“Cuore di borgata”, di Gigi Riva

Cuore di borgata

con foto di Alfredo Covino per “L’Espresso”

di Gigi Riva, “L’Espresso”, 19 settembre 2013

Nel Tevere non si tuffa nessuno. Le dune della spiaggia del Riccetto non ci sono più. Sul litorale governano i clan.

Ma la Roma di Pasolini sopravvive nei ricordi

espresso03-foto Covino

Un bagnino spiana la sabbia mentre il sole si tuffa nel mare di Ostia tra la malinconia dello stabilimento vuoto e la pro­messa dell’indomani quando torneranno le mamme coi bambini, i ragaz­zi faranno gare di nuoto e virilità, riapriran­no gli ombrelloni e le casse dei bar per quell’allegra confusione dei giorni d’estate. Accanto, nella spiaggia libera e gratuita, una moltitudine ancora si accalca. E sono le donne velate coi pantaloni leggeri sotto il ginocchio vigilate da mariti-custodi dell’or­todossia dell’Islam. Magrebini. Anche gen­ti che vengono da più lontano, coi tratti somatici del subcontinente indiano. Ben­galesi, pakistani, instancabili venditori di cianfrusaglie. Le più disinibite signore dell’Est con le tette che puntano l’orizzon­te. Naturalmente i romani che si distinguo­no in quella mescolanza per la padronanza coi luoghi. Si muovono con la sicurezza di chi sembra aver scritto in fronte “comun­que questo è nostro”.
Pier Paolo Pasolini l’aveva profetizzato, «Ostia come Bombay», quando la globa­lizzazione era di là da venire ma aveva già preso forma nella testa dell’intellettuale che sapeva trapassare il tempo. E aveva trasfor­mato quel lido in un sogno esotico, un’idea di Africa casereccia per i borgatari d’acqua dolce. Il “Riccetto” di Ragazzi di vita (1955) parte la domenica da via di Donna Olimpia, a Monteverde, per il suo viaggio fantastico, il suo posto al sole conquistato al prezzo di piccoli furti che gli servono per pagare il trenino verso il mare, un pranzo al sacco e i servigi della prostituta Nadia, che lo svezzerà, ancora prima dell’adolescenza, in un casotto dietro le dune là al “Marechiaro”. Contribuirà a fargli perdere l’innocen­za svuotandogli il borsellino mentre il Ric­cetto è impegnato nel suo primo veloce amplesso e ha abbassato il senso vigile che lo qualifica furbino.
Ladruncoli per sussi­stenza entrambi, in quell’Italia degli anni Cinquanta con un piede nello stentato do­poguerra e uno non ancora affondato nel boom che si annuncia. Piccole canaglie simpatiche da neorealismo, assai diverse da quelle che oggi, sessant’anni dopo, nella stessa Ostia, fanno saltare con l’esplosivo gli stabilimenti, in una guerra per bande e per il controllo del territorio tutta nostrana (pare, a sentire gli inquirenti). Col risultato che il lido di Roma ha quasi spento le luci e sono un ricordo nostalgico gli anni Ot­tanta con le discoteche aperte fino all’alba perché non solo a Milano c’era qualcosa da bere. Arresti nei clan dei nomadi italia­ni, inchieste, affari e politica: il nostro peggio. Non ci crede nemmeno chi lo dice che la colpa è degli immigrati, il solito ca­pro espiatorio per l’orgoglio nazionale. Pasolini li avrebbe definiti con una bella parola antica (non obsoleta malgrado la desuetudine) “proletari”.
I nuovi ragazzi “proletari ” della stessa età del Riccetto letterario stanno su un rettan­golo di cemento di piazza Gasparri a rincor­rere un pallone sfiatato, dentro a divise troppo grandi o troppo piccole (con preva­lenza di Roma e Barcellona) ma inevitabil­mente segnate dalle troppe partitelle di calcio senza un passaggio in lavanderia. Pure qui è mescolanza dove non ha diritto di cittadinanza il razzismo e l’unica gradua­toria accettata è l’abilità nel trattare la palla. S’ammazzano di volontaria fatica finché la luce naturale lo permette (non ci sono lampioni) in un confondersi di lingue e dialetti dove spicca forte un romanesco che sarebbe piaciuto al poeta: «Ahó, me sudano pure i laccetti». O anche: «’Sti cazzi de piante», piuttosto dei rovi che crescono al margine del campo improvvisato e scorticano le gambe degli atleti. Puliscono via con la mano il sangue che gli cola lungo i polpacci e sono pronti al nuovo attacco. In testa, invariabilmente, creste simil-Balotelli o El Shaarawy. Tate ucraine sono le uniche spet­tatrici peraltro disinteressate. E nessuno dei calciatori sa che la statua che li veglia lì a fianco è dedicata a Pasolini, oscenamente deturpata con un disegno blasfemo: uno dei tre monumenti che gli ha dedicato il borgo che ha cantato e dove ha trovato la morte violenta.
Troppa grazia se l’esibizione pub­blica di memoria e gratitudine stride con l’oblio delle coscienze. Almeno nel luogo del delitto, già discarica immonda, adesso i volontari della Lipu tengono con decoro un’oasi naturale dove passano i fenicotteri rosa e dove arrivano, alla spicciolata, ogni giorno, da ogni dove, lettori riconoscenti (poco fa un coreano!) che si siedono sulle panchine a sfogliare le sue pagine e imma­ginarsi l’Idroscalo com’era, mentre adesso incombe il mostro contemporaneo e pre­tenzioso del nuovo porto, coi suoi uffici sfitti e gli yacht dei nuovi ricchi.
Anche Pino Pelosi detto “la Rana”, l’assassino certificato dalla giustizia (ma i complici?) ci lavorò, al parco, e non si è mai capito se per un desiderio di espiazione o se per perpetuare quella fama che lega, indissolubilmente, il carnefice alla sua illustre vittima
Per il Riccetto e gli altri della banda, l’Africa-Ostia durava lo spazio di una domeni­ca. Perché il mare vero, in tutti i sensi senza sale, era il biondo Tevere. Dove oggi ci vuole coraggio a buttarsi e si rischiano ma­lattie. L’Estate romana delle tende bianche dei ristoranti e delle chincaglierie, tra ponte Sisto e l’isola Tiberina, si ferma dove comin­cia l’acqua putrida. Che scorre nel luogo dove il ragazzo, non ancora contaminato dalla prudenza piccolo borghese, sfidò la corrente per salvare una rondine (primo capitolo; nell’ultimo, cresciutello e già avvezzo al calcolo costi-benefici, resterà im­passi bile a guardare l’amico Genesio mentre annega). Allora erano maleodoranti le rive e il romanzo è del resto pervaso dagli odori acri dell’abbandono e dell’immondi­zia. Al Tevere non ci andavano i signori in cerca di fresco ma ragazzi di borgata sog­giogati dalla potenza di quelle acque impe­tuose che li chiamavano all’impresa dell’an­dare da riva a riva con la forza delle braccia: un rito di iniziazione talvolta fatale perché contemplava anche la possibilità di essere travolti.
Non ci sono più le dune a Ostia. Il Tevere, ora placido ora ribollente per i nubifragi a monte, è comunque impraticabile per i nuotatori. Del panorama di Ragazzi di vita ci siamo persi le uniche bellezze censite (e che erano rimaste pressoché inalterate nei secoli), sacrificate al turismo di massa che vuole il litorale facile e piatto e a un’idea di progresso che condanna i fiumi a coreo­grafia sudicia (il Tevere è “bandiera nera” per la Goletta Verde). Al contrario ci siamo tenuti l’orrore architettonico che Pasolini descrisse allo stato nascente nell’opera non per caso coetanea della copertina de “l’E­spresso” dal famoso titolo “Capitale corrot­ta = nazione infetta”, sul sacco edilizio. Il Riccetto «scendeva giù per via Donna Olimpia» (terza riga del romanzo) passan­do accanto ai grattacieli costruiti per allog­giare la popolazione sfollata da due nuclei urbani demoliti. Lo avrebbe fatto, per tutto l’arco dell’esistenza, sino a pochi mesi fa, quando Orlando Marecchioni, detto appunto “il Riccetto”, ha lasciato questa valle di lacrime. Marecchioni si è sempre auto-certificato come il protagonista e vista l’au­torità malandrina che aveva, sulla carta e nella realtà, nessuno ha osato mettere in dubbio la sovrapposizione identitaria.

Er Pecetto - Silvio Parrello - Foto Covino

Cosa che invece si permette adesso “il Pecetto”, al secolo Silvio Parrello, pittore e poeta: «Riccetti se so’ detti in tanti e per me quello vero era Claudio Mastracca (nome che compare in un solo passaggio del ro­manzo, ndr.), uno che se n’è andato via da Monteverde e chissà che fine ha fatto». Probabile che Pasolini abbia concentrato in un personaggio caratteristiche di più sog­getti. È permesso alla “letteratura del vero” sconfinare nella finzione. E in fondo poco importa. Conta come lo scrittore abbia re­stituito, qualunque artifizio abbia usato, un ambiente così com’era. «Perfetto», a giudi­zio del “Pecetto” (figlio del calzolaio che usava la pece). Che poi ha trascorso tutti gli anni, per arrivare agli attuali 71, a costruir­si l’immagine di custode del lascito di «Pier Paolo Pasolini a Monteverde», sino a ritagliarsi un identico acronimo “Pecetto Par­rello Pittore” e a trasformare la sua bottega di via Federico Ozanam 134 in un luogo pasoliniano di dipinti, libri, fotografie, articoli di giornale, oltre a essere memoria vi­vente di racconti, aneddoti, curiosità. Come si sentisse investito del ruolo del cronista che deve qualcosa alla storia di un luogo, un romanzo e, soprattutto, del suo autore.
Non che la Monteverde ufficiale sia com­pletamente dimentica. Ha dedicato un opuscolo allo scrittore, c’è una targa nell’a­trio di via Fonteiana 86 dove abitava, un’al­tra sul muro della scuola elementre Franceschi, che crollò in parte il 17 marzo del 1951 (4 morti e 15 feriti), episodio che si trova nell’opera. Di tanto in tanto si fanno rappresentazioni teatrali. Eppure sembrano operazioni obbligatorie. Il Pecetto dubita che, oltre alle celebrazioni protocollari, sia rimasto qualcosa di Pasolini: «Che ne sanno ‘sti ragazzi d’oggi? So’ tristi, so’. Questi se sballano tutti i ggiorni. Nun c’hanno er senso der quartiere. Qui non li vedi mai e per divertisse vanno ar centro. So’ depressi ». Non come i ragazzi degli anni Cinquanta per cui Roma era un viaggio. Dicevano «andiamo a Roma» come se appartenesse­ro a un altro pianeta. Ma gli bastava poco per trovare un perché alla giornata sotto casa. Si ritenevano fortunati se potevano comprarsi un cucciolo di cane. O giocare a calcio col quel signore sempre in camicia bianca che si portava gli scarpini e nei cam­pi inventati con le porte posticce «era un duro, forte come un toro». Poi lasciava aperta la portiera della 600 che gli aveva regalato Federico Fellini perché i ragazzi di vita si intrufolassero a caccia degli spiccioli lasciati apposta nell’abitacolo. Un modo per dargli una mancia senza offenderli. Perché Pier Paolo era «uno di noi».
E allora, al netto del tri­buto che diamo all’adole­scenza perché è la stagione dove tutto ci sembra possi­bile, forse sotto sotto il Pe­cetto proprio a questo tiene nel paragone con gli eredi del quartiere: loro non hanno avuto la fortuna di un aedo che li possa immorta­lare Ragazzi di vita per sempre. Anche se i soldi li hanno in tasca e per “divertisse” possono scendere giù al Corso.