad una fase posteriore, di ‘decantazione’ della scrittura. Tale copia in pulito non ha tuttavia subito correzioni tali da farne un’altra copia di lavoro, ma conserva la facies di stesura finale e di ultima volontà d’autore.
La ricostruzione della vicenda redazionale del dramma è stata condotta partendo dai tre testimoni conservati, i cui rapporti di parentela testuale hanno portato ad un risultato imprevedibile, rispetto alle diverse ipotesi avanzate in precedenza dai critici: il puntuale confronto tra le due redazioni parziali e la stesura in pulito ha permesso di riconoscere in A e B i due membra disiecta della prima stesura del dramma: il lacerto del Fondo casarsese si inserisce perfettamente all’interno della redazione conservata a Firenze, in corrispondenza delle battute mancanti e recuperate da C, l’unico testimoni che riporti integralmente il testo dei Turcs. La stabilità del Fondo Ciceri – Centro Studi, immutato nel tempo, conferma l’occasionalità fortuita della conservazione della stesura in pulito accanto al lacerto del primo abbozzo, staccatosi allora dal tronco principale del fascicolo. Il disordine in cui si trovavano le carte al momento della visita casarsese di Ciceri – a cui le zie materne di Pasolini misero a disposizioni nei primi anni ’50 alcune carte rimaste in Friuli – potrebbe indicare una priorità, ovvero la possibilità che gran parte del materiale autografo ritenuto più prezioso, soprattutto in vista della pubblicazione de La meglio gioventù fosse già stato in precedenza recuperato e mandato a Roma. Si tratta, in definitiva, di fondi con differente destinazione; un’ulteriore riprova è la loro struttura interna: da un lato i molti fogli volanti ed eterogenei del Fondo casarsese, in cui talora si ravvisano resti casuali di antichi progetti abortiti e abbandonati; dall’altro gli scartafacci sostanziosi del Fondo fiorentino, composti di fogli protocollo spesso datati e regolarmente intitolati, sufficienti a racchiudere le esperienze poetiche più pregnanti del periodo friulano, in un continuo processo di autocoscienza e di autoanalisi.
Le prime pagine della stesura autografa rappresentano inoltre un prezioso avantesto documentario che sopperisce alla scarsità di fonti storiche con l’indicazione dei più antichi documenti conservati in altre parrocchie friulane, trascritti da Pasolini in vista della stesura. In particolare, il necrologio del Capitolo Concordiese e quello della chiesa di San Leonardo di Provesano, a cui si aggiunge il Liber familiaris del conte Niccolò Maria Strassoldo e dei suoi successori. Le informazioni storiche attinte da tali testi e riportate nel dramma non rivestono solo l’ovvia funzione di rendere verosimile la narrazione scenica: all’interno di date, toponimi e numeri della strage turca si annidano riferimenti più sottili alla tragica contemporaneità della guerra.
Il dramma pasoliniano, strutturato secondo i canoni delle tre unità aristoteliche, è inscenato all’interno del portico della casa dei Colussi: si tratta dell’indicazione scenica che appare sulla prima carta dell’autografo fiorentino, sotto ad un rapido disegno a penna che lascia intravedere, appena oltre l’arco di ingresso, la sagoma di un carro ed uno spazio vuoto di forma rettangolare, sede di un antico stemma. Non è difficile riconoscere nello schizzo l’esatta riproduzione dei portoni tuttora esistenti nelle vie centrali di Casarsa, il cuore della microstoria dei Colùs: luoghi consacrati ad una memoria sia personale, legata al genetliaco della madre, che collettiva, inserita nel tempo quasi immobile della storia friulana e della sua gens rustica. I personaggi che vi compaiono, oltre a quelli ricavati dalla pietra della lapide e infusi sulla carta alludono, anche dal punto di vista antroponimico, al mito di una “fondazione”.
Ad agire prepotentemente sull’immaginario del giovane Pasolini, oltre alla suggestione di un antenato costruttore di chiese – vi è uno «Zuane Coluso» tra i responsabili morali della chiesa votiva – è anche la continuità ininterrotta della pietas paesana, lo spettro di valori etici e religiosi su cui si staglia, sia in consonanza che per contrasto, il trittico dei tre fratelli Colùs, non flatus vocis quindi, ma personaggi che del poeta portano le stigmate stilistiche e incarnano l’affiorare di necessità poetiche di lungo corso.
Il trasferimento definitivo di Pasolini a Casarsa, avvenuto negli ultimi mesi del 1943, segna infatti l’approdo ad una dimensione comunitaria prima sconosciuta, e soprattutto ad una «lingua imparata» le cui prime apparizioni pubbliche coincidono con la genesi e la pubblicazione degli “Stroligut di cà da l’aga”, a partire dal 1944 (aprile e agosto), preceduti tuttavia da un fitto lavorìo privato, in parte testimoniato dagli autografi. Viene così configurandosi, in parallelo ai progetti che vedono Pasolini impegnato nell’opera maieutica dell’insegnamento, una fisionomia linguistica che si rifà al casarsese, asceso però ad una piena istituzionalità e allo status privilegiato e inedito di “lingua per poesia”. Gli interventi teorici e metapoetici che trovano spazio all’interno delle rivistine casarsesi hanno dunque il compito di ribadire la necessità di operare sull’oralità per redimere la poeticità intrinseca dei suoi termini. Si deve nondimeno tener presente un’affermazione contenuta in un intervento critico del 1949 sulle pagine de “La Panarie”:
Vivendo a Casarsa, dentro il mio utero linguistico, la poetica iniziale subiva delle modificazioni; sentivo la necessità di un più diretto contatto con gli usi e la vita rurale, del «campanile», e il bisogno più immediato e filiale: tutte cose che mi si rivelarono poi sbagliate e che del resto costituirono un breve periodo (il periodo dei primi «Stroligut») facente parte di una specie di nevrosi e di scadimento sentimentale causati in quasi tutti noi dalla guerra.
Tale mutamento di prospettiva, ancora in uno stadio embrionale negli anni del conflitto, costituirà di fatto una delle chiavi di lettura del ‘ripudio’ della giovinezza friulana e del motivo per cui un’opera come i Turcs non ha visto la luce allora: eppure proprio l’immersione totale nel dialetto e nelle sue tonalità più varie permette a Pasolini di creare «forse la miglior cosa che io abbia scritto in friulano». L’assunzione esistenziale della lingua friulana si compie con il tramite di ignari maestri di stile, i compaesani colti nella naturalezza del vivere quotidiano.
Una preziosa conferma di tale approccio carnale alla lingua, non più mediato da precedenti libreschi, è fornita proprio dalla carta iniziale della prima stesura, che accoglie materiali preparatori sia di tipo storico che linguistico. Vi sono infatti appuntati a lapis, in vista dell’utilizzo all’interno del dramma, quattro verbi friulani che appartengono all’ambito della conversazione domestica, scelti in funzione della loro aderenza irresistibile al parlato: fruvà, scombati, bassilà, matizà.
Fruvà («consumare», «logorare») si distingue dagli altri verbi per la sua accezione accessoria: la ‘consunzione’ poetica che può essere metaforicamente applicata a diversi contesti, come in seguito avverrà in una delle liriche più rappresentative della sezione degli addii de La meglio gioventù, dedicata ad un Friuli «lassàt in tal recuàrt a fruvati/e in ta la lontanansa a lusi» (“lasciato nel ricordo a consumarti / e nella lontananza a brillare”). Esso è l’unico verbo a trovare posto nel dramma: compare nella stesura in pulito in sostituzione dell’italianismo consumat, per descrivere il grembiule liso di Lussia Colùs, che il figlio Meni guarda con pena e tenerezza. I verbi scombati (di aspetto protrattivo, «litigare continuamente»), bassilà («fare arrabbiare», «indispettire») e matizà (hapax per «scherzare», «fare il matto») appartengono all’humus delle liti domestiche e, seppure siano in grado di illuminare i gesti della collera contadina con un’espressività vivace, vennero poi esclusi dal lessico scelto dei Turcs. Ciò non significa che il poeta rinneghi la potenzialità espressiva del dialetto non ancora svincolato dall’oralità e asceso a lingua: esso è il fondale talora vernacolo su cui si disegnano più nettamente le figure liriche di Pauli e di Meni. La necessità di una rappresentazione scenica che attinga dalla vita ordinaria, e che di essa riproduca gli aspetti persino più dimessi, convive con l’impresa drammaturgica della trasfigurazione: una dinamica, in bilico tra squisitezza letteraria e spirito popolare, riscontrabile nell’intera produzione poetica degli anni Quaranta.
Vustra mari sul fòuc dal fogolar a bat i dinc’ di pòura; la stressa blancia ingatiada a ghi trima ta ches spalutis di muarta. Meni, te…i ti ài sintùt. Pensa a to mari, Meni, satu? A trima par te ic, frutùt. A mena il menescul ta la cialdera e tal fòuc a jot il to volt. A mena, a mena e a viot a zirà tal fòuc il to volt… (1)
Oggetti come il “menescul” e la “cialdera” sono spogliati dalla prosaicità della vita contadina per diventare tramite per la creazione di una scena di chiara derivazione fantastica ed esoterica: in essa il fuoco, prima di assurgere ad elemento di morte e distruzione, assume un inquietante potere divinatorio, rientrando compiutamente nell’insieme di superfici poetiche – specchi, acqua, rogge – in cui si riflette e di contempla il Narcìs della prima produzione.
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Note
(1) “Vostra madre sul fuoco del focolare batte i denti di paura; la treccia bianca arruffata le trema su quelle spallucce di morta. Meni, tu … ti ho sentito. Pensa a tua madre, Meni, sai? Trema per te lei, ragazzo. Gira il mestolo nel paiolo e nel fuoco vede il tuo volto. Mescola, mescola e vede girare nel fuoco il tuo volto …” (traduzione ripresa da I Turcs tal Friúl, in Pasolini.Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano 2001, p. 42).