Pier Paolo Pasolini indirizzò a un ipotetico ragazzo partenopeo un “trattatello pedagogico” poi raccolto in Lettere luterane. “Con la città vesuviana aveva un legame fisico; a differenza di altri intellettuali ne conosceva il corpo. Basterebbe citare la galleria di volti nel Decameron e la maschera di Totò in Uccellacci e uccellini”. Sono parole dello scrittore partenopeo Erri De Luca, intervistato il 16 ottobre 1994 da Enzo d’Errico per il “Corriere della Sera” in occasione della manifestazione Pier Paolo Pasolini: … con le armi della poesia …, dedica-omaggio della città di Napoli all’intellettuale friulano (22 ottobre – 20 novembre 1994).
L’interessante intervista è presente nell’Archivio storico del “Corriere della Sera”.
Intervista a Erri De Luca
di Enzo D’Errico
Archivio storico “Corriere della Sera” – 16 ottobre 1994
Roma, primi anni Settanta: un uomo solo dentro una piazza deserta. E intorno un ronzio di voci, un crepitio di slogan… Quell’uomo, con lo sguardo celato dietro un paio d’occhiali scuri, è Pier Paolo Pasolini: ha le spalle poggiate contro un muro e le braccia annodate sul petto. Se ne sta lì, in silenzio, mentre il ronzio diventa tuono e il fiume di ragazzi comincia a tracimare nella piazza, fino a sommergerla.
Ci sono immagini che il tempo non consuma. Erri De Luca, Pasolini lo rammenta così. “Lo incontrai quella volta e mai più. Era una manifestazione organizzata da Lotta Continua ed io stavo nelle prime file del corteo, quelle che servivano a scoraggiare le confidenze del nemico” racconta. “Nella piazza destinata al comizio finale non si scorgeva anima viva: c’era soltanto quell’uomo fermo in un angolo. All’epoca, non eravamo teneri col vicinato: avremmo scacciato con la forza chiunque altro, ma non Pasolini. Ci colpiva il suo coraggio fisico: venire a osservarci e a giudicarci lì dove nessun altro estraneo avrebbe mai messo piede… E poi chissà, forse già allora ci inseguiva, come un’ombra, il dubbio che avesse ragione su di noi”.
Sarà col filo di questo ricordo che, sabato 22 ottobre 1994, De Luca cucirà la sua lettura delle pagine dedicate dal poeta friulano, nei primi mesi del 1975, a Napoli e a Gennariello, destinatario ipotetico di un “trattatello pedagogico” raccolto poi nelle Lettere Luterane. L’incontro con lo scrittore partenopeo, autore di In alto a sinistra (Feltrinelli), è certamente uno degli appuntamenti più interessanti proposti dal ricco calendario di “Pier Paolo Pasolini: … con le armi della poesia…”, la manifestazione che si svolgerà a Napoli da domani al 20 novembre. Sarà l’occasione per mettere a fuoco il rapporto che il regista di Accattone, soprattutto nell’ultimo scorcio di vita, intrecciò con la città vesuviana.
“Pasolini strinse con Napoli un legame fisico violento, quasi marchettaro. E non poteva essere altrimenti per uno che conosceva il prezzo dei corpi in ogni angolo del mondo. Per lui anche l’imbroglio era “scambio di sapere”, al punto che perfino un tentativo di borseggio, subìto durante una effusione, si trasformava in occasione per rinsaldare un affetto. Qui non sarebbe mai stato ucciso in una strada abbandonata: poteva accadere soltanto a Roma. Quel che non immaginava, però, è che anche questa città, dopo il terremoto, l’avrebbe tradito. La morte gli ha risparmiato almeno una delusione”. E’ a Gennariello che Pasolini descrive Napoli come “l’ultima metropoli plebea, l’ ultimo grande villaggio”. Si tratta dell’ ennesimo stereotipo modellato sull’idea di una città immune dal contagio della storia? “Napoli sfugge ai predicati assoluti, alle definizioni che mirano ad ingabbiarla. Chi prova a colpire il centro, manca il bersaglio. E’ capitato anche a Pasolini. Lui, però, aveva una botola segreta che, in genere, gli intellettuali non posseggono: conosceva il corpo. E questa, forse, rimane l’ unica città dove la fisiognomica sopravvive all’erosione dei lineamenti. Qui le persone hanno ancora una faccia. Ecco, credo che Pasolini amasse soprattutto quest’ aspetto di Napoli: basterebbe ricordare la lunga galleria di volti che scandisce il Decameron, la maschera di Totò in Uccellacci e Uccellini.
Anche di Gennariello lo scrittore disegna in primo luogo i tratti del viso, la sagoma del corpo “stretto di fianchi e solido di gamba”. Il ritratto, insomma, di uno scugnizzo da oleografia. “Certo, ma tutto il rapporto fra Pasolini e Gennariello sa di falso. Se ti metti dalla parte del quindicenne, non capisci una parola di quel che ti viene detto. Quel personaggio è un pretesto, al punto che perfino il suo nome e’ sbagliato: il diminutivo di Gennaro, in dialetto, è Gennarino o Gennariniello. Lui invece se ne inventa un altro e modella il suo interlocutore plasmando la creta di un desiderio personale. Queste pagine segnano il culmine di una tensione che mira a correggere il mondo, ma rappresentano pure il fallimento di tale ambizione”.
Di luterano, allora, c’è poco in queste Lettere? “Direi quasi nulla. Non c’è la rifondazione di un nuovo cristianesimo e di una nuova lingua. E poi Lutero costruiva con i mattoni che aveva, mica se li inventava. Ci sono brani, però, che ancora oggi ti prendono alla gola. Come quello che parla dei “destinati a essere morti”, vite salvate dal progresso della medicina. Pasolini constata che le nascite non sono più una benedizione in un mondo dominato dalla crescita demografica. Il suo è un atto di accusa contro una quota della gioventù che alla sua eccedenza numerica fa corrispondere un comportamento conformista. E’ una invettiva totale, biologicamente fondata. E sarà poi uno di quei “destinati ad essere morti” che gliela farà pagare. Anch’io ho fatto parte di questa quota eccedente e adesso che sono vecchio mi rigiro fra i denti quelle parole senza sapere se avesse torto o ragione”.
Riaffiora l’ombra del dubbio? “La verità è che si tratta di un autore troppo vario per le mie forze: merita più cuore e intelligenza di quanto io gli possa prestare. Mi è caro soprattutto come poeta, perché sentiva l’ obbligo di governare in modo più sereno le sue risorse. C’è una poesia, Gerarchia, che amo molto. Venne pubblicata nel ‘ 70 su “Nuovi Argomenti”, in un numero dove comparivano anche i miei primi scritti. Un verso dice: “Accuso i vecchi di avere fatto la volontà della vita”. Pasolini non voleva che Gennariello finisse come quei vecchi. Ma Gennariello non esisteva, non esiste. Ed è per questo che quell’accusa si vena della pietà carnale di una madre”.
Sono trascorsi vent’anni da quell’incontro in una piazza deserta: chi aveva ragione? “Non lo so. Noi abbiamo dimostrato di essere peggio di quel che sembrava a Pasolini. Ma eravamo pure l’unica possibilità e lui non voleva concedercelo. Oggi sento la sua mancanza, come tutti quelli che hanno imparato qualcosa prendendosela con lui o prendendosela da lui. Ma avverto soprattutto la sua presenza e l’onore che ci ha fatto ad essere nostro contemporaneo. Uno come lui non c’era prima e non c’è stato dopo. Avremmo dovuto fare qualcosa in più per meritarci la sua vita”.