Nel 2015 non cade solo l’anniversario del quarantennale dalla morte di Pier Paolo Pasolini. Giunge a scadenza anche un altro ricordo, terribile, che lacerò nel profondo la vita del poeta ma nello stesso tempo non ne spense l’impulso lucido alla volontà di capire. Settanta anni fa, il 7 febbraio 1945, avvenne infatti l’eccidio legato alle malghe di Porzûs, nel Friuli a un passo dal confine con l’attuale Slovenia. Episodio atroce e tuttora ferita aperta in cui un gruppo di partigiani garibaldini, comunisti e filotitini, comandati da Mario Toffanin, detto “Giacca” (Padova 1912-Sesana 1999), si macchiò dell’omicidio di un altro gruppo di partigiani comandati da Francesco De Gregori “Bolla” (Roma 1910-Porzûs 1945), ma dal fazzoletto verde, per lo più azionisti e di fede italiana. In conseguenza di quel massacro, le cui origini si situano nella questione dei confini e delle mire annessionistiche dei comunisti jugoslavi, tra gli uccisi ci fu anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guidalberto, nome di battaglia ”Ermes”, un ragazzo appena diciannovenne, nato a Belluno il 4 ottobre 1925, che dalle malghe di Porzûs, dove fu arrestato, fu portato al Bosco Romagno, in località vicino a Cividale e lì, processato in modo sommario, gli fu fatta scavare la fossa. Riuscì tuttavia a fuggire, ma, ferito e prelevato infine nel vicino paese di Dolegnano, dove aveva trovato rifugio, fu riconsegnato a due gappisti che lo finirono il 12 febbraio a colpi di piccone.
Il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa, tra i progetti del 2015, ha in animo di ricordare anche questo episodio che sconvolse la biografia di Pasolini. E’ in cantiere infatti una iniziativa specifica in cui saranno rilette e interpretate le tante parole, in versi e in prosa, in cui Pier Paolo ricordò quel suo fratello cancellato brutalmente dalla storia, «un martire ai vivi», come scrisse sulla rivistina “Stroligut”, pubblicata in Friuli nell’agosto 1945 come edizione dell’Academiuta di lenga furlana.
Sulla vicenda, tuttora lacerante, pubblichiamo intanto un intervento del giornalista Paolo Medeossi apparsa sul “Messaggero Veneto”, che, tra il 6 e il 7 febbraio 2015, ha dedicato un ampio spazio di approfondimento all’eccidio di Porzûs, alle sue vittime e ai suoi controversi e dolorosi retroscena storici.
di Paolo Medeossi
www.messaggeroveneto.it – 7 febbraio 2015
Il più giovane aveva 18 anni e si chiamava Giovanni Comin, veneto di Gruaro. Tragico e incredibile il suo destino: era un garibaldino ed era riuscito a fuggire dal treno che lo deportava in Germania. Su consiglio di un parroco, stava raggiungendo per mettersi in salvo la base partigiana più vicina, situata nelle malghe di Topli Uork, all’ombra del monte Carnizza. Ma venne catturato anche lui e ucciso assieme ai sedici della Brigata Osoppo, eliminati per mano dei gappisti comandati da Mario Toffanin “Giacca”.
Poco più grande era un ragazzo nato a Bologna, ma che si considerava friulano a ogni effetto: abitava a Casarsa con la mamma Susanna e il fratello Pier Paolo. Si chiamava Guidalberto, per tutti Guido, studente diciannovenne, nome di battaglia “Ermes”. Per rassicurare la madre le aveva mandato una lettera affettuosa dicendole: «Ciao cicciona, non darti troppo pensiero per me. A Natale ho mangiato due panettoni, il tè con tartine di burro e marmellata, dopo cena caffè squisito. Allo stesso modo sto passando capodanno». Ma a Pier Paolo, il 27 novembre, aveva inviato un messaggio in cui narrava la realtà che nascondeva a Susanna, con una meticolosità che ne fa un documento interessante e lucido su ciò che stava avvenendo su quei monti, in quell’inverno tesissimo del 1944, nei rapporti fra partigiani osovani e garibaldini.
Lui non era un capo, non sapeva cosa si stava trattando, poteva intuirlo, ma narra in maniera precisa lo scontro fra solidarietà nazionale e solidarietà ideologica che doveva lacerare fino alle estreme conseguenze il movimento partigiano. Guido, nel fervore adolescenziale, non aveva dubbi e al fratello letterato disse: «Abbiamo fondato un nuovo giornale, “Quelli del tricolore”, dovresti fare qualche articolo al caso nostro, con qualche poesia magari, in italiano e friulano».
Parole da rileggere, su cui riflettere, perché scritte da un ragazzo che di slancio era salito in montagna, con una passione straordinaria e un coraggio che aveva stupito Pier Paolo, maggiore di età e rimasto invece a casa, ad assistere la mamma. Tra le vittime osovane del massacro, nei diversi giorni e momenti in cui avvenne, sei erano friulani, compreso Guido Pasolini.
Gli altri venivano da Faedis, Cividale, Povoletto, Taipana, mentre udinese era il commissario politico, Gastone Valente “Enea”, tra i più anziani del gruppo avendo 31 anni e venendo così per età subito dopo il comandante Francesco De Gregori (34 anni, originario di Roma, capitano degli alpini fino all’8 settembre, e il cui nome lo lega all’omonimo cantautore, di cui era zio). Tra gli altri uccisi uno era trentenne mentre la maggior parte aveva fra i 23 e i 21 anni. Oltre ai friulani, numerosi i siciliani, in tutto cinque.
Quanto avvenne proprio 70 anni fa, il 7 febbraio 1945, nella zona della malghe di Topli Uork, viene ricordato come l’eccidio di Porzûs, dal nome della frazione in comune di Attimis, nota in senso devozionale per una serie di apparizioni mariane a metà Ottocento. I volti che abbiamo appena citato, i motivi che determinarono il terribile regolamento di conti tra reparti della Resistenza che dovevano combattere il comune nemico nazista e fascista, le diverse posizioni a sostegno delle opposte tesi storiche sono da decenni oggetto di dibattiti, anche dolorosi, come è apparso anche ieri nel supplemento proposto dal “Messaggero Veneto”.
Fu probabilmente la pagina più tragica e sconcertante nella lotta di Liberazione, e non solo in Friuli. Una grande profonda ferita che non si è rimarginata, anche se tante cose sono nel frattempo avvenute, come le parole di pacificazione oppure quelle di condanna espresse da autorevoli personaggi dell’antico partito comunista, a cominciare dal discorso del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in visita alle malghe nel 2012. I protagonisti di quelle vicende, quasi tutti scomparsi, hanno lasciato le loro testimonianze definitive, come “Giacca” che in una intervista poco prima di morire attribuì a se stesso la piena responsabilità di quanto fatto dai suoi gappisti ritenendolo a pieno titolo un atto di guerra contro “nemici e traditori”, agendo così secondo la regola canonica in stato di guerriglia che dice: «Nel dubbio, uccidi». E aggiunse: «Se non sparavamo noi, lo avrebbero fatto loro». Ben diverso il testamento lasciatoci da Mario Lizzero, commissario politico della Brigata Garibaldi e in seguito deputato del Pci: «Quella non è stata giustizia partigiana, ma un vero e proprio eccidio… Ritengo che tale eccidio sia all’origine della grande perdita di prestigio e di forza della Resistenza garibaldina e anche del Pci». Parole che suscitarono dissensi e discussioni all’interno del partito e della sinistra, fra quanti sostengono che la vicenda di Porzûs vada inquadrata in un contesto mai analizzato fino a fondo e abbia invece dato spunto al più grande processo antipartigiano del dopoguerra, contro il quale continuano a cercare e a pubblicare documenti inediti per dimostrare contatti e collusioni fra osovani e X Mas in chiave anti-comunista e garibaldina. Tutti aspetti conosciuti e l’inserto di ieri del “Messaggero” ne ha fornito ampia dimostrazione.
Ma la tragica attualità di quelle uccisioni, cominciate 70 anni fa nelle malghe sopra Attimis, è legata forse a un altro argomento di fondo, più generale. Non occorre essere storici, esperti o coinvolti nella vicenda per intuirlo. Riguarda il modo in cui la Resistenza, con le sue battaglie, le sue vittime, i suoi slanci, è stata vista e percepita dalla gente, dal popolo, nella realtà e dimensione più diffusa. Porzûs rappresentò il momento più atroce, crudo e controverso di un periodo che si presta a interpretazioni e racconti, al di là degli usi ideologici o politici. Un piccolo esempio: recentemente a Tolmezzo è stato presentato un libro che riesamina vicende locali e, attraverso una ricerca privata, fa riemergere nomi e fatti rimasti nel sommerso latente di quella terra. Sala stracolma, dibattito dai toni ufficiali, interventi prevedibili, ma attenzione assoluta come se si parlasse di vicende attuali e alla fine infiniti borbottii e conversazioni private, ridando voce a ciò che non appare mai.
Ecco allora che la Resistenza, al là di chi la celebra o la demonizza, forse va ancora raccontata e discussa in maniera aperta, senza timori, togliendo incrostazioni e pregiudizi contro leggende di ogni segno. Si sa che i partigiani italiani, a fine guerra, come disse Giorgio Bocca, erano in tutto circa 80 mila. Tra loro comunisti, cattolici, socialisti, liberali, anarchici, trotzkisti, giellisti, monarchici, leali e opportunisti, coraggiosi e vigliacchi, decisi e attendisti, generosi e scaltri, onesti e ladri, giovani e vecchi, eroi e doppiogiochisti, consapevoli e no, con scarpe e senza scarpe, vestiti come soldati e come pagliacci (questa classificazione è tratta dal libro La scelta di Angelo Del Boca).
In più chi era partigiano in Friuli metteva a repentaglio la vita per un nonnulla in un territorio attraversato da tedeschi, collaborazionisti sloveni, croati, bosniaci, serbi, fascisti, repubblichini, e poi arrivarono i cosacchi. In tale contesto nacque il movimento partigiano con le Brigate Garibaldi, in prevalenza comuniste, e la Osoppo, di ispirazione azionista, monarchica, socialista, cattolica.
Un fronte che, a differenza del resto d’Italia, era contiguo con l’Esercito di liberazione comandato da Tito, l’unico a liberare da solo il proprio paese da nazisti e fascisti dopo una guerra durissima, appoggiata dagli alleati, Churchill in particolare. A fine guerra Tito ancor di più divenne utilissimo all’Occidente dopo la rottura con Stalin. Quindi, il clima da guerra fredda, di cui Porzûs fu un anticipo, e ogni esigenza di pacificazione italiana dopo vent’anni di dittatura (che ebbe il suggello nella amnistia togliattiana del 1946) congelarono probabilmente una diffusa, consapevole e condivisa presa di coscienza sul significato della Resistenza, pur alla base della nostra vita democratica.
Questo è solo uno spunto per spiegare Porzûs come ferita aperta, soprattutto nella sinistra che per decenni in Friuli ha pagato le conseguenze di tutto ciò. Anche qui Pier Paolo Pasolini aveva intuito con anticipo tante cose.
La morte di Guido («Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza che non si possono credere») lo lega ancora di più, fin nei sentimenti profondi, al suo Friuli, a questa terra dove è sepolto, nel cimitero di Casarsa, accanto alla mamma Susanna, mentre i resti del fratello sono nel vicino monumento dedicato ai caduti per la libertà. Nel 1948 Pasolini scrisse una lettera al giornale “Il Mattino del Popolo” e vi diceva: «Interpretare Porzûs è ancora un’operazione delicata, quasi intempestiva: due partiti, sullo sfondo di uno sconvolto cielo di confine, si contendono la competenza richiesta per estrarre dalle tremende cronache del ’44-’45 quei fatti e assumerli su un accomodante piano di storia e leggenda… Come fratello di uno di quei morti io mi rifiuto di prestare il mio dolore in qualità di argomento atto a sostenere la tesi di un partito che si è costituito protettore e difensori dei martiri di Porzûs contro un partito nelle cui file militavano gli assassini.
Mio fratello e i suoi compagni sono morti combattendo i tedeschi in nome di quella Spiritualità che esisteva potenzialmente anche nei loro carnefici. Se dunque vogliamo che essi continuino a vivere, è a loro che dobbiamo pensare e non ai caduchi simboli umani per cui hanno dato la vita… Contro la tesi retorico-patriottica dei democristiani si trova una tesi dialettica dei comunisti (che preferiscono però passare sotto silenzio la questione) ugualmente inaccettabile… I miei compagni comunisti farebbero però bene, io credo, ad accettare la responsabilità, a prepararsi a scontare, dato che questo è l’unico modo per cancellare quella macchia rossa di sangue che è visibile sul rosso della loro bandiera».