Canterbury, Ninetto e L’hobby del sonetto
Tra il 1971 e il 1973 – quindi soprattutto mentre era impegnato a girare I racconti di Canterbury – Pasolini lavorò a una serie di sonetti raccolti sotto il titolo L’Hobby del sonetto, che a lungo rimasti inediti sono infine apparsi nel Meridiano Mondadori dedicato alla poesia dell’autore nel 2003. Lo schema letterario corrisponde a una situazione intima dolorosissima, della quale gli amici del poeta erano a conoscenza ma che è rimasta a lungo ignota al grande pubblico. Ne esce un Pasolini furiosamente innamorato, la cui relazione con Ninetto (che non sappiamo se fosse sessuale, né in che modo e con quali sfumature fosse ricambiata da Davoli) ci appare come un esempio di reciproca devozione e amicizia amorosa. L’Hobby del sonetto è un vero e proprio canzoniere omoerotico, nella tradizione dei sonetti di Michelangelo per Tommaso Cavalieri o di quelli di Shakespeare per il suo “Lord of my love”. Il destinatario dei sonetti pasoliniani è Ninetto Davoli che qui diventa shakespearianamente “mio Signore e Padrone”. L’occasione del canzoniere è la decisione di Ninetto di sposarsi, che Pasolini vive come una tragedia senza scampo, come testimoniano alcune lettere di questo periodo, a cominciare da quella, non spedita, scritta alla futura moglie di Ninetto: ”Ninetto ormai costituisce la mia vita, che senza di lui mi è diventata inconcepibile. Tu sai che chi ama è egoista, e vorrebbe tutta per sé la persona amata. E così io con Ninetto: lo amo, e perciò lo vorrei tutto per me, com’è sempre stato in questi otto anni che ci conosciamo (…) Per otto anni, giorno e notte, Ninetto è stato mio, il mio amico fedele (…) io muoio al pensiero che Ninetto non sia più il mio Ninetto”. La scelta del suo giovane compagno è però irremovibile e al poeta non resta che inveire contro la sua rivale, la “ragazza scipita” che “ha il genio della banalità”, circondata dallo “stuolo infido di parenti”, “i grevi mobili”, “la cucina finto-americana” e tutto un mondo antiestetico che “sevizia/ la mia povera anima libertina/ in un vecchio, atroce struggimento”. Ai propositi suicidi o di rottura irreversibile succede però una più rassegnata e fatalistica accettazione della realtà: “Per contro io vivo la realtà/ riservata al diverso che alternativa non ha/ che volere il bene di chi ama (come se / fosse giusto per lui solo ciò che dà infelicità)”.
L’Hobby del sonetto
Quando ho girato Canterbury era un periodo molto particolare, ero molto, molto, molto infelice, non ero adatto per una trilogia nata all’insegna della spensieratezza, dello «stile medio», del sogno, e anche del comico, per quanto astratto. E forse se non fossi stato così infelice, non mi sarebbe venuto in mente di citare Chaplin così apertamente, con bastoncino e cappello.
Qual è la causa di questa infelicità, che sembrerebbe mettere in crisi tutto il progetto (appena iniziato) della Trilogia della vita?
La sceneggiatura dei Racconti di Canterbury (dove l’episodio tratto dal Racconto del Cuoco possiede già ascendenze chapliniane) fu terminata entro l’inizio dell’estate del ’71 quando iniziarono i sopralluoghi in Inghilterra per la scelta delle ambientazioni e dei personaggi del film. Da pochi mesi, Ninetto Davoli si era fidanzato con una ragazza della sua età esprimendo chiaramente la sua intenzione di sposarsi. È questo fatto, la scelta esclusiva di una compagna operata da Ninetto, che fa precipitare Pasolini nel più cupo sconforto.
In agosto scriveva a Paolo Volponi, in risposta ad una lettera sulle impressioni di quest’ultimo alla lettura di Trasumanar e organizzar:
Avrei saltato di gioia leggendo quello che mi dici delle mie poesie – se non fossi in un periodo in cui sono quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui (…).
Sempre all’agosto del 1971 risale l’inizio di una raccolta poetica intitolata L’hobby del sonetto; costituita da sonetti scritti in Italia e in Inghilterra fino al febbraio del 1973. La maggior parte di questi componimenti è dominata dall’espressione del dolore annichilente che deriva dal forzato distacco (sentimentale, non fisico) da Ninetto; dolore a cui è strettamente intrecciato il rimpianto straziante della gioia che questo periodo, ormai concluso, portava con sé:
Il vostro posto era al mio fianco,
e voi ne eravate anche fiero; dicevate,
del sedile della macchina presso il volante,
«Qua ci devo stare solo io». Le annate
che fanno una vita passarono in un istante.
Qualcosa che aspettava in agguato
accadde. Ma io non so che cosa. Siete distante
da me, pare per un amore. Vi ho dato
ogni potere sulla mia esistenza,
e voi, certo per umiltà, per obbedire
a un destino che vi vuole povero,
non sapete che farne: e io son senza
alcun diritto, nel consorzio civile,
di pretendere che non mi diate dolore.
Canterbury
e ancora:
Penso a voi e mi dico: «L’ho perduto»
– con un dolore che potrei esprimere morendo,
non altrimenti. Dopo un minuto
ripenso a voi: e lietamente riprende
forza la vostra immagine. Rifiuto
allora di piangervi, ricredendomi.
Poi di nuovo vi considero perduto.
Siete o non siete un altro, mio tremendo
Signore che non sa cosa gli capita?
Sempre ci si perde, anche senza proprio morire:
lo sapevamo – io pedante, voi leggero.
Ma il conoscervi ha mutato
tutto: e se vi perdo vuol dire
che mi ritrovo, senza vita, dov’ero.
Bath, 24 ottobre 1971
e ancora:
C’era nel mondo – nessuno lo sapeva –
qualcosa che non aveva prezzo,
ed era unico: non c’era codice né Chiesa
che lo classificasse. Era nel mezzo
della vita e, per confrontarsi, non aveva
che se stesso. Non ebbe, per un pezzo
nemmeno senso: poi riempì l’intera
mia realtà: Era la tua gaiezza.
Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente: te n’è rimasto
un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto.
Benevento, 3 Febbraio 1973
Questa digressione verso una zona marginale della produzione letteraria e, soprattutto, verso la vita del poeta, è non meno necessaria di quelle che sono state fatte, a suo tempo, a proposito dell’ideologia e delle espressioni artistiche “maggiori”. Già allora, infatti, si è cercato di mettere in evidenza come alla maturazione del pensiero ideologico e delle argomentazioni sociologiche corrispondesse, sul piano esistenziale, una “assunzione su di sé” (quasi una somatizzazione) dei punti dolenti delle problematiche affrontate. Pasolini non si limitava ad analizzare, a denunciare, a prendere atto del mutamento antropologico avvenuto nel cuore dell’universo popolare; ma lo viveva personalmente, nel suo peregrinare notturno e ossessivo per le borgate romane (o per una città dell’oriente arabo o dell’africa nera postcoloniale), ne soffriva gli effetti e le degradazioni negli aspetti più intimi e profondi della sua vita.
In questo caso, d’altro canto, si evidenzia come un episodio del vissuto del poeta (il “tradimento” innocente di Ninetto) si intrecci a doppio filo sia con l’analisi pasoliniana della metamorfosi sociale sia, e soprattutto, con la realizzazione di una sua opera cinematografica.
L’episodio
Il Racconto del Cuoco, infatti, se fin da subito appare come un inno alla santa leggerezza e incoscienza della gioia di vivere (incarnati naturalmente, agli occhi di Pasolini, in Ninetto), d’altro lato si presenta immediatamente come un inno viziato e offuscato dalla straziante consapevolezza della irrimediabilità della perdita.
Il continuo ricorso alla citazione chapliniana, poi, talmente esplicita e ossequiosa da ricordare la puntigliosità dei vari tableaux vivants, oltre a confermare per l’ennesima volta l’attitudine pasoliniana al pastiche, può essere visto come un espediente atto a distanziare la materia del racconto attraverso la figura ironizzante dell’Auctor, che viene posto come un’intercapedine tra l’opera e le sue scaturigini poetico-esistenzali. Le varie gag “alla Charlot”, dunque, fortemente stilizzate e come racchiuse all’interno di una rigida e codificata successione, permettono a Pasolini di affrontare e filmare ciò che altrimenti (ovvero preso di petto senza il ricorso a Chaplin) sarebbe stato quasi intollerabile.
La trama del racconto (che nei Canterbury Tales è lasciato ambiguamente sospeso ed incompleto) ha come unico filo conduttore il peregrinare erratico e gioioso di Perkin\Ninetto tra i bassi e le architetture paleoindustriali dei Docks londinesi. Perkin è di un’incoscienza sublime e innocente, alle prese con la necessità dell’appagamento dei bisogni primari (naturalmente il cibo ed il sesso), canta una medesima canzone sguaiata sia quando Bill gli presenta la moglie sgualdrina sia quando è posto sulla gogna al pubblico ludibrio; in modo che ogni cosa risulta illuminata e nello stesso tempo dissacrata dalla sua inscalfibile allegria.
Ma, come si è detto, questa allegria è come contagiata e snaturata dalla febbrile ossessione pasoliniana, che si accanisce verso qualcosa a cui sa di dover presto rinunciare. E allora la luce che scaturisce da questa allegria è una luce che illumina ma non scalda, perché riflessa dalla nostalgia e dal ricorso inevitabile alla citazione che, come uno “scudo di Perseo”, permette di sopportarne il peso della perdita.
Si pensi, ad esempio, alla scena iniziale, quando Perkin viene spinto dal padrone sul pavimento della locanda in cui lavora; sul viso del giovane appare, come stampato, un sorriso radioso ma immobile, tirato stancamente ai lati del viso, come se rimanesse l’immagine mentre ne è scomparsa la vita. Oppure si pensi al ritorno della consueta inquadratura pasoliniana di Ninetto, che fa capolino con gli “occhi ridarelli” da dietro un cesto di uova, questo ricorso di Pasolini ad un immagine così cara in un contesto carico dei flebili umori della nostalgia, appare fortemente come lo struggente vagheggiamento del tempo passato, da parte dell’amante, di fronte al suo “tremendo Signore \ che non sa cosa gli capita”.