Dante Ferretti, scenografo da Oscar per Fellini e PPP

I film con Fellini, il grande maestro di Rimini, con Pasolini, Scorsese e tanti altri. Lo scenografo Dante Ferretti, più volte premio Oscar, racconta alla giornalista Rita Cirio l’epoca d’oro del cinema italiano, quando si girava in teatro di posa. L’articolo è uscito il 20 gennaio 2016 su “l’Espresso”.

Dante Ferretti: «Così inventavo sogni per Fellini»
di Rita Cirio

http://espresso.repubblica.it – 20 gennaio 2016

Il suo studio a Cinecittà si chiama “C’era una volta…”, sottinteso Cinecittà, quella di Fellini e degli altri grandi del nostro cinema che ricostruivano tutto in studio. Dante Ferretti, scenografo mondiale (dovrà comprare altre mensole Ikea per allineare Oscar, Bafta, David, Nastri d’argento), è uno di quegli artisti italiani che da più di vent’anni fanno grande il cinema americano. Si sente fuori dalla nuova generazione dei nostri registi che non girano quasi più in teatro, ma in location che affittano già arredate e magari hanno poco a che fare con i personaggi. «A volte non hanno neppure i soldi per mettere dei fiori e tocca andare al  Verano a prenderli…». Ci ha raccontato la sua avventurosa storia.

Gli inizi e Pasolini: «Dante, faccia lei»
 Da Macerata, dove sono nato, sono venuto a frequentare l’Accademia di Belle Arti a Roma. Facevo pratica da un architetto, Aldo Tommasini, anche lui di Macerata, che lavorava al film di Blasetti Fabiola: un giorno lo chiamano e gli propongono due film di pirati con la stessa scenografia, quella roba lì (indica il manifesto di Le prigioniere dell’isola del diavolo).
Lui era impegnato a costruire banche nelle Marche e così mi lasciava lavorare da solo, con i bozzetti, e poi seguire le costruzioni. “Ma guarda ’sto ragazzino, c’ha diciassette anni e fa già queste cose. Vuoi fare un altro film?” Mi dice. Magari. E mi presentano Luigi Scaccianoce, un grande dell’epoca: stava lavorando su due set contemporaneamente e mi faceva portare avanti il film.
Visto che avevo buona volontà e che il produttore Alfredo Bini offre a Scaccianoce Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, “Allora, Ferretti –mi dice-dobbiamo fare anche il Vangelo”. A quell’epoca si giravano anche due o tre film insieme. Ormai ero abituato: io portavo avanti i film e lui veniva a controllare.
Con Uccellacci e uccellini Pasolini spesso si rivolgeva a me. Adorava fare i sopralluoghi, capiva subito qual era il posto perfetto per girare.
Per Edipo re andammo a Casablanca, Marrakesh e poi sei ore di macchina fino a Ourzazate; altro che Studios, allora non c’era proprio niente, sembrava un villaggio western col saloon e l’emporio. Lì, Scaccianoce mi fa: “Caro Ferretti, ho cinquantaquattro anni e queste avventure non le posso più affrontare, torno a Roma. Faccia Lei, il copione l’ha letto, le racconto un po’ di cose prima che arrivi Pasolini”. Lui arriva e chiede subito: “Dov’è Scaccianoce?  Sai, perché nel frattempo ho cambiato tutto lo stile, bisogna rifare tutto”. E così fu. Salvo che poi a ritirare il Nastro D’argento andò Scaccianoce. E si continuò con questo metodo  di lavoro per tanti film, fino al Satyricon di Fellini.

"Medea" di Pasolini. Foto di Mimmo Cattarinich
“Medea” di Pasolini. Foto di Mimmo Cattarinich

Fellini, un genio come passaporto 
Chi era per me Fellini? Fellini è il cinema, la storia del cinema, un genio assoluto. Quando sono andato la prima volta negli Usa, ogni tanto dicevo: “Quando lavoravo con Fellini…”. E allora tutti volevano sentir parlare solo di lui. Lo conobbi sul  Satyricon come assistente di Scaccianoce. Per parecchio tempo non abbiamo parlato; il maestro ogni tanto mi diceva: “Ma tu che fai? L’assistente di Scaccianoce. Ah!”.
Di Fellini avevo sentito parlare da sempre; da bambino a Macerata mio padre mi indicava un gruppo di ragazzi tra i 25 e 30 anni e mi diceva: “Vedi? Quelli sono i vitelloni; io non capivo, però vedevo che erano vestiti in un certo modo, si davano da fare con le ragazze e, solo quando sono venuto a studiare a Roma e ho visto I vitelloni,  ho dato un senso al tutto. E sono andato a vedere tutti gli altri film di Fellini. Ma questo è un genio vero, mi dicevo, come sono contento che è nato da quella stessa parte dell’Adriatico, mi sentivo ancora più coinvolto.
Sul set del Satyricon cominciò ad accorgersi di me; un giorno a Cinecittà, chiedeva a Scaccianoce un colore molto particolare, non ocra, non marrone, e quello tirava fuori il campionario. “No no no!”. Finché gli porto io un pezzo di cartone: andrebbe bene un colore così? “Ecco il colore che voglio”, disse, e da allora fui messo a fuoco. “Tu ti chiami Ferretti, sì, Ferrettino. Dante? Ah, Dantino”.
Tutte le mattine Fellini veniva in teatro a controllare le costruzioni, e faceva cambiamenti: “Ferrettino, vieni qua, questo bisogna cambiarlo, questo non va..”. Certo maestro, facciamo subito. Se portava i suoi famosi disegnetti? A volte faceva degli schizzi al momento, oppure raccontava, raccontava.
Poi una volta litigò di brutto con Scaccianoce che non usciva più dal suo studio e io dovetti occuparmi di tutto: costruire le navi, andare a Ponza, mandare avanti il set a Roma.
Finito il film, mi chiama Franco Rossellini, produttore della Medea di Pasolini: “Partiamo subito per la Cappadocia, Pasolini vuole te”.
D’altronde dopo nove anni era ora che cominciassi a fare dei film da solo. Appena arrivo in Turchia, mi dicono: “Ferretti, tra quatto ore giriamo, è la prima volta che appare Medea su un carro”. Avevo ancora le valigie in macchina. “Inventa qualcosa per questo carro”, mi dicono. Raccatto dei pezzi di pelle e arrangio quella prima apparizione di Medea, un film capitato così senza preparazione, ogni giorno una scena nuova. A Cinecittà incontro Fellini: “Dantino, so che fai Medea da solo; il mio prossimo Roma lo devi fare con me”. Grazie, Maestro, però mi chiami fra dieci anni, così io avrò abbastanza esperienza e lei magari si sarà stufato di Danilo Donati.
E così avvenne. Prima ci siamo incontrati per La città delle donne e poi per Prova d’orchestra. Nel frattempo avevo lavorato con Petri, Ferreri, Comencini, un sacco di bei film, com’era il cinema italiano una volta. Ci siamo ritrovati con Fellini a Cinecittà, erano passati dieci anni; di notte sotto un lampione, lui girava con una cartella come quella delle elementari. Lui disegnava e io traducevo in modellini la casa di Katzone e tutto il resto.

Marcello Mastroianni in "La città delle donne"
Marcello Mastroianni in “La città delle donne”

Per Prova d’orchestra arrivò con un disegnino: la sala dove c’era l’orchestra e poi un buco sul muro buttato giù da un bulldozer. Gli dissi: “Ho visto a New York un film con Paul Newman che faceva l’operaio e buttava giù i palazzi con una enorme sfera d’acciaio”. E così fu per Prova d’orchestra.
Stranamente andavamo sempre d’accordo. Quando costruivo qualcosa, mi diceva che tre pareti gli bastavano, poi voleva anche la quarta, di corsa, e magari poi non la usava. In realtà lui prendeva tempo, rifletteva su quello che doveva fare.
Quando andavamo insieme a Cinecittà di mattina presto: “Dantino, cosa hai sognato stanotte?”. Niente, non mi ricordo. Dopo una settimana ho incominciato a inventarmi sogni, più o meno quello che avevo vissuto da ragazzino a Macerata, che mi buttavo sotto al tavolo per guardare le cosce della sarta o della macellaia, che metteva le tette sopra al bancone. Lui sapeva benissimo che mi inventavo tutto.
Per  E la nave va ho costruito un grande bilico per far muovere la nave come se fosse in mezzo al mare. Lui sale a bordo, vede il bilico muoversi e fa: “Ma io soffro il mal di mare! È meglio se ci mettiamo fuori e muoviamo la macchina da presa e anche il mare di qua e di là”. Ormai lo conoscevo e mi aspettavo di tutto, però siamo andati d’accordo a lungo e oltretutto ci univa anche quel tanto di provincialismo che era rimasto dentro di noi.
Con Federico si ricostruiva sempre tutto, non si girava mai niente dal vero. Per La città delle donne  abbiamo ricostruito persino un pezzo di strada di Fregene. A lui piaceva stare a Cinecittà, la muoveva e la reinventava come voleva lui. Quanto si stava fuori, la realtà era più complicata da manipolare.
Di Federico posso dire oltretutto che è stato la mia possibilità di una carriera all’estero, la mia carta verde, il mio passaporto diplomatico. Grazie a lui mi hanno chiamato tanti altri registi, Terry Gilliam per Il Barone di Münchhausen, Coppola, De Palma, Kenneth Branagh, Neil Jordan, Tim Burton e naturalmente Martin Scorsese.

Scorsese
Anche Scorsese l’ho conosciuto grazie a Fellini. Ci venne a trovare sul set di La città delle donne, stava già con Isabella Rossellini e il divertente fu che venne in teatro proprio mentre stavamo girando la scena in un bordello.
Mi chiamò a varie riprese, ma ero sempre occupato con altri film. Finché una volta ho fatto la valigia e sono andato a New York in aereo, quello dell’ Mgm dove c’era il figlio di Sinatra che suonava e cantava, il bar e le cabine con due chaise longue come due letti. Ho dormito accanto a una persona completamente coperta, si vedeva solo la mano di una signora di colore; la mattina si alza e mi butta addosso la coperta: era Naomi Campbell con bodyguard al seguito. Insomma posso raccontare che ho passato una notte con Naomi Campbell.
Con Scorsese lavoro da sempre benissimo. Parliamo non più di due o tre ore dopo che ho letto la sceneggiatura. Quando comincio a preparare il film, vado nel suo ufficio con sala proiezione e lui mi fa vedere tanti film secondo una sua scaletta. Non suoi, ma della storia del cinema: “vedi, mi dice, questo è un film bellissimo, però non c’entra niente con noi, ma spesso indica un’atmosfera, un’inquadratura, questo sì, quello no”. E poi “benvenuto a bordo”, e io comincio a disegnare con costruzione di modellini perché si renda conto della tridimensionalità: “Great, great, great”, mi dice.
Viene a vedere il costruito una volta, al massimo due. Ai tempi di Aviator a Montréal, dove abbiamo ricostruito tutto, gli dico: “Scusa, Martin, vuoi dare un’occhiata visto che domani giriamo l’esterno del teatro cinese e non hai ancora visto niente?”. E lui: “Dante, sto girando, non mi far camminare…”. Ma, scusa, domani giri una scena con mille comparse e, se c’è qualcosa che non va, che facciamo? Finalmente si decide, guarda e mi fa: “Oh my God, ma questo è tutto vero, great great, grazie Dante”.
Silence, il suo l’ultimo film, l’ho preparato cinque volte e finalmente l’abbiamo girato a Taiwan. È ambientato nel Giappone del 1620 e racconta dei gesuiti che vanno a cristianizzare il Giappone. Abbiamo ricostruito tutto: un pezzo della Cina, il porto di Macao, la chiesa di Macao, edifici enormi, un pezzo di Nagasaki, vari villaggi: insomma tutto il Giappone è stato creato a Taiwan; del Giappone c’è solo l’arredamento che Francesca Lo Schiavo, mia moglie, ha fatto venire in parte da Kyoto.

Regista
L’ho fatto solo a teatro per la Carmen, una scena vuota, tre tende, ambientazione anni  ‘30 e, siccome non mi piace il flamenco, c’ho messo il tango, grandissimo successo. Regia al cinema? No, no non mi va di aspettare quando mettono le luci, immaginarmi tutto prima… Mi piacerebbe solo per far fare le scene a un altro e poi contestarlo, così per una volta sono io che rompo le scatole. Sto scherzando…