I segreti del cinema italiano nei racconti dei Gesuiti, di Paolo Tritto

“F052 Codici culturali” – www.f052.it – 25 giugno 2011

Ho incontrato padre Virgilio Fantuzzi al termine di una manifestazione per ricordare Pier Paolo Pasolini e il suo Vangelo secondo Matteo. Padre Fantuzzi, gesuita, è docente di analisi del Linguaggio cinematografico alla Pontificia Università gregoriana e critico cinematografico della “Civiltà cattolica”. Ma è anche, più semplicemente, un amico di tanti personaggi del cinema. Nemmeno lui sa spiegare cosa lo leghi a questo mondo apparentemente così distante dalla Chiesa. Dice che, per esempio, Bernardo Bertolucci lo ha punzecchiato per tutta la vita; ma a un certo punto, chissà perché, ha iniziato a manifestargli grande simpatia. «Io ho cominciato ad apprezzarlo» dice il gesuita, «quando uscì L’assedio, un film che mi è piaciuto molto».
Padre Fantuzzi è uno scrigno di ricordi, anche divertenti. Come quando racconta un aneddoto riferito proprio al Vangelo secondo Matteo. Si era ormai alla vigilia dell’inizio delle riprese e Pasolini, che non voleva attori professionisti per il film, non aveva ancora trovato chi dovesse interpretare il ruolo non certo secondario di Gesù. In seguito, il produttore riferirà al padre gesuita che questa situazione lo aveva preoccupato non poco e l’orientamento del regista lo lasciava alquanto perplesso. Addirittura negli ultimi giorni Pasolini aveva preso in considerazione l’eccentrica idea di affidare la parte a un seminarista del Russicum, il collegio pontificio che preparava i futuri sacerdoti da inviare in Unione Sovietica nell’eventualità – per la verità, piuttosto remota allora – del crollo di quell’ateismo di Stato che dominava il regime comunista. Si trattava dunque di un personaggio con la fisionomia di un pope della Chiesa slava, dalla caratteristica corporatura massiccia e la barba foltissima.
Padre Fantuzzi ricorda che il produttore Alfredo Bini era letteralmente afflitto nel vedere che il suo più importante film sarebbe stato rovinato dall’interpretazione di un personaggio dall’aspetto così rozzo e sgradevole. Con quella specie di pope russo nei panni di Gesù, il fiasco sarebbe stato certamente totale. Ma nel corso del provino cui fu sottoposto il seminarista del Russicum, improvvisamente si aprì la porta ed entrò uno studente spagnolo che si chiamava Enrique Irazoqui. «Benché Bini non fosse un grande credente» commenta divertito il gesuita, «in quel momento gridò al miracolo». Irazoqui gli sembrava un segno inviato dal Cielo per salvare il suo film. Fortunatamente “l’intervento divino” spinse anche Pier Paolo Pasolini a rivedere i suoi piani e così il Vangelo secondo Matteo scampò al disastro.
Il rischio di un insuccesso, infatti, era già nell’aria. Bisogna capire i tempi in cui si colloca il Vangelo di un Pasolini che era stato appena condannato dalla magistratura per vilipendio della religione di Stato. Una faccenda particolarissima perché la Chiesa aveva mostrato di non ritenere La ricotta una pellicola oltraggiosa nei confronti della religione. E agli atti del processo era stata anche allegata la lettera di padre Domenico Grasso, un altro gesuita ed esponente di spicco del Vaticano; nella lettera, padre Grasso affermava: «credo che non si possa tirare la conclusione del vilipendio alla religione». Nonostante ciò, la condanna per vilipendio alla religione di Stato ci fu. Evidentemente la “religione di Stato” era altra cosa rispetto alla “religione della Chiesa”.
Questo fa capire quanto grande fosse allora il conformismo all’interno della cultura dominante e quanto profonda l’ostilità nei confronti del “marxista, omosessuale e ateo” Pier Paolo Pasolini. Dice padre Virgilio Fantuzzi: «Attorno a lui c’era denigrazione. Aveva una pessima fama alimentata da una stampa malevola».
Terminata la conversazione con padre Fantuzzi, mi torna alla mente l’incontro di tanti anni fa con un altro critico cinematografico della Compagnia di Gesù, padre Nazareno Taddei, un mito nei cineforum parrocchiali di trenta-quarant’anni fa. Lo intervistai nel corso di una cena, quando parlò ininterrottamente per un’ora e mezza. Cercò di spiegarmi il suo metodo di lettura delle pellicole cinematografiche, un metodo un po’ cervellotico che doveva servire a una comprensione su basi scientifiche del film. Non so se il metodo era realmente efficace. Comunque, padre Taddei è ricordato soprattutto per il suo rapporto con Federico Fellini. Molto scalpore fece una recensione della Dolce vita dove il gesuita dichiarava il suo apprezzamento per il film. Si trattava di un giudizio rispetto al quale padre Taddei riteneva di avere le spalle ben coperte, avendo registrato un parere positivo da parte del cardinale Siri, l’arcivescovo di Genova che passava per un intransigente tradizionalista. Se c’era stata quell’apertura da parte del porporato genovese, Taddei riteneva che attorno al suo giudizio sulla Dolce vita non ci dovessero essere dissensi. E invece i dissensi ci furono e vennero paradossalmente dalla curia milanese alla guida della quale c’era il cardinale Montini, futuro papa, che tutti consideravano progressista e aperto alla modernità.
L’incidente gli costò caro e padre Taddei fu mandato in esilio a Monaco di Baviera, anche se poi, si trattò di un provvedimento che non divenne mai realmente esecutivo. Ricordava il padre gesuita che a Monaco, di fatto, ci andò due volte per una decina di giorni.
Comunque, chi ci rimase veramente male fu proprio Federico Fellini. Taddei ha rivelato in un’intervista concessa qualche anno fa ad Andrea Fagioli: «I miei superiori mi diedero l’incarico di farne una “lettura” ponderata, oggettiva, per il nostro mensile “Letture”, senza preoccuparmi delle voci di polemica che già da quella sera erano nate tra la posizione di Siri e quella di Montini. Rividi il film diverse volte e per ben dieci giorni e quasi dieci notti studiai la “lettura”. Ne discutevo anche con lo stesso Fellini, il quale, per tutta quella prima settimana, mentre la folla faceva la ressa per andare a vedere il film, veniva da me ogni pomeriggio. Era addoloratissimo e umiliato, a volte piangeva…»
Il “pasticcio” fu dovuto a padre Angelo Arpa, un altro gesuita che operava a Genova e che per questo aveva una certa influenza sul cardinale Siri. Gian Luigi Rondi, scrivendo sul mensile “30Giorni”, in occasione della morte di padre Arpa, ha ricostruito la vicenda della  Dolce vita: «Il cardinale Siri prese le difese del film, alcuni scrittori gesuiti (padre Nazzareno Taddei su “Letture”) non risparmiarono consensi ben soppesati e meditati, ma ci volle tempo prima che il clamore e le molte riserve ufficiali si calmassero. Si leggano i retroscena di quell’episodio nell’ultimo libro di padre Arpa pubblicato nel ’96, L’arpa di Fellini. Insieme con altri argomenti (“Fellini persona e personaggio”, “Sesso e sessualità in Fellini”) c’è un capitolo intitolato “La dolce vita: cronaca di una passione”, che padre Arpa, con segreta ironia, sottotitolò “Pandemonio politico, religioso e culturale che la creatura felliniana scatenò nella Roma degli anni Sessanta”. Si chiariranno molti equivoci».
Dopo la morte di padre Nazareno Taddei, è stato intitolato al suo nome un premio cinematografico che durante la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è assegnato al film in Concorso capace di «esprimere autentici valori umani con il miglior linguaggio cinematografico».