Era il pieno dell’estate, di Pier Paolo Pasolini

Come contributo alla discussione sull’eredità letteraria e culturale di Pier Paolo Pasolini, si propone qui una poesia, scritta nel 1960, presumibilmente all’indomani della caduta del governo Tambroni. Questo testo che ha la forma di una epistola in versi indirizzata a Pietro Nenni fu pubblicato sull’«Avanti!» il 31 dicembre 1961, e si inserisce nel dibattito sulla svolta socialista che stava approdando alla prima controversa esperienza del centrosinistra in Italia. Storicamente datato, questo testo ci sembra che contenga un nucleo di riflessione politica – «La lotta senza vittoria inaridisce» – di straordinaria attualità e importante stimolo ad osservare i travagli dell’odierno schieramento di centrosinistra.

NENNI

Era il pieno dell’estate, quell’estate
dell’anno bisestile, così triste
per la nazione in cui sopravviviamo.
Un governo fascista era caduto, e dappertutto
c’era, se non quell’aria nuova, quella nuova
luce che colorò genti, città, campagne,
il venticinque Luglio – una sia pur incerta
luce, che dava al cuore un’allegrezza
eccezionale, il senso di una festa.
E io come il “naufrago che guata” (scrivo
a un uomo che certo mi concede il cedere
a delle citazioni dannunziane…)
felice d’aver salvato la pelle – bisestile
doppiamente per me, è stato l’anno –
ho avuto, per un attimo, dentro, il senso
d’un “poema a Fanfani”: e non soltanto
per solidale antifascismo e gratitudine,
ma per un contributo, anche se ideale,
di letterato: un “appoggio morale”, com’è
uso dire. Fu l’idea di un mattino
bruciato dal sole di quell’estate
che qualcuno aveva maledetto, e il cui biancore
faceva dell’Italia ricca – che ronzava
in lidi popolari e in grandi alberghi,
nelle strade delle Olimpiadi incombenti –
l’imitazione d’una civiltà sepolta.

E poi, ero ridotto a una sola ferita:
se ancora ero in grado di resistere,
lo dovevo a una forza prenatale, ai nonni
o paterni o materni, non so, a una natura
radicata ormai in un’altra società.
Eppure, in quel mio slancio, mezzo
pazzo e mezzo troppo razionale,
c’era una necessità reale: lo vedo
meglio ora, che la collaborazione
è un problema politico: e Lei lo pone.
Dal quarantotto siamo all’opposizione:
dodici anni di una vita: da Lei
tutta dedicata a questa lotta – da me,
in gran parte, seppure in privato
(quanti interni terrori, quante furie).
Con che amore io vedo Lei, acerbo,
gli occhiali e il basco d’intellettuale,
e quella faccia casalinga e romagnola,
in fotografie, che, a volerle allineare,
farebbero la più vera storia d’Italia, la sola.
Io ero ancora in fascie, e poi bambino,
e poi adolescente antifascista per estetica
rivolta… Timidamente La seguivo
d’una generazione: e L’ho vista trionfare
con Parri, con Togliatti, nei grandiosi,
dolenti, picareschi giorni del Dopoguerra.
Poi è ricominciata: e questa volta
abbiamo, sia pur lontani, ricominciato insieme.
Dodici anni, è, in fondo, tutta la mia vita.
Io mi chiedo: è possibile passare una vita
sempre a negare, sempre a lottare, sempre
fuori dalla nazione, che vive, intanto,
ed esclude da sé, dalle feste, dalle tregue,
dalle stagioni, chi le si pone contro?
Essere cittadini, ma non cittadini,
essere presenti ma non presenti,
essere furenti in ogni lieta occasione,
essere testimoni solamente del male,
essere nemici dei vicini, essere odiati
d’odio da chi odiamo per amore,
essere in un continuo, ossessionato esilio
pur vivendo in cuore alla nazione?

E poi, se noi non lottiamo per noi,
ma per la vita di milioni di uomini,
possiamo assistere impotenti a una fatale
inattuazione, al dilagare tra loro
della corruzione, dell’omissione, del cinismo?
Per voler veder sparire questo stato
di metastorica ingiustizia, assisteremo
al suo riassestarsi sotto i nostri occhi?
Se non possiamo realizzare tutto, non sarà
giusto accontentarsi a realizzare poco?
La lotta senza vittoria inaridisce.

(Una lettera, di solito, ha uno scopo.
Questa che io Le scrivo non ne ha.
Chiude con tre interrogativi ed una clausola.
Ma se fosse qui confermata la necessità
di qualche ambiguità della Sua lotta,
la sua complicazione ed il suo rischio,
sarei contento di avergliela scritta.
Senza ombre la vittoria non dà luce.)
Pier Paolo Pasolini, in Appendice a La religione del mio tempo (1961) con dedica a Elsa Morante