Da Versuta a Firenze nel segno di PPP, di Franco Zabagli

Il cuore del minuscolo borgo contadino di Versuta, che si trova nelle ultime propaggini di Casarsa, è la piccola chiesa di Sant’Antonio Abate, luogo familiare e “mitico” per chiunque abbia letto le prose friulane del giovane Pasolini. E proprio in quello scrigno, impreziosito da mirabili affreschi del tardo medioevo, sabato 10 ottobre 2015 sono stati presentati tre volumi di Pasolini, da poco ristampati da Guanda: Un paese di temporali e di primule, Romàns e Poesie scelte. A suo tempo ne fu curatore Nico Naldini, di sette anni più giovane del geniale cugino-poeta, da cui fu contagiato in gioventù al valore della scrittura in versi e della letteratura attorno al cenacolo, “mitico” anch’esso, dell’Academiuta di lenga furlana, fondata proprio a Versuta il 18 febbraio 1945.
La presentazione, cui ha partecipato con emozione lo stesso Naldini,  ha fornito l’occasione non solo per festeggiare tre libri importanti, che ormai erano introvabili, ma soprattutto per tributare una sincera riconoscenza a Naldini che con quelle sue opere ha contribuito in modo pionieristico ed essenziale a mettere in luce la formazione friulana del giovane Pier Paolo e a sottolinearne il decisivo carattere fondante.
Ne dà conto anche la splendida relazione tenuta per l’occasione da Franco Zabagli, responsabile del Gabinetto Vieusseux di Firenze in cui, come è noto, è depositato il fondo principale delle carte autografe di Pasolini. Con il suo consenso, la  pubblichiamo qui volentieri.

 Un tributo  a Nico Naldini, lucido studioso del giovane Pasolini friulano
di Franco Zabagli

I brevi appunti che mi sono preparato nascono già dall’emozione e dalla gratitudine per esser stato invitato in questo luogo, che non avevo ancora mai visitato. Un luogo, un ‘nome di paese’, Versuta, che agisce prontamente nell’immaginazione di chiunque si sia occupato di Pasolini. E voglio pensare che l’incontro di oggi abbia riportato anche solo per un istante, nel nostro presente, quel lontano miracolo di umanità cultura e poesia che in questo luogo è accaduto.
L’occasione concreta dell’incontro riguarda la ristampa di alcuni libri, in particolare Un paese di temporali e di primule e Romàns, che hanno contribuito in maniera determinante a far conoscere appropriatamente il Pasolini degli anni friulani, e soprattutto a collocare quell’esperienza di zoventùt in una posizione eminente, e per così dire generativa, di tutta la vicenda poetica di Pasolini.
Siamo ora agli inizi di un anniversario, il 40° dalla scomparsa, che si annuncia fitto di iniziative in tutta l’Italia e all’estero. A conferma di un’attenzione sempre crescente verso la figura di Pasolini, di un lavoro di ricerca e di studio attorno alla sua opera che è ormai quella che si riserva ad un classico. In una bibliografia che è diventato arduo tenere aggiornata, i libri di Nico Naldini restano un punto fermo per l’autorevolezza testimoniale, per l’attenta aderenza a quel che Pasolini è veramente stato e a quello che la sua opera rappresenta. Una specie di talismano che ha l’effetto di ricondurre il lettore alla sincerità più intima delle intenzioni poetiche, al di là di tante interpretazioni ipertrofiche che si sono sedimentate nel tempo.
Insieme ai due libri propriamente, diciamo così, ‘friulani’, si aggiunge la ristampa delle Poesie scelte, alla quale Francesco Zambon ha contribuito con una introduzione e una serie di ‘cappelli’ alle singole sezioni che hanno uno stile interpretativo assolutamente omogeneo a quello di Naldini, uno stile che aiuta davvero il lettore a sciogliere la complessità dei testi, rispettandone la densità di significato e l’originalità sperimentale. Un approccio dove si sentono, lasciatemelo dire, strumenti e metodo della filologia romanza, che fin dalla recensione di Gianfranco Contini alle Poesie a Casarsa si sono sempre rivelati particolarmente  idonei a render conto di una poesia come quella di Pasolini.

Copertina del libro "Poesie a Casarsa"
Copertina del libro “Poesie a Casarsa”(1942)

In questo mio intervento non devo dimenticare che sono qui in trasferta da Firenze anche per portare il saluto dell’istituzione che rappresento, il Gabinetto Vieusseux, e in particolare della direttrice Gloria Manghetti, che in questi giorni non aveva modo di poter venire di persona. Come sapete, fin dal 1989 le carte di Pasolini sono state affidate da Graziella Chiarcossi al nostro Istituto, dove io all’epoca già lavoravo grazie a una borsa di studio. Fu così che venne affidato proprio a me l’incarico di occuparmi dell’archivio di Pasolini, un poeta a cui mi ero già irrimediabilmente appassionato fin dagli anni del liceo. Non finirò mai di ringraziare il destino di aver previsto per me un privilegio così entusiasmante.
Presso il Gabinetto Vieusseux era già attiva la sezione dell’Archivio Contemporaneo, fondata da Alessandro Bonsanti proprio con l’obiettivo speciale di conservare e studiare gli archivi letterari del Novecento, una sezione dove già si trovavano collocati fondi importanti come quelli di Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis, Eduardo De Filippo. Ma al di là della specializzazione tecnica del Vieusseux, tante volte mi sono divertito a interrogarmi su possibili ragioni d’altra natura, ragioni ideali insomma, per questa collocazione postuma del Fondo Pasolini in una città così poco pasoliniana come Firenze.
Al momento di venir via dal Friuli, nelle sue lettere c’è sì qualche accenno all’idea che Firenze potesse essere un posto in cui trasferirsi; ma all’inizio degli anni Cinquanta l’attrattiva culturale della città si andava rapidamente smorzando, ed era già iniziata la diaspora dei letterati che fino ad allora l’avevano resa illustre. Palazzeschi e Gadda si erano trasferiti a Roma, Montale a Milano, e così via. Firenze diventa allora per Pasolini la città dove risiedono e hanno cattedra i suoi venerati Maestri, Gianfranco Contini e Roberto Longhi. La città di Anna Banti e della rivista “Paragone”, dove Pasolini pubblica i primi capitoli di Ragazzi di vita e i primi poemetti delle Ceneri di Gramsci. E proprio nella collana della ‘Biblioteca di “Paragone”’, presso il fiorentino editore Sansoni, mi piace qui ricordare che viene pubblicata, nel 1954, la raccolta definitiva delle poesie friulane La meglio gioventù. Firenze è anche la città dove risiedono due amici poeti appartati e discreti come Carlo Betocchi e Alessandro Parronchi, e da quest’ultimo, da sempre frequentatore del Vieusseux, ho fatto in tempo a farmi raccontare di quando nel ’42 gli arrivò una plaquette intitolata Poesie a Casarsa, in cui uno sconosciuto poeta aveva affidato a una lingua misteriosa il suo “trobar clus”.
Ma sempre in cerca di ragioni ideali, ricordiamoci soprattutto che l’Archivio Contemporaneo ha sede in un palazzo storico di via Maggio, dove da una parte, a poche centinaia di metri, si trova la chiesa di Santa Felicita, con l’Annunciazione e la Deposizione del Pontormo,  dall’altra c’è il Carmine, con la Cappella Brancacci e gli affreschi di Masaccio. Due riferimenti fondamentali nella cultura figurativa di Pasolini, e penso proprio che per i materiali del suo Laboratorio non avrebbe potuto esserci una contiguità più felice di questa.
Ma volevo tornare a dire ancora qualcosa sui libri di cui festeggiamo la ristampa e sul lavoro di Nico Naldini. Sappiamo bene come Naldini abbia condiviso, insieme alle vicende famigliari, le esperienze di poesia e di cultura del cugino Pasolini, e come abbia partecipato lui stesso dell’energia maieutica di quel maestro poco più anziano di lui, fino a rivelarsi poeta proprio nelle preziose edizioncine dell’Academiuta. Ha continuato negli anni a scrivere versi “quasi con ritrosia e sottobanco”, come scriveva Zanzotto, elaborando a un tempo una scrittura in prosa di un’eleganza lineare, paratattica, attento all’esattezza di ogni parola e sempre sintonizzato su una sincerità rigorosa e quasi perentoria. E’ questa la scrittura delle sue numerose biografie e delle sue prose di memoria, nonché del lungo saggio-racconto, quasi cento pagine, che introduce agli scritti raccolti in Un paese di temporali e di primule. E devo dire che si resta sempre stupiti di come Naldini riesca a ricomporre queste vicende famigliari in una forma così oggettivata, e con uno stile così risolutamente libero dalle vischiosità dell’ego, il più lurido di tutti i pronomi, come diceva Gadda.
Il racconto degli anni friulani di Pasolini comincia così, dalla scena finale:

Il 28 gennaio del 1950 ho accompagnato Susanna e Pier Paolo alla stazione di Casarsa. Era ancora notte quando arrivò il treno per Roma, e ci siamo salutati al buio.

E’ questa l’unica frase in cui Naldini usa la prima persona, ed è quanto basta per collocare tutto il seguito del racconto in una emozionante prospettiva di verità.
Non c’è però solo il racconto. C’è anche l’attestazione di tante informazioni importanti che correggono lo stesso Pasolini e la sua automitologia. Penso ad esempio a quello che Naldini precisa sulle letture di Freud negli anni bolognesi, sui Tre saggi sulla teoria sessuale, dov’era stabilita una definizione del narcisismo già impeccabilmente coincidente con il cosmo psicologico delle poesie friulane. Penso ancora alle pagine che spiegano i rapporti con le tendenze autonomiste della regione e con personaggi come Gianfranco D’Aronco e don Giuseppe Marchetti, autore di quella grammatica di cui io stesso mi sono a suo tempo servito per familiarizzarmi col vostro idioma. Ma soprattutto sono tornato a riflettere con vivo interesse su come Naldini riesce a chiarire certe sottili peculiarità nella scelta del dialetto casarsese da parte di Pasolini. Una scelta ancora esitante nelle soluzioni linguistiche delle Poesie a Casarsa pubblicate nel ’42, ma poi sempre più aderenti a quella variante locale, a quella minuscola isoglossa di cà l’aga dove ci troviamo oggi. Non è solo il rustico, prezioso adempimento dell’utopia simbolista di una lingua speciale per la poesia, ma la scoperta di uno strumento espressivo che riduce al minimo la distanza fra le parole e le cose, una lingua che sembra coincidere esattamente col cielo l’acqua l’erba le nuvole i campi, una lingua che trattiene naturalmente, in se stessa, un’altissima concentrazione di Realtà, per dirlo con una parola tematica essenziale del lessico di Pasolini.
Questa idea del dialetto, così come Naldini la illustra, si salda perfettamente con una magnifica intuizione di Gianfranco Contini, il quale stabilisce una equivalenza, e riconosce una sorta di vera e propria continuità stilistica, fra l’uso del dialetto e la futura opzione di Pasolini per il cinema e la macchina da presa, in quanto strumenti che entrambi riducono al minimo la mediazione con la Realtà, per rivelare direttamente la poesia intrinseca delle cose.
Ma mi avvio a chiudere davvero, anche se la gioia di essere qui mi ricorda le infinite volte in cui mi sono immerso nell’intatto miracolo delle poesie friulane di Pasolini, le semplici sillabe di O me donzel o de Il nini muart, l’acqua che cresce nel fosso, le campane, l’epifania della femina plena che immagino maestosa, trepidante e lunare come sarà Silvana Mangano nelle prime sequenze di Edipo re.
Un ultimo, minuscolo appunto, per collegare il Pasolini degli anni friulani con la formidabile esperienza espressiva a cui la sua ricerca lo condurrà. Molti di voi ricorderanno la pagina in cui racconta di aver avuto l’intuizione di scrivere poesie in friulano sentendo pronunciare, nel silenzio estivo di queste campagne, la parola rosada, ‘rugiada’. Trent’anni anni dopo, un altro umore, un altro liquido, un’altra parola letta per caso sulla pagina di un quotidiano gli farà intuire, in un mondo completamente cambiato, la sua ultima straordinaria avventura di poeta. Petrolio. Grazie.

Franco Zabagli
Versuta, 10 ottobre 2015

*Foto in copertina: © Elio Ciol