In una recente intervista al giornalista Mario Brandolin, l’attore e regista milanese Elio De Capitani racconta il percorso che gli fece scoprire il dramma giovanile di Pasolini I Turcs tal Friúl, di cui diresse nel 1995 un memorabile allestimento, poi rappresentato per ottanta repliche, in Italia e all’estero. Una di queste repliche avvenne il 25 agosto 1996 in un cortile contadino del Friuli (“Ai Colonos” di Villacaccia di Lestizza) e, grazie alla videoregistrazione che ne fu fatta allora, sarà visibile su Rai5 la sera del 1^ novembre 2015, a quaranta anni di distanza dalla morte di Pasolini.
De Capitani e “I Turcs”: il teatro di Pasolini mi cambiò per sempre
di Mario Brandolin
www.messaggeroveneto.gelocal.it – 3 agosto 2015
«Tutto inizio iniziò una sera che nevicava forte a Ravenna e in attesa che la gente arrivasse a teatro, dove recitavamo ne La bottega del caffè, Fabiano Fantini e Renato Rinaldi, che cominciavano con noi la loro carriera da professionisti, mi lessero e tradussero I Turcs tal Friúl: e fu subito fascinazione», ricorda così Elio De Capitani il suo incontro con uno dei primi testi teatrali di Pasolini, l’epopea friulana di un popolo sotto assedio da parte di gente terribile, una delle tante che devastavano il Friuli, venuta da lontano a razziare e distruggere.
Tre anni dopo, uno studio, presentato anche a Mittelfest nel 1994; quindi l’anno successivo il progetto di messa in scena del Teatro dell’Elfo si concretava con il coinvolgimento coproduttivo e organizzativo dello Stabile Friuli Venezia Giulia (dal momento che altre realtà teatrali friulane furono alquanto sorde, salvo poi farsene vanto).
Una messa in scena con cui iniziava uno dei capitoli più importanti per la storia del teatro in Friuli: essendo diventata quell’edizione de I Turcs una sorta di imprescindibile spartiacque tra un prima, molto legato alla tradizione filodrammatica, e un dopo, all’insegna invece di una nuova consapevolezza e professionalità.
Questo è stato i Turcs (riproposto il 3 agosto 2015 all’apertura della 24.ma edizione di “Avostanis” ai Colonos di Villacaccia di Lestizza, in un filmato girato proprio lì nell’agosto del 1996). «Fascinazione – continua De Capitani –, dovuta al linguaggio usato da Pasolini, un friulano volutamente quasi arcaico, staccato dalla quotidianità, e all’idea della morte che sottende tutta la rappresentazione, morte che è non solo individuale, ma di un’intera comunità; in questo quasi anticipando -ma questo è dei poeti! – la paura, la tragedia di quello che poi sarebbe successo lì vicino con la ferocia della guerra dei Balcani».
Anche se Pasolini aveva in testa la situazione contingente dell’occupazione nazista?
Ma quando l’ho letto quel senso assoluto d’angoscia e di morte che permea il testo calzava perfettamente con quanto stava succedendo a pochi chilometri dal Friuli.
Questo sul piano dell’attualità del copione. Qual è stata invece l’idea di spettacolo che ha determinato la messa in scena?
Premetto che io mi faccio interrogare dai testi, e non li interrogo per parlare di me, per dire del mio stile: a lungo ho riflettuto a che cosa era, drammaturgicamente, I Turcs: il tentativo fallito di un giovane che voleva fare teatro classico. Fallito perché influenzato dal teatro vernacolare e da certi dannunzianesimi lacrimevoli al punto che lo stesso Pasolini più tardi considerava superato. Ma c’era e c’è forte in questo testo la tempra del poeta, che mette la sua arte al servizio della comprensione del proprio ambito, del proprio territorio. Per questo lo volevo fare; dovevo riuscire a salvare l’anima di quel testo, evitandone la vernacolarità.
E allora?
Il nodo era la mancanza del coro, c’è coralità nei Turcs, ma manca un vero coro. Così, ad esempio, il personaggio di Anuta Perlina, che poteva essere la vecchina friulana di maniera, è stato trasformato in coro, grazie anche alla sapienza musicale di Giovanna Marini».
Questo contribuì a virare non poco la messa in scena sul versante di una sacra rappresentazione laica.
Questo, come il rifiuto assoluto del naturalismo, quindi niente scene né attrezzeria e costumi stilizzati, mi ha portato a evidenziare anche in un minimalismo coreografico la struttura rituale che c’è nel testo, ed è la sua bellezza nascosta».
E la recita ai Colonos che vedremo in film?
Come in tutte le recite de I Turcs, proprio per la sua essenzialità, trovare la dimensione giusta, di luce, di suono, di rapporto con il pubblico, è stato un inferno, ma poi il risultato è stato uno dei più straordinari.
Ci sarà ancora Pasolini nel futuro di De Capitani?
No (…). Sono stato troppo abitato da lui, mi ha dato attrezzi per capire la realtà; e quegli attrezzi, almeno per me oggi sono non dico inadeguati, ma, visti i cambiamenti che il mondo ha vissuto, hanno bisogno di altri occhi. Perché diventi un classico, come è destinato a diventare, Pasolini ha bisogno di distacco, di occhi giovani, non della mia generazione. Noi siamo impossibilitati a dire qualcosa di nuovo su di lui.