www.ilsole24ore.com – 10 settembre 2013
L’immagine che più ho viva di Alberto Bevilacqua è quella della sua presenza al Ninfeo di Villa Giulia per l’assegnazione del premio Strega, anno dopo anno, in atteggiamento coerentemente ripetitivo. In quelle sere, sotto la luce accecante dei riflettori, un lungo corridoio centrale di polveroso ghiaino separa i due assembramenti di tavoli dove confluiscono le delegazioni degli editori con il loro seguito di autori, amici e sostenitori.
Alberto sostava sempre in piedi nel corridoio, muovendo soltanto brevi passi, imperturbabile, dispensando qualche sorriso e saluti a tutti quelli che si fermavano a omaggiarlo. Con la sua sahariana di ordinanza, sembrava un alieno, anche nello sguardo, in mezzo a quella folla eccitata, vestita a festa.
Una volta l’aveva vinto lo Strega, nell’edizione più drammatica e contrastata della sua storia. Era il ’68 e la sorte aveva eletto maggiori contendenti Alberto Bevilacqua con L’occhio del gatto e Pier Paolo Pasolini con Teorema, attorno ai quali si formarono due agguerriti schieramenti aggregati per diversità ideologica, più che per appartenenza editoriale e valutazione critica. A un certo punto Pier Paolo decise di ritirarsi spianando così la strada ad Alberto, ma le polemiche non cessarono, con la minaccia di una secessione, poi rientrata, di una parte dei votanti capitanata da Moravia ed Elsa Morante.
Forse nessuno in quel momento poteva ricordare che Pasolini era stato uno dei primi a incoraggiare il giovane Bevilacqua nel suo difficile esordio: «Mi addolora che la censura impedisca al tuo La polvere nell’erba di essere pubblicato, ma che posso dirti proprio io? Sono le stesse modalità che ben conosco ogni giorno, atti insensati che temo avranno vita facile ancora per molti anni… Certo, avere un libro dei vent’anni già strozzato…». Come è noto il libro abbiamo potuto leggerlo a partire dall’anno 2000.
Leonardo Sciascia ci aveva provato, ma negli anni Cinquanta, non era possibile raccontare agli italiani che anche dopo il ’45 la guerra civile era continuata in Emilia nelle sue forme peggiori.
Ha attraversato stagioni di diversa ispirazione, indenne dalle correnti dominanti o alla moda. La califfa (1964) e Questa specie di amore (1966) escono negli anni in cui l’attenzione è volta principalmente all’avanguardia e allo sperimentalismo e sono due successi clamorosi, trasferiti anche all’estero. L’esperienza di sceneggiatore lo induce a tentarne in proprio la trasposizione cinematografica, e saprà ottenere da due attori consumati come Ugo Tognazzi e Romy Schneyder una delle loro migliori interpretazioni.
Avrei voluto chiedergli se il ricordo della sua terra, dei suoi genitori, di Parma, della seduzione del Parmigianino, delle figure poderose dell’Antelami, dei misteri dl Delta non fossero propiziati dall'”esilio” romano, come la lontananza moltiplicatore dell’amore.
Quella di Alberto è stata una carriera di narratore, come amava definirsi, globale. Narratore letterario, e poeta, cineasta, giornalista, in conversazione, in tutti i generi, alimentati dal suo intimismo autobiografico, dal risentimento civile, dal realismo visionario.